È morta Esther Judith Singer / Chichita Calvino. «Vuoi un po’ di conversazione?»

23 Giugno 2018

All’anagrafe si chiamava Esther. Esther Judith Singer, per la precisione; ma tutti la chiamavano Chichita, fin dai tempi dell’infanzia argentina. Scarse le tracce delle origini russe; poco più forte l’impronta ebraica. Cresciuta nell’ambiente della borghesia colta di Buenos Aires, cominciò prestissimo ad avere contatti con il mondo dell’arte e della letteratura. Qualche anno fa, chiacchierando non ricordo più per quale motivo del centenario della Grande Guerra, mi è capitato di citare Stefan Zweig. Chichita non solo sapeva bene chi era Zweig (ovviamente), ma mi disse di averlo conosciuto di persona (lo scrittore austriaco, esule dopo il ’38 e naturalizzato britannico, nel ’42 viaggiò in Sud America, per poi togliersi la vita nella città brasiliana di Petrópolis). Ma ecco, senza volerlo sono già scivolato sull’aneddoto. Era inevitabile.

Chichita era una miniera, un giacimento di aneddoti. Ed era una formidabile narratrice orale, avvincente, avvolgente, imprevedibile. Non avendo io conosciuto Calvino di persona, mi sono fatto l’idea che per molti aspetti ne fosse l’esatto contrario. Lui introverso, taciturno, quasi afasico («anche un po’ autistico», mi disse una volta Chichita ridendo); lei disinvolta, aperta, ciarliera, ma nello stesso tempo sorvegliata e sensibile, e sempre attenta all’interlocutore. Nei pranzi importanti, a Parigi o a Roma – è sempre Chichita a ricordare – i padroni di casa erano usi collocarla accanto agli ospiti più difficili, perché sapeva parlare con tutti, di tutto, mentre Calvino apriva a stento la bocca.

 

«Vuoi un po’ di conversazione?» capitava che chiedesse durante i viaggi in automobile a Italo, silenzioso alla guida («anche se nel caso di Italo la parola “conversazione” è sempre un po’ eccessiva»). Italo rispondeva con un’enigmatica increspatura delle labbra («simile a quella dei koúroi greci») che voleva essere un sorriso di assenso; e lei cominciava a parlare. Io presumo che qualcosa di Chichita ci sia in almeno due personaggi calviniani: il Qfwfq delle Cosmicomiche, che è stato in ogni dove e in ogni quando e ha sempre un ricordo pertinente da produrre, e il Marco Polo delle Città invisibili, il viaggiatore che conosce le terre dell’Impero meglio di Kublai Kan. Qualcosa: forse solo un pizzico. Ma non è un caso che entrambi i personaggi siano nati dopo il 1962.

 

Si erano conosciuti appunto nel 1962, a Parigi, domenica 1° aprile. A propiziare l’incontro era stata Elvira Orphée, scrittrice argentina, moglie di Miguel Ocampo (nipote di Silvina e di Victoria Ocampo), allora attaché culturel a Parigi. In Francia, Chichita era sbarcata nel 1954, a Cannes, su una nave che si chiamava «Giulio Cesare». Avrebbe voluto raggiungere Parigi con il leggendario Train Bleu, ma quel giorno non c’era, quindi prese il Mistral. Il suo primo alloggio a Parigi fu un alberghetto modestissimo in rue Monsieur-le-Prince, non lontano dalla Sorbona: una strada che oggi, per più d’un visitatore italiano (e non solo), s’identifica con un locale storico della ristorazione parigina, Polidor («Allora c’era una fotografia di James Joyce; poi gli eredi l’hanno fatta togliere»). Quegli anni del dopoguerra sono difficili per tutti. Per un certo periodo Chichita vive in una stanzetta di rue de Seine, al quinto piano (ovviamente senza ascensore); condivide un bagno esterno con due pittori, un peruviano e un bielorusso, e un vietnamita di Huè. C’erano molti stranieri, a Parigi, di ogni parte del mondo. Chichita ricorda dei cileni che fumavano marijuana: «Poi ridevano tutto il giorno. O piangevano tutto il giorno». A volte capitava che i francesi trattassero male gli stranieri. La frase ricorrente – mai dimenticata nella sua sfacciata durezza – era: «Si vous n’aimez pas ça, vous n’avez qu’à rentrer chez vous».

 

Durante i primi anni in Europa Chichita lavorava come freelance, alternando Parigi e Vienna (che si poteva raggiungere con l’Orient Express). Poi si era stabilita a Parigi, dove faceva l’interprete per le Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali. Un paio di anni fa, in occasione di una visita a Roma, avevo trovato alla stazione Termini controlli di polizia insolitamente accurati. Ne accennai a Chichita, e lei si mise a parlare di uno schieramento di sicurezza imponente all’Étoile, in occasione di un colloquio tra lo sceicco Yamani e Henry Kissinger. Yamani rappresentava l’OPEC, l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (siamo all’epoca della prima crisi petrolifera, anni ’70) e parlava un inglese impeccabile, mentre Kissinger, pur da anni in America, non aveva mai perso l’accento tedesco. Duemilacinquecento poliziotti presidiavano la zona, i controlli erano severissimi; ma uno consentì a lei di uscire e rientrare rapidamente dall’edificio per prendersi un panino fuori durante una breve pausa.  

Un’altra caratteristica di Chichita era la sua capacità di formulare giudizi in forma di immagini. Una delle sue amiche più care, Aurora Bernárdez (scrittrice, traduttrice, moglie di Julio Cortázar) le chiese un parere sulla gonna che indossava; Chichita rispose che sembrava una governante di Edgar Allan Poe. «Ho capito. La vendo», disse Aurora. Di qualcun altro (non ricordo più chi) disse che sembrava un cocchiere del Circolo Pickwick.

 

Ecco, sono già a corto di episodi. Molte volte, insieme agli amici che hanno conosciuto Chichita, m’è capitato di rimpiangere che non abbia mai raccontato per esteso la propria vita. Ma l’idea di narrare ordinatamente, cronologicamente, anzi, l’idea stessa di mettersi programmaticamente a parlare di sé le era estranea. Sarebbe stato necessario registrare, o prendere appunti, mentre lei parlava a ruota libera; d’altra parte, lei parlava a ruota libera proprio perché chi le stava di fronte non prendeva appunti e non registrava. Non per segretezza o riservatezza (anche se era una persona sicuramente riservata), ma perché la sua vocazione, il suo il genio nativo, era proprio quello: la conversazione. Procedeva per associazioni, i legami fra gli eventi i luoghi le persone erano infiniti e imprevedibili. Nella sua lunga vita aveva conosciuto l’universo mondo, e ci scherzava su. Un giorno il nipote Félix (figlio del primogenito Marcelo, nato in Argentina dal primo matrimonio, poi cresciuto in Francia), allora liceale, le parla di una lezione di filosofia su Derrida. «Io commentai che m’era successo più volte di ballare con Derrida. Félix mi guardò esterrefatto, come se gli avessi detto che ero andata a cena con Platone».

 

Insieme a Italo visse poco più di vent’anni. Certo, il tempo del calendario, come quello dell’orologio, non è il tempo della coscienza umana, e la percezione della durata cambia con l’età. Colpisce però constatare che Chichita sia stata vedova di Calvino assai più a lungo di quanto non sia stata sua moglie (per l’esattezza, 33 anni: un periodo che per estensione supera la metà dell’intera esistenza del marito). L’improvvisa scomparsa di Italo nel 1985 le impose il ruolo (condiviso con la figlia Giovanna, allora studentessa universitaria) di «erede di Calvino». Nell’interpretarlo, si sforzò di rispettare la sua volontà e i suoi orientamenti nella maniera più rigorosa: «quello che avrebbe fatto Italo» fu la sua regola. Ma, com’è inevitabile, in molti casi non si poteva che andare per congettura, a tacere dei cambiamenti contestuali prodotti dal passar degli anni, che avrebbero richiesto ponderati mutamenti di prospettiva: così avvenne che lo scrupolo di fedeltà la spinse sulla via dell’ipercorrettismo. Di fatto, la sua gestione dell’eredità di Calvino è stata ispirata a una prudenza fin troppo restrittiva: prova ne sia che l’archivio calviniano – messo generosamente a disposizione dei curatori all’epoca dei «Meridiani», ma solo per i tempi ristretti imposti dalle scadenze editoriali – è tuttora precluso agli studiosi. Gli studi calviniani, è superfluo precisarlo, non ne hanno tratto vantaggio. E, quanto ai libri, una volta dati alle stampe i progetti lasciati a metà (Lezioni americane, Sotto il sole giaguaro) e tre raccolte di testi sparsi (Prima che tu dica Pronto, Eremita a Parigi, Perché leggere i classici) Chichita si è inibita – e ha inibito – ogni esercizio di flessibilità e creatività editoriale, nel timore che qualcuno la accusasse di sfruttare in maniera indebita il corpus di scritti che Calvino aveva lasciato.

 

Calvino, io non ho mai avuto l’occasione di incontrarlo. Me ne sono rammaricato a lungo, e solo con gli anni mi sono reso conto che il vero privilegio è stato aver potuto frequentare Chichita: se uno dei due meritava di essere conosciuto di persona, era certamente lei. Calvino è nei suoi libri, nei suoi libri vive e vivrà; di Chichita rimangono solo i ricordi che di lei abbiamo. Non pochi: ma pochissimi – ahimè – rispetto a quelli che aveva lei, e che lei era usa porgere, uno dopo l’altro, con un gusto della conversazione inesauribile, da civiltà d’altri tempi – una civiltà della parola che sempre più spesso, oggi, ci accorgiamo di rimpiangere. C’era qualcosa di incantato, più che di incantevole, nel suo rievocare persone, luoghi, episodi. Era, in fondo, il narrare di una lettrice: anzi, della Lettrice, la coprotagonista femminile di Se una notte d’inverno un viaggiatore. Anche se non è difficile indovinare qualche lineamento di Chichita altrove (nella signora Palomar, nella Olivia di Sotto il sole giaguaro), Ludmilla è senza dubbio il personaggio calviniano che a Chichita assomiglia di più.

 

Spesso, dopo aver rievocato ambienti e atmosfere passate, commentava: «Di tutto questo non è rimasto più niente». Allora, una leggera enfasi sulla parola niente (la i non più semiconsonantica, promossa a vocale optimo iure) esaltava il suo morbido accento argentino, steso come zucchero a velo su tutte le lingue che parlava. Quell’affermazione non aveva alcunché di patetico o sospiroso, e a ben vedere (a ben ascoltare) nemmeno di davvero nostalgico. Più che il rimpianto, si avvertiva in quelle parole la consapevolezza dell’inevitabile trascorrere dei tempi, unita a un sottile orgoglio nel sapersi depositaria di qualche cosa che vale la pena di rievocare. Le cose passano; la loro impronta – significati possibili, tracce, echi, risonanze – sopravvive nella parola di chi, ricordando, racconta. A condizione, s’intende, che sia capace di raccontare.

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