Una vita che non poteva essere lodata né biasimata / Bigger than life

10 Maggio 2017

Il necrologio è sfortunatamente un genere letterario. Lo si capisce quando chi scompare è qualcuno che conosciamo bene. Se si sono vissute molte cose insieme a una persona, il fatto che non ci sia più rende spesso difficile fare i conti con la sua vita. A prescindere dalla commozione (che è un sentimento nobilissimo, ma molto soggettivo, spesso piangiamo il noi stessi che la persona si è portata via) e dal rispetto (che è dovuto a coloro che transitano, ma che dopo un po’ diventa qualcosa di diverso, riserbo, dimenticanza o mistero), ogni necrologio è ingiusto. Proprio perché si permette di fare i conti con la vita di qualcuno come se “si fosse risolta”. Se c’è qualcosa di propriamente umano è la non conclusione, vorrei dire la “sconclusionatezza”. Se amiamo qualcuno la cosa è ancora più forte. La vita di qualcuno che abbiamo amato è sempre fuori da ogni conclusione, proprio perché l’interruzione lascia dei filamenti che vanno molto oltre il punto e a capo. Nel caso dei necrologi di personaggi illustri, cioè di quelli che i giornali chiamano “coccodrilli”, c’è una forma di retorica che soffoca ogni commozione. Colui o colei sono “entrate” nel novero degli “obituary” proprio perché di loro è facile “dire bene”, basta rifarsi alle loro opere, a ciò che essi nel campo scientifico o letterario avrebbero lasciato ai posteri. Perfino il Foscolo ci credeva poco e nei Sepolcri sapeva già che la vera sostanza di cui sono fatti è spesso proprio retorica e ipocrisia.

 

La cosa salta agli occhi – ed è un miracolo dell’irruenza con cui la realtà fa piazza pulita della retorica – quando ci si accorge che di qualcuno è difficile parlare “solo bene”.

È vero che c’è una retorica del male, che i grandi biografi – che sono grandi necrologisti – si esaltano quando il personaggio di cui devono parlare era pieno di contraddizioni e di lati nascosti, di difetti e di armadi di scheletri. Anche questo però è retorica. Le vite non sono “gloriose” nel loro essere una raccolta di opere per i posteri, o nell’essere una scarica di atti malvagi. Più semplicemente accade che non si sa bene dove dividere bene da male e che nell’insieme, se abbiamo conosciuto qualcuno, non è il giudizio morale da posteri che ce lo fa inquadrare. La vita ha una sua inconcludenza che impedisce a chiunque di trasformarla in una storia con un punto. È vero per tutti, ma lo capiamo solo quando abbiamo a che fare con qualcuno che era “bigger than life”, come dicono gli americani con un’espressione che è davvero difficile tradurre, ma si può dire “che gli andava stretta, la vita”.

 

Qualche mese fa ho partecipato alla rievocazione – accademica – di un signore che avevo conosciuto molto bene, Maurizio Tosi, archeologo. Ufficialmente era ordinario all’Università di Ravenna, paleo-archeologo, con scavi e pubblicazioni su Asia Centrale, Oman, Iran, Pantelleria. Amico di Bruce Chatwin, che ne parlava malissimo nei suoi notebooks (come riportato da Nicholas Shakespeare nella biografia di Chtawin). Insieme pubblicammo Bruce Chatwin in Afghanistan (Bruno Mondadori) e I confini dell’Afghanistan (Bup). Avevo viaggiato, insegnato, parlato, litigato con lui, lo avevo evitato con tutte le mie forze per lunghi periodi. L’avevo incontrato a Nuova Delhi nel 1990. Un uomo imponente, che svettava fisicamente in orizzontale e verticale. Un corpo deformato da una pinguedine maldistribuita si concludeva con una bella faccia “classica” arricchita da una nobile barba. Era a quei tempi l’attaché culturale dell’ambasciata italiana a Delhi. 

 

 

La rievocazione si svolgeva al Dipartimento di Archeologia di Ravenna. Nell’aula magna studenti, dottorandi e colleghi erano seduti di fronte a un elegante vaso poggiato sulla cattedra. Le ceneri dell’archeologo erano circondate dalle volute di frankincenso, l’incenso del paese, l’Oman, in cui il nostro aveva lavorato negli ultimi dieci anni.

L’atmosfera seria e compita si era aperta nel più classico dei modi. Alcuni colleghi avevano ricostruito la carriera scientifica dell’archeologo, i suoi vasti interessi, il largo viaggiare, lo scavare in Medio Oriente come in Centro Asia, in Russia come in Sicilia, in Romagna come negli Stati Uniti. Dopo il primo si erano avvicendati altri luminari che avevano coperto altri aspetti dell’uomo: l’insegnamento, le pubblicazioni, i rapporti internazionali, le reti di rapporti costruiti. Tutto era molto ovvio e interessante per chi non avesse mai conosciuto l’individuo. 

Una corrente serpeggiava nella sala, un certo disagio ed un fremito. Perché in realtà l’avevamo conosciuto un po’ tutti. L’uomo era talmente “overwhelming” che era difficile racchiuderlo nelle descrizioni che ascoltavamo.

 

Ci guardavamo e parlavamo tra di noi misurando le differenze tra l’impressione che avevamo di lui e quelle frasi per lo più asettiche e di circostanza.

Fu il sesto a svegliarci. Salì sul podio e iniziò a parlare dicendo: “Era un uomo insopportabile”. Ci guardammo intorno e tra di noi e fummo grati che qualcuno non ce l’avesse fatta più. “Era un uomo insopportabile, quando mangiava era disgustoso, litigava con tutti, era qualcuno incapace di vivere e intollerante, fragile e allo stesso tempo prepotente, insicuro e autoritario”. Era una descrizione approssimativa, parziale, ma evocava in tutti noi ciò che sapevamo ognuno per parte sua. Ciascuno di noi poteva raccontare decine di episodi che confermavano e allo stesso tempo questi episodi non dicevano tutto.

 

Dal sesto intervenuto in poi è come se una diga fosse crollata. Chi parlava adesso, il settimo, l’ottavo collega, aggiungeva al quadro tutto l’imbarazzo e la vergogna di non sopportare altri aspetti del defunto. Lo faceva senza astio però, non c’entrava nulla l’accademia, anzi c’era finalmente in quel posto paludato e triste una buona ventata di verità. Chi parlava si lasciava andare. Veniva fuori un mosaico slabbrato, mancante di pezzi, rotto, che restituiva però il casino che era quest’uomo.

 

Su questo si era tutti d’accordo, l’uomo era un casino vivente, riusciva a mettersi nei guai e a mettere gli altri nei guai, e nonostante tutto inventava e portava avanti grandi imprese, percorreva migliaia di chilometri, parlava decine di lingue, connetteva mondi, ma rimaneva un disastro umano. 

Era impossibile a chi non l’avesse conosciuto capire come una rievocazione potesse prendere questa piega. Si era passati dall’ambito accademico al tavolo intorno al quale ci si racconta le storie di qualcuno che era “un personaggio”, nel senso più narrativo del termine, qualcuno di cui si potevano raccontare storie, ma che se ti attraversava la strada poteva incasinare la tua di vita. Era diventato un discorso da veglia funebre, quelle veglie sincere in cui si piangeva, si mangiava, si beveva, il morto era ancora presente e poi si rideva, se ne dicevano di cotte e di crude e ci si liberava dal lutto e dall’imbarazzo del lutto. E si riconosceva al morto la sua vita, una vita che non poteva essere riassunta, che non poteva essere lodata ma nemmeno biasimata, una vita che aveva avuto l’effetto di un disastro e nello stesso tempo che era riuscita a tenersi viva per tanto tempo. 

 

Di persone così si pensa in vita molto poco che moriranno, perché in ballo per loro non c’è l’esistenza, ma qualcosa di più primitivo: l’assillo, l’ansia, la paura e allo stesso tempo un divorante desiderio di farcela. Sono persone che non arrivano a porsi problemi esistenziali, perché lo sono loro stessi anzitutto. Questa persona era qualcuno che veniva voglia di aiutare come fosse un bambino, ma poi devastava tutto ciò che avevate costruito per difenderlo. Era il primo nemico di sé stesso, qualcuno che entrava nella vita a gamba tesa e non si accorgeva che stava perdendo la partita. Era la vittima e nello stesso tempo colui che trattava gli altri da prede, ma il gioco si volgeva presto nel contrario. In una serie di ruzzoloni coinvolgeva donne, figli, costruiva e disfaceva famiglie, inseguiva ideali da ragazzino con la protervia di un generale, ma le sue truppe non lo seguivano e lui stesso non era capace di credere alla sua autorità su se stesso.

Era “bigger than life”, proprio nel senso che era impossibile fargli indossare l’esistenza, era smanioso, bulimico, cannibale e allo stesso tempo sbatteva in tutti gli spigoli che la vita gli preparava. Viveva come un eroe negativo con la convinzione che non ci fosse nulla di peggio del patetismo e finiva per produrre situazioni che andavano oltre ogni pietà perché erano tragiche. Era qualcuno che pensava di poter gestire tutto, di potere intervenire su tutto, di potere indurre tutti a fare quello che lui voleva e poi invece la vita gli crollava addosso. Ricominciava ogni volta da zero con le stesse intenzioni e con la stessa incapacità di fermarsi un attimo, di concedersi uno sguardo su di sé. Un uomo che non riusciva a stare solo un attimo, che raccontava la sua vita al tassista che lo portava dall’aeroporto di Tashkent a Samarcanda e alla prima studentessa che voleva scandalizzare.

 

Quest’uomo mi aveva accolto all’arrivo a New Delhi, dicendomi che ogni anno poco lontano di lì almeno 80 uomini venivano sbranati dalle tigri. Con quest’uomo ho viaggiato, ho scritto, ho scoperto mondi e ho litigato, ho fatto di tutto perché non mi coinvolgesse nei suoi casini. È qualcuno di cui non saprei dire se non che la sua presenza era insostenibile per buona parte del tempo. Era grande, nel senso più terribile e pesante della parola. Era troppo grande anche per sé. Di lui si può dire che finalmente ha trovato pace? No, anche questa è solo retorica. Si può solo pensare che lascia il mondo in gran disordine, ma non è questo il problema, il mondo sa come aggiustarsi da solo.

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