Sacro e profano nella fisicità del sesso / L'occhio magico di Carlo Mollino

9 Febbraio 2018

Cosa non dovesse essere la fotografia, Carlo Mollino l’aveva ben chiaro in testa: “ …desolanti schiere di ingranaggi, moltitudini di barili o cuscinetti a sfera in fuga prospettica, cacce astratte di trasparenze di cristalli su sfondo nero, “tipi caratteristici” quali vecchi marinai visti di schiena o di tre quarti, con e senza pipa, più o meno intenti a rattoppar reti, città indaffarate sotto la pioggia, che si sommano ai sempre vivi soggetti di ieri: nudi più o meno unti e lucidi e più o meno in gruppo, in posa di danza ritmica, ragazze in costume di qualche luogo viste di scorcio dal basso, uomini in nero seduti al sole nella piazza del paese, tramonti controluce sul mare e sul lago con e senza barche ormeggiate, giochi d’onda e di spuma, colonne di chiostro con o senza pozzi e soprattutto suore e frati, acrobati di varietà in funzione, “felze” e dentiere di gondole con gioco di riflessi, scene di porto, cuccioli e gatti, e infine ancora e sempre il “bric-à-brac” steso sul selciato o sulla bancarella del rigattiere, fiori bianchi in vaso di cristallo, fiori bianchi o spighe mature al vento”. La citazione proviene dal libro di grande formato (e riccamente illustrato, come dovrebbe essere per ogni volume sull’immagine) che Mollino scrisse nel 1949: Il messaggio dalla camera oscura (nota 22, pag. 118-9, reprint 2006).

 

Nello stesso libro indicava anche quali fossero i modelli positivi da seguire, due su tutti, e per nulla omogenei: Manuel Alvarez Bravo e Man Ray.

Non si può dire che Mollino non avesse le idee chiare, sul tema “fotografia”. Eppure, pur avendo egli fotografato per tutta la vita, è difficile costruire una linea coerente della sua attività in questo campo. Ma si può provare seguendo il filo di L’occhio magico di Carlo Mollino – fotografie 1934-1973, la bella mostra in scena a Torino, a Camera, curata da Francesco Zanot, che si avvale, oltre che di opere conosciute, di molti inediti provenienti dall’archivio del Politecnico di Torino, appartenenti al lascito di Mollino stesso. La mostra è frequentatissima e di grande successo: e sembra indicare – per l’eccentrico architetto – il raggiungimento dello status di icona culturale pop. D’altra parte, il nostro ne ha tutte le caratteristiche: non solo per il valore delle sue opere come progettista e designer, ma per l’aura avventurosa che circonda tutta la sua vita: campione di sci, pilota di volo acrobatico, costruttore e conduttore di macchine da corsa alla 24 ore di Le Mans, elegante pornografo. Un personaggio che in America sarebbe diventato il mirabolante eroe di un film di Martin Scorsese: ma, se devo essere sincero, quando cercai di convincere la RAI a fare un film su di lui, i capi della fiction di allora mi guardarono strano e mi dissero: “Troppo inquietante”. Tutto sommato (e per fortuna) avevano ragione. Mollino resta davvero una “musa inquietante” nella storia culturale del Novecento italiano. 

 

Ph Carlo Mollino.

 

Sembra di poter dire che pur fotografando tutta la vita, solo a sprazzi Mollino ha usato la fotografia come forma di espressione autonoma. L’ha sempre legata a qualche sua altra attività professionale o ludica (anche se probabilmente, per un uomo come lui, il confine non esisteva): l’architettura, lo sci, i viaggi, le auto, gli aerei e – perché no? – il sesso. È più un’estensione della sua visione, che lo strumento di una ricerca autonoma. Ma certe linee costanti sono evidenti, soprattutto negli anni Trenta e Quaranta. Se consideriamo che proprio alla fine di quel decennio esce Il messaggio… appare plausibile che proprio in quegli anni si sia concentrato il maggiore sforzo di Mollino nel campo, sia teoricamente che praticamente. E che dagli anni Cinquanta in poi il suo rapporto con la fotografia si sia fatto più episodico, e poi si sia focalizzato negli ultimi decenni sulla figura femminile. Che pure è molto forte anche nel primo periodo, ma in modo del tutto diverso. Nelle foto in bianco e nero le donne sono presenti soprattutto per animare gli scenari delle sue architetture d’interni. Osservando le posture e le espressioni enigmatiche delle sue modelle viene da chiedersi come dovesse essere vivere in una casa disegnata da Mollino.

 

I suoi arredamenti hanno poco della funzionalità quotidiana (pur essendo pezzi di straordinario artigianato), sembrano piuttosto soglie per avventurarsi in un mondo alternativo. La casa intesa non come focolare domestico, ma come infinita possibilità di evasione fantastica. Coerentemente, in queste foto le sue modelle non hanno quasi mai nulla di concreto o “normale”, sono apparizioni, epifanie, specchi che riflettono nei loro occhi le inquiete domande dell’obiettivo. E di specchi, raddoppiamenti, controcampi tra visi e nuche sono inevitabilmente piene queste immagini. Chi sta guardando chi? Cosa stiamo guardando davvero? E quando le donne scompaiono dall’inquadratura, le fotografie restano disturbanti come scenografie metafisiche, quali Lo studio di Italo Cremona in via Po e Camera incantata che, con un gioco di parole programmatico, sembra la dichiarazione di un manifesto artistico.
           

Una declinazione affascinante di questo tema sono le fotografie a tema sciistico. Vennero usate per un manuale: Mollino era anche maestro di sci. L’aspetto pratico, lo scopo didattico sono fondamentali, in questi scatti. D’altra parte, un architetto non può preoccuparsi solo della bellezza dell’edificio che costruisce, deve essere sicuro che stia in piedi. Eppure c’è qualcosa di più astratto o estetizzante di questi sciatori in pose iperdinamiche che stanno come sospesi nel nulla? O dei solchi dei loro sci perduti in una distesa di bianco?
Allo stesso modo, le fotografie che documentano la costruzione (o la progettazione) dei suoi edifici sono quanto di più lontano dal realismo si possa immaginare: sono dei collages che, se non osano essere apertamente surrealisti per necessità di marketing, derivano direttamente dalle pratiche di un Max Ernst.

 

E poi, naturalmente, c’è la lunghissima serie di nudi femminili. Fotografie scattate da Mollino tra il 1956 e il 1973, anno della sua morte, e considerate da lui a uso esclusivamente personale. Per il film di cui accennavo all’inizio, grazie all’intermediazione di Fulvio Ferrari, che assieme al figlio Napoleone perpetua lo studio (e il culto) di Mollino, mi era capitato di parlare con una delle signorine ritratte. A quarant’anni di distanza Manuela (chiamiamola così) raccontava divertita una delle serate-tipo che Mollino organizzava a villa Zaira, l’abitazione sulla collina torinese che utilizzava esclusivamente per questo tipo di attività. La serata prevedeva di solito una cena servita da una governante la quale poi, molto opportunamente, spariva.

 

La parte “galante” della serata poteva essere consumata prima o dopo la seduta fotografica, che ne era però invariabilmente il cuore. Talvolta, dice Manuela, il sesso veniva tralasciato del tutto. Mollino produceva una serie di mises per la modella di turno, che – come in una parabola – prima si vestiva e poi progressivamente si svestiva. Mollino, ancora prima del periodo Polaroid, era solito scattare serie molto numerose di inquadrature, i cui provini venivano poi variamente lavorati fino al risultato desiderato. La Polaroid, con la sua immediatezza, velocizzò il processo, rendendo anche più intimo il rapporto con la modella, che poteva subito capire cosa il fotografo cercasse. Al prezzo, raccontava però Manuela, di una certa qual noia da parte della stessa: in fin dei conti, i soggetti ritratti erano quasi sempre ragazze popolari o della piccola borghesia, intrigate dal gioco della seduzione tramite l’obiettivo, ma non particolarmente interessate alla forma finale dell’opera.
           

Queste Polaroid hanno avuto, negli ultimi anni, molto successo. Nei tempi dell’hardcore via internet, la pornografia di Mollino risalta per qualità formale e per una sostanziale innocuità delle immagini. Nondimeno, il mio parere personale è che non si tratti di opere significative, tanto che Mollino stesso non aveva pensato di renderle pubbliche (né, credo, ne abbia mai regalata una alle dirette interessate). Prese una per una, sono spesso goffe, non molto diverse, per impostazione, da certi volumetti di “nudo artistico” che venivano dalla Scandinavia in quegli anni e che trovi ancora ogni tanto nei mercatini delle pulci in tutta Europa. La cosa interessante di queste Polaroid è il complesso delle stesse, la serialità che ne produce il valore: che non sta tanto nella loro qualità, ma nella loro funzione, strettamente legata al “modo di produzione”. Nella sua introduzione alla mostra Zanot dice molto bene che “l’innesco del lavoro di Mollino è la necessità di esprimere se stesso”.

 

La fotografia, come detto, non sembra per lui un fine, ma uno strumento che accompagna l’illustrazione della sua vita. Ecco allora che queste infinite serie di piccole Polaroid in mostra sulle pareti, l’una accanto all’altro, mi spingono ad associarle a un’altra immagine, a un’altra presenza costante nell’iconografia molliniana, particolarmente evidente nella casa di via Napione che l’architetto si era costruito quale deliberato monumento funerario “preventivo”, tutt’oggi visitabile come lui lo aveva lasciato. Mi riferisco alle collezioni di farfalle che occupano uno spazio importante e preminente dell’arredamento, comprese quelle sulla parete dietro il capezzale del letto a barca. Sappiamo quanto Mollino fosse influenzato dai misteri egizi e come avesse modellato la casa sulla tomba di un faraone (o di un architetto del faraone…). Considerando che in origine le Polaroid erano raccolte in album composti personalmente dell’autore tanto quanto i quadri che espongono i lepidotteri, le serie di ragazze nude appaiono allora come una replica delle serie di farfalle, segni sospesi tra morte e vita (vita e eros sembrano spesso coincidere nell’inconscio di Mollino): un corredo per accompagnare il viaggiatore nell’oltretomba. Tutte diverse, ma nessuna veramente dotata di singolarità, le ragazze delle Polaroid costituiscono il patrimonio segreto di un collezionista di amanti, intrigato dalla natura tassonomica del suo desiderio più che dalla personalità di una donna. Da questo punto di vista, solo la fotografia poteva regalargli quella sospensione formale tra il sacro e il profano che ogni tanto capita di attraversare nella fisicità del sesso.

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