Il commento al Pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda / Gadda. Sfogliare il carciofo

7 Aprile 2016

Gran parte della critica gaddiana ha dovuto affilare le sue armi all’estero, soprattutto in Svizzera. A lungo svolse il suo magistero all’università di Friburgo Gianfranco Contini, a cui si deve nel 1934 il primo saggio sul pastiche linguistico in Gadda. Dante Isella, curatore delle Opere nell’edizione Garzanti, per lunghi anni fu docente a Zurigo; la preziosa edizione commentata della Cognizione del dolore (Einaudi, 1987; una nuova se ne annuncia per Adelphi) è opera di Emilio Manzotti, che insegna a Ginevra. In Scozia, Federica Pedriali ha dato vita all’Edinburgh Journal of Gadda Studies, un sito ricchissimo che include la Pocket Gadda Encyclopedia, dove decine di voci ricostruiscono per frammenti il multiverso del Gaddus. A dirigere a Basilea il dipartimento di Italianistica è Maria Antonietta Terzoli, che ci consegna ora il mirabile commento a Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana, due volumi di 1200 pagine, per l’editore Carocci. Apparso una prima volta a puntate sulla rivista “Letteratura” nel 1946 e composto in contemporanea al pamphlet anti-mussoliniano Eros e Priapo, il Pasticciaccio è edito in volume nel ’57, con notevoli varianti e dopo un faticoso lavoro di revisione. Al successo del romanzo, finzione giallistica, “conandolyiana”, contribuì anche il film che ne trasse Pietro Germi nel ’59, Un maledetto imbroglio, dove il regista vestiva i panni del protagonista, il commissario don Ciccio Ingravallo. Gadda stesso ne aveva tratto una sceneggiatura, Il palazzo degli ori, già nel ’46-48, apparsa postuma.  

 

Il giallo prende avvio da un furto di gioielli a cui fa seguito l’omicidio di Liliana Balducci, amica del commissario, ossessionata dal trauma della maternità mancata; cerca di lenirlo attirando in casa, “dal grande utero dei colli albani” – i castelli stanno a Roma come la Brianza della Cognizione sta a Milano – sempre nuove “nipoti”, ragazzine abbagliate dalla prospettiva di ricevere una dote. Era l’epoca in cui tutte le “Marie Barbise d’Italia”, invaghite del “vigor nuovo del Mascellone”, erano pronte a sfornare balilli per la patria e contribuire al boom demografico (brutti tempi per scapoli come Gadda, in più anche tassati). Il regime vuole ripulire Roma da tutti i ladri, gli straccioni, “li cani in fregola”, farsi garante della sicurezza, offrire la sua ingannevole protezione (nella Cognizione, è un dipendente dell’Istituto di Vigilanza il sospettato del delitto della Signora). Scovati i responsabili del furto, Ingravallo cerca le responsabili del delitto fra le “nipoti” di Liliana. Ma il giallo resta non finito, perché nel nostro mondo “barocco” la verità rimane sospetta, ripiegata in profondità e nascosta nelle motivazione biologiche che travolgono gli umani e su cui Gadda stende la sua comprensiva pietas. E poi, dirà in un’intervista a Moravia, “il poliziotto capisce chi è l’assassino e questo mi basta”.


Il commento critico, retorico e stilistico, al Pasticciaccio, costituisce un imprescindibile accesso al romanzo che Calvino definiva “eterogeneo calderone ribollente” nel cui groviglio “l’individuo razionalizzatore e discriminante si sente assorbire come una mosca sui petali d’una pianta carnivora”. Il giudizio di Calvino sul Gran Lombardo muterà seguendo l’alternativa che si poneva al protagonista della Giornata di uno scrutatore: “Ad Amerigo la complessità delle cose alle volte pareva un sovrapporsi di strati nettamente separabili, come le foglie d’un carciofo, alle volte invece un agglutinamento di significati, una pasta collosa”. L’universo narrativo di Gadda sarà tradotto dal Calvino delle Lezioni americane nel discreto comporsi di un intrico di fili dove “ogni minimo oggetto è visto come centro d’una rete di relazioni”, una rete che si propaga senza apparente controllo. Il capitolo “Molteplicità” si apre con una lunga citazione dal Pasticciaccio, che appare come la migliore espressione del “romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo”.
Il commento critico del Pasticciaccio ci consente finalmente di sfogliare il carciofo, di accedere alle fonti, alle suggestioni, agli echi che formano lo sfondo dell’inventiva gaddiana. Fatica decennale quella della Terzoli e dei suoi collaboratori, segno della “lunga fedeltà” (secondo la formula che Contini utilizzava per la sua attenzione a Montale, ma che vale anche per Gadda) di cui abbiamo le prime tracce nel convegno organizzato nel dicembre del ’93 a Basilea, in occasione del centenario della nascita del Gran Lombardo, Le lingue di Gadda (atti editi da Salerno). Nel maggio 2012, la Terzoli ha promosso un altro convegno legato al progetto di ricerca pluriennale, finanziato dal Fondo Nazionale Svizzero, per l’allestimento del commento scientifico del Pasticciaccio (gli atti sono raccolti in Un meraviglioso ordegno. Paradigmi e modelli nel Pasticciaccio di Gadda, Carocci). Già nel 2007, in occasione del cinquantenario della pubblicazione del Pasticciaccio, Andrea Cortellessa aveva organizzato un convegno a Roma e a Frascati, con la presenza fra gli altri di Arbasino e Roscioni.


Gadda stesso aveva suggerito le istruzioni del lavoro filologico da compiersi sulle sue pagine. Il fare letterario si modella per lui sul poiein del tecnico, interviene a modificare un lascito di competenze: è “ingannevole presunzione il credere, o lo sperare, d’essere soli al lavoro. Per simpatia o per contrasto, per imitazione o per avversione, o parodistici o polemici, o idolatri o blasfemi, noi lavoriamo con gli altri, dopo gli altri, al seguito degli altri, contro gli altri”. “L’ipotiposi bambolesca dello scrittore palo”, l’idea romantica “dell’ingegnoso demiurgo che cava da sé liberamente la libera splendidezza dell’opera”, nasconde quanto dobbiamo al “sistema storico (e gnoseologico) ambiente”. Il “nostro modo” di operare compie una selezione dalla gamma iridata del pensabile, dell’esprimibile; ma i materiali ripresi subiscono contaminazioni e spasmi, le parole sono straziate per trarne un rinnovato valore e produrre un senso nuovo e impensato. 


Non è casuale che Gadda interpreti la scrittura sul modello della pittura, nel rispetto del detto oraziano ut pictura poesis: “il nostro pennello è guidato sulla tela da una mano che esonda i limiti proverbiali della persona, quelli che ci ostiniamo a ritenere chiusi e finiti, impermeabili ad ogni osmosi, ad ogni virus”. Nell’introduzione al Commento, la Terzoli ci riporta al seminterrato della maga-prostituta Zamira, antro infernale che sprofonda nel passato della romanità. Sul muro accanto al letto, un’oleografia, che i frequentatori del locale interpretano come una visita medica in una casa di tolleranza: “un ber branco de ragazze gnude” sta di fronte a un dottore, vestito da antico romano, “er pollice […] infilato ner buco d’una tavoletta”, e pronto a spennellarle con una tintura, “si gnente gnente j’avesse trovato un quarche strugnoccolo, a quarchiduna”. In realtà, si tratta della riproduzione di un quadro di Eleuterio Pagliano, Zeusi e le fanciulle di Crotone (1889, alla Galleria d’Arte moderna di Milano), artista noto a Gadda anche come decoratore della stazione Centrale e della Galleria Vittorio Emanuele. Il dipinto illustra un aneddoto (una sorta di mise en abyme della poetica gaddiana) a proposito del pittore greco che, invitato dagli abitanti di Crotone a dipingere un’immagine di Elena, prende le cinque fanciulle più belle della città, copiando da ognuna quanto ha di perfetto. Il bello ideale si costruisce a partire da una molteplicità di modelli: trasferito dalla pittura all’arte della parola, vuole significare che per ben scrivere occorre prendere il meglio dagli scrittori che ci hanno preceduto, operando per contaminazioni e ibridazioni.

 


La pagina del Pasticciaccio è come il suolo di Roma e della campagna romana, stratificato e composito, mescolanza di culture e tempi diversi: un “pasticcio” appunto, quasi che il titolo voglia suggerire anche le modalità di costruzione del romanzo, nel significato conservato nelle arti plastiche per bassorilievi e manufatti in cui sono assemblate parti antiche. Simile al commissario, il critico (e il lettore) deve procedere per indizi, seguire il metodo attributivo dello storico dell’arte Giovanni Morelli, che si affidava alla postura delle mani o alla forma dei lobi delle orecchie per scoprire l’autore (il colpevole) di un dipinto. Riconoscere gli elementi intertestuali è impresa ardua perché la prosa di Gadda, da buon liceale d’inizio Novecento, contiene un altissimo tasso di letterarietà: echi della letteratura greca e latina, italiana e straniera (Shakespeare su tutti), richiami a testi filosofici e a libretti d’opera, alle Guide del Touring come alla cronaca nera dei quotidiani, all’archeologia, senza contare l’attenzione precoce per la psicanalisi, sui testi freudiani tradotti in francese da Jankélévitch nel 1929.


Uno dei grandi ipotesti del romanzo è l’Eneide, per la topografia e per i nomi di alcuni personaggi: Enea Retalli, il ladro dei gioielli, è figlio di un Anchise e di una Venere; a favorirne la fuga è una Camilla, cugina di Lavinia, a sua volta figlia di un Romolo; complice spaurito del furto è Ascanio (fratello di Diomede). Gadda non dimentica gli amati Promessi Sposi (che si faceva leggere sul letto di morte): l’altera Virginia, indiziata dell’omicidio, porta il nome del personaggio storico che ispira la figura della monaca di Monza. In uno dei saggi raccolti in Alle sponde del tempo consunto (Effigie, 2010), la Terzoli affidava al filologo la procedura indiziaria del detective: gli indizi sono i nomi dei protagonisti del Pasticciaccio, le date dei loro onomastici, nella contaminazione fra tradizione latina e cristiana che segna la stratigrafia di Roma. Il nome di Liliana rimanda esplicitamente alla Vergine per il giglio che spesso accompagna l’iconografia dell’Annunciazione. Anche Assunta e Virginia, le due nipoti adottive dei Balducci, hanno nomi con esplicito richiamo mariano, ma soprattutto la seconda, bellissima e crudele, viene evocata da connotazioni diaboliche, ulteriore indicazione per candidarla, forse con la complicità dell’altra, a responsabile del delitto.   

        
I saggi raccolti in Un meraviglioso ordegno (di Federico Bertoni, Giuseppe Bonifacino, Federica Pedriali, per citarne alcuni) svelano altri richiami soggiacenti, meno usuali. Ad esempio, Manuela Bertone si sofferma sul Fauno di marmo di Nathaniel Hawthorne, narrazione di un omicidio, con un garbuglio (strange entanglements) di fili intrecciati, dove il finale resta nebuloso; dal romanzo Gadda trae l’atmosfera di una Roma labirintica e corrotta, dove l’elemento morboso del clima prolunga la tendenza al delitto. Ma restano le immagini a costituire una fonte primaria e inesauribile per le pagine di Gadda: tema caro alla Terzoli già dalla Casa della “Cognizione” (1993, Effigie, ristampato nel 2005), saggio che fungeva da introduzione alla mostra “Foto di famiglia. Immagini della memoria”, curata da Giovanni Giovanetti. Per il continuo rimando a immagini, quadri e fotografie, il Pasticciaccio è prossimo a L’idiota di Dostoevskij, ricordato da Gadda nel Cahier d’études del ’24, dove come maestro, “grande e inarrivabile”, viene indicato non uno scrittore ma un pittore, Michelangelo Amorigi da Caravaggio. In alcune scene chiave del Pasticciaccio compaiono stampe e oleografie ed il ricorso a modelli figurativi fornisce contributi alla soluzione del giallo.

 

Dietro la testata del letto in cui giace il padre morente di Assunta, ecco una Madonna blu con la corona d’oro; accanto al letto del moribondo siede una vecchia, immobile, “teneva una mano in una mano, da parer Cosimo pater patriae nel cosiddetto ritratto del Pontormo”. Per Assunta vengono ricordate le incisioni dei costumi popolari del Pinelli (che aveva illustrato l’edizione del 1930 dei Sonetti del Belli) “tra le rovine del Piranesi”. “La stupenda serva dei Balducci”, con i suoi capelli neri, è descritta richiamando le opere del Sanzio (la Fornarina di Palazzo Barberini), ma gli orecchini e la “piega nera verticale tra i due sopraccigli dell’ira” (il tratto fisiognomico che nelle ultime righe del romanzo paralizza il commissario e lo induce a riflettere, a “ripentirsi quasi”) sono un richiamo alla Giuditta del Caravaggio mentre, assistita da una donna più anziana, taglia la gola ad Oloferne (lo stesso gesto dell’omicida di Liliana). Un segnale extratestuale, criptico ma fortissimo, induce a collegare Assunta all’assassinio, anche se la principale indiziata resta Virginia, esplicitamente dichiarata colpevole nel Palazzo degli ori. Una doppia colpevolezza femminile, ricordo forse di delitti compiuti a Roma nell’immediato dopoguerra, e della Giuditta di Artemisia Gentileschi, dove l’assassinio avviene con l’aiuto di una fantesca.


Ma certo la digressione (che Livio Garzanti avrebbe voluto eliminare o ridurre) più nota del romanzo è la descrizione dell’affresco del tabernacolo dei Due Santi, Pietro e Paolo, al cui autore Gadda dà il nome non innocente di Manieroni. I dettagli biografici – “barbivelluto quarantennio di propria età” – e le “qualità tragiche del suo genio” si adattano al Caravaggio. I piedi in primo piano dell’affresco possono rimandare a dipinti di Guido Reni, ad un una pala di Cosmè Tura, e la “correggiola” che separa l’alluce è forse un richiamo al San Paolo stigmatizzato del Carpaccio a Chioggia; un san Paolo senza barba, caso raro nell’iconografia del santo, se si eccettua la conversione di Caravaggio nella cappella di santa Maria del Popolo, accanto alla crocefissione a testa in giù di san Pietro, coi due piedi in primissimo piano. Proprio qui si tennero i funerali di Gadda: Enzo Siciliano, Alberto Moravia, Giulio Einaudi e Contini si fermano durante la cerimonia per dare luce ai dipinti. 

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