A Reggio Emilia «Dedicato a Celati» / A passeggio con Gianni

28 Maggio 2016

Oggi e domani a Reggio Emilia «Dedicato a Gianni Celati»: due giorni di incontri in occasione dell'uscita del Meridiano Mondadori.

 

Estate di venti anni fa. Aspettavo Gianni, alla stazione delle Appulo-Lucane. Nella “littorina” intravvidi una figura allampanata: era lui. Ma scese dalla parte sbagliata; gli andai incontro, incespicò in una rotaia e non ci fossi stato io sarebbe finito steso tra i binari. Sorrise di quell’aiuto provvidenziale. Quel sorriso inerme  mi riportò ai suoi racconti, perché le sue storie erano inermi. E tali sono rimaste, le sue storie, dalla prima all’ultima. Non fanno mai nulla per coinvolgerti. A casa dormì in un letto dove ci andava appena: doveva rannicchiarsi. Mi è sempre piaciuta la sua aria da padre delle stanze che abita e che si sorprende di abitare, così come si sorprende di abitare i racconti che racconta. La sua faccia da padre perennemente stordito da notti insonni e dalla meraviglia di tornare a vedere le cose del mondo. Mia moglie, il mio amore buono, gli friggeva i peperoni secchi (era maestra nel non farli bruciare). Lo chiamava Gianni Gelati. Non aveva mai letto i suoi racconti, neanche uno; ma non aveva letto mai neanche i miei. Era una donna meravigliosamente concreta, allegra, incapace di prendere il sopravvento, tranne quando si stancava di seguire una storia, una qualsiasi conversazione. Allora, come una bambina dispettosa, mandava in frantumi il vaso delle parole, fosse stato l’ultimo racconto sul letto di morte del Padreterno. 

 

Il giorno appresso andammo a Cancellara, un paese a venti minuti da Potenza. Una signora dai capelli bianchi, e con una gentile, dolorosa vaghezza negli occhi, venne ad aprirci la cappella di Santa Caterina. Era lei che custodiva la grossa chiave. Gianni e il suo taccuino. Non ricordo se usava la biro o una matita, ma per me che ho bisogno di spazio a causa della mia grafia storta ed espansiva, vederlo prendere appunti mi riportava al mistero delle parole tolte alla schiavitù della testa. Disse qualcosa degli affreschi del cinquecento, della faccia di Dio, mite e astratta come quella di certi cani, uscì sul terrazzo che dava sulla campagna, preceduto dalla signora della chiave che guardò assieme a lui, e solo per fargli compagnia, il cielo di agosto. Dopo un giro nei vicoli, ci sedemmo su una lunga gradinata che finiva nella piazza del mercato. Mi confessò che aveva in mente di raccontare quello che si dicevano gli italiani nei bar, nei pullman, nei treni. Gli dissi che una sola cosa distingue la gente di un paese da quella di un altro: sono le storie d’amore e di morte di ogni singolo paese. Solo raccontando quelle storie, la gente rivive la parte sognante e terrestre di se stessa. Ricordo che Gianni annuì, e in quel momento un bambino ci passò accanto fischiando. 

 

Quella notte dormì in albergo. Venne a casa presto, facemmo colazione con i biscotti di Maria nel caffelatte. Poi, in macchina, verso il Volturino. A Marsicovetere, una bottega, il pane. Ma quando arrivammo a Tramutola erano le 2, il paese era deserto. Bussai a una casa a pianterreno e una donna sui quarant’anni mi diede un mezzo bicchiere di olio e un po’ di sale. Ci prestò un coltello per tagliare il pane. Quando mi girai, vidi Gianni guardare la donna come si guarda un racconto benevolo o il proprio sonno. Fui io a spartire il pane, a sfregare i pomodori, a versare l’olio. Pranzammo davanti a una antica fontana, sui gradini di una casa disabitata. Poi Gianni si allontanò e io mi appisolai col rumore del ruscello che scorreva accanto alla vasca dove andavano a lavare i panni. Quando mi risvegliai, cercai Gianni e lo trovai non lontano, seduto per terra, con il quadernetto aperto.

 

Tornando a casa, là sulle montagne c’incantammo a guardare una ragazza che ci passò un po’ più sopra la testa col suo parapendio. 

Il primo incontro con Gianni fu a Bologna. Entrò in una libreria e ne uscì con un libro, che mi regalò. Il libro era Giardino, cenere di Kiš. Gli avevo portato dei racconti. Non sopportava più l’università. Gli piacque il racconto della partita di calcio. In quella storia, raccontavo di un mio compagno d’infanzia che si incantava al cinema, al punto che le zoccole gli mangiavano le calze e lui non se ne accorgeva. In trattoria, e, più tardi, per strada, mi cantò le “e” di Leopardi. 

Durante una passeggiata a Napoli, entrò in una libreria e mi donò la sua traduzione del libro di London Il richiamo della foresta. Poi, nel nostro peregrinare, mi raccontò le case.

L’ho ritrovato, dopo tanti anni, leggendo le pagine di Passar la vita a Diol Kadd. Un umanissimo, magico raccontare inerme.

 

Gli ultimi libri di Rocco Brindisi sono: "Elena guarda il mare" (Quiritta), "Il silenzio della neve"(Quiritta), "La figliola  che si fidanzò con un racconto"(Empiria), "Il bambino che viveva in uno specchio"(Diabasis), "La moglie di Youssef gioca con i fiocchi di neve"(Empiria), "Cose"(Empiria). È nato e vive a Potenza, dove racconta storie nelle scuole.

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