Schivando i "cancheri" della modernità / In viaggio con Ceronetti

26 Aprile 2016

Qualche pagina per ambientarsi e, come in un tuffo, arrivano incontro al lettore i tardi anni ‘80 e i ‘90. Un tuffo e una passeggiata soprattutto italiana, ma non solo, dove gli accadimenti, i progetti, gli affanni, le speranze , le paure, gli amori, i pensieri dell'autore (Guido Ceronetti, Per le Strade della Vergine, Adelphi 2016) sfiorano, contaminano, impregnano quegli anni e da questi sono contaminati.

In realtà, è un'impressione che ha poca durata.

E questo nonostante la scelta di quegli anni sia, per un diario di vita, motivo d'interesse. Gli anni 80 sono stati il decennio della modernità futile, distacco dagli anni di piombo, cesura finale dalle code del Novecento più denso e cupo, quello del terrorismo prima, e a ritroso quello dello "stupro antropologico" provocato della società dei consumi, della perdita della cultura contadina fino all'immane buco nero della seconda guerra mondiale.

 

 

Dunque questo il periodo apparentemente al centro dei diari di Ceronetti, viandante per le strade d'Italia e d'Europa. Viene da chiedersi quanto ci sia stato del caso o della scelta. Si potrebbe propendere per la seconda ipotesi, proprio perché gli anni ‘80 sono stati gli anni di una sciocca modernità (i ‘90 una sostanziale radicazione dei primi?) e l'autore è risaputo essere ferocemente anti moderno, almeno nella vulgata di un certo giornalismo e di una certa opinione. 

Ma l'anti modernismo di Ceronetti è in realtà solo quello dei consumi inutili, della tecnologia che crea nuove schiavitù, di una globalizzazione capace solo di apportare uniformità e disordine al mondo. Vale a dire tutte le "modernità" in grado di togliere sacralità alla vita e umanità alla persona, sottrarre identità alle comunità, siano queste un paese, una città, l'Italia o l'Europa intera.  

  

Si tratta tutt'altro che di spirito anti moderno quando le autentiche innovazioni della condizione umana sono quelle che Ceronetti ha ben compreso e che frequenta con rispetto, talvolta con piacere, sempre con devozione. È la modernità che ci è derivata dalla separazione della sessualità dalla riproduzione, è quella segnata dal distacco della mera sopravvivenza dal piacere del cibo, da un tempo liberato dal lavoro. Queste le nuove libertà e autentiche modernità della condizione umana –  in Europa frutto della seconda metà del Novecento – che Guido Ceronetti attraversa, e sono modernità fatte di amori e di bellezza femminile, di buon cibo – scelta vegetariana compresa – di arte, di libertà del corpo e della mente.

 

Quello che emerge è uno specchio del Novecento, naturalmente deformato o reso oggettivo dalla sensibilità dell'autore. E le date che scandiscono un pugno di anni sul volgere della fine del secolo sono sì diario esistenziale, ma aprono sempre al senso della società che eravamo e di quella che siamo diventati, nelle molte ombre come nelle poche luci.

Del resto ogni scrittore che abbia attraversato coscientemente il buco nero del XX secolo (Ceronetti è del 1927) difficilmente può essere banale, anche solo per una questione biografica, ed evitare banalità può diventare, prima di un tratto caratteriale, un dovere morale. Inevitabile allora il giudizio tagliente, il rigore del pensiero, persino i modi sprezzanti di chi ha visto e sa riconoscere sempre la verità e le durezze che diventano poi profezia. "Arrivano da ogni parte e non portano soltanto fame e malavita ma dissolvimentoQuesta pacifica invasione è di fatto un acido dissolventeEssere appendice d'Africa è il futuro dell'Europa. Beati gli occhi che non lo vedranno".

 

 

 

Un pugno di anni sul volgere della fine del secolo... con gli anni 80 a protendere verso di noi un lascito che in parte perdura. Basta pensare all'ossessione del look e della moda, al pullulare degli eventi, al dilagare degli oroscopi e del gossip, all'importanza delle apparenze, alla disarticolazione del pensiero e alla sua abitudine, a problemi mai risolti...

Un'eredità che sembra poi inseguirci anche negli echi odierni della cronaca nera. Come per il delitto della Magliana nel 1988, quello del "Canaro" che zeppo di cocaina per giorni torturerà a morte la vittima rinchiusa in una gabbia per cani. "La seduta di morte dura sette ore. All'ora di uscita dalle scuole, il tosacani si interrompe, corre in motorino a prendere la figlia, la porta a casa dalla madre e torna a terminare il lavoro. L'altro è ancora vivo che perde sangue tra i cani eccitati e la musica scellerata..."

 

Ma il vero nucleo del libro – e di molto dello scrivere dell'autore piemontese – è il corpo... il corpo come segno, sintomo, dubbio, piaga, sofferenza, spia di conoscenza, godimento, grimaldello per accedere al reale e alla conoscenza...

Ceronetti è forse l'autore più "corporeo" della letteratura italiana. Per certi versi ricorda l'opera di Piero Camporesi, instancabile indagatore ed affascinante narratore dei misteri dell'umanità del passato. Quello che Camporesi ha fatto con i documenti storici, Ceronetti nel presente lo fa con la poesia che fruga nel corpo, corpo che diventa nudo altare dell'umanità. "Battuto la faccia sulle pietre, occhiali rotti nell'urto, l'ombrello ridotto ad un cartoccio, escoriazioni varie. Ho sentito di essere quel che davvero sono, un grave in caduta libera, una mela fradicia che si stacca e precipita senza fermarsi, verso il centro della terra..."

"Forse c'è relazione tra la forza della passione d'amore e la privazione di ogni anestesia clinica e chirurgica. Le sofferenze fisiche erano così terribili che i pochi giorni e attimi di piacere strappati con l'amore assurgevano ad intensità smisurate. Se è così, la passione ha cominciato a svanire con la scoperta delle aspirine."

 

Ma il Novecento è anche il fallimento del Logos e di questo Ceronetti è testimone spietato nell'osservare, nel descrivere la realtà in cui siamo attori immersi e spesso incoscienti (il suo teatro delle marionette...), e quel "fallimento" lo si ritrova, specchio deformato e pur veritiero, nella sua scrittura provocatoria, tagliente per immagini e mai per argomentazioni: "La fondamentale spietatezza e ottusità delle donne si rivela nella mancanza di rimorsi per aver partorito essere umani. Di tutto arrivano a pentirsi, di questo mai."

Certo l'artista deve essere provocazione, deve disturbare, "essere contraddizione", deve irritare mentre irrita se stesso, deve essere "mare mosso" e non bonaccia perché l'irritazione colpisca e lasci il segno... "Perché la formula magica e la preghiera non possono nulla e la medicina trionfante riesce a curare e a guarire? Perché tanta umiliazione di Dio, o del Divino, e nostra, con lui...?"

E viene in mente la metis, la forma di pensiero della Grecia antica prima dell'affermarsi del Logos e dei grandi sistemi filosofici: era l'intelligenza plasmata con e dall'esistenza, l'intelligenza dentro il flusso delle cose, fatta di carne e sangue, l'intelligenza delle contraddizioni, degli enigmi (le verità del Cretese Epimenide: "Tutti i cretesi sono bugiardi"), dei paradossi (Achille che non supera la tartaruga). La metis è la forma di intelligenza in cui il ragionamento si mescola all'intuizione e al corpo perché in grado di sorprendere, infastidire quasi fisicamente, destabilizzare. In questo senso Ceronetti è anche lo scrittore della metis.

 

"Stricarm in dn'a parola" (stringermi in una parola) scriveva Cesare Zavattini...

Per le strade della Vergine, una volta sfiorate le inevitabili minuzie quotidiane di ogni diario, facendosi guidare dall'autore nell'evitare i "cancheri" della modernità, tutto si ricompone nei molti aforismi di cui Ceronetti è maestro. 

 

In fondo, stringere la realtà in poche frasi è luce, è vanità di ogni vero artista.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO