La matematica applicata alle capre

16 Settembre 2014

Sulle colline dell’Oltrepò, all’estremo lembo settentrionale dell’Appennino, un’ex-insegnante venuta da Milano ha messo in piedi quasi “per caso” una produzione di formaggi che ha conquistato i templi della gastronomia.

 

Occhio ai nomi, perché i nomi dei luoghi contano. Soprattutto se ci si mette in viaggio per raccogliere storie di persone che hanno scelto di lavorare in campagna, lontano dalle città. È gente che non finisce in posti dai nomi noti, ancora più raro che pianti le tende in località finite sui giornali. Andare per vite verdi è avanzare in un mondo che parla poco ma conserva con cura le parole.

A volte ci si dimentica che nelle nostre campagne, oltre a coltivare, allevare e produrre tipicità che ci fanno essere il Paese europeo con il maggior numero di DOP e IGP, si custodisce un immenso e significativo serbatoio della memoria italiana: quello dei toponimi rurali.

 

Macino chilometri scollinando da una valle d’Appennino all’altra e, nel giro di un pomeriggio, di questi nomi sbocciati dalla terra ne colleziono da riempire un’intera pagina di bloc-notes mentre procedo verso la mia meta. È la tenuta del Boscasso, vicino a Pometo, dove una donna, Chiara Onida, arrivata da Milano, ha messo in piedi, una capra dopo l’altra, un produzione di formaggi che si è imposta nei templi della ristorazione e della gastronomia della metropoli lombarda.

 

 

Andare per campi senza raccogliere toponimi è come vedere un film privo di parole. Così, intanto che procedo, scorro i nomi annotati in fretta: ce ne sono che rammentano le conseguenze di antiche guerre (Castelrotto, Montebruciato, Ruino e Ruinello), la connotazione avara di un fazzoletto di terra (Aguzzafame, Panperduto), l’antica vocazione di una località (Noceto, Pecorara, Pometo). Una, due parole. Lo stretto necessario per dare il nome giusto a ogni campo e a ogni podere con cui le generazioni passate avevano a che fare.

 

Lasciata la Padana inferiore, ex-statale 10, sto inoltrandomi attraverso le colline di quell’Oltrepò che costituisce l’ultimo lembo a settentrione della lunga spina dorsale dell’Appennino: attraversata tutta la penisola qui si sporge, come da un balcone, sulla pianura.

 

Superato il profilo arcigno del castello di Cigognola, dove da anni sono sbarcati i Moratti a fare i vigneron, bastano pochi chilometri lungo la valle Scuropasso per capire che il nome è quello giusto. La strada sale affiancata da boschi fitti e silenziosi: di tanto in tanto le cronache riferiscono di incidenti che capitano a chi la percorre. Giorni fa un motociclista è stato disarcionato da un capriolo sbucato all’improvviso. A volte ci sono tamponamenti: l’auto finisce contro una fila di cinghiali e deve intervenire il carro attrezzi. Pochissimi segni di presenza umana: la densità di Rocca de Giorgi, il Comune che sta sul fondovalle, 77 abitanti in tutto, è di 7 abitanti per chilometro quadrato. La media lombarda è di 418. Milano sta a quota 7400 abitanti per kmq.

 

 

Chiara Onida è arrivata da Milano venticinque anni fa, fresca di laurea in matematica. Primo incarico, da precaria, in una scuola superiore di Voghera; è per questo che, assieme ad Aldo, insegnante anche lui e sino a cinque anni fa suo marito nonché padre dei cinque figli nati nella fattoria del Boscasso, si decide, invece di fare i pendolari con la città, di cercare un tetto sulle colline vicine. Nonostante insegnasse matematica in un istituto agrario, Chiara ammette che allora era del tutto ignara del mondo circostante: “Ero assolutamente una creatura di città. Dei campi non sapevo niente, ma da lì, dalla decisione di lasciare Milano, è cominciato tutto”.

La scelta dei due, almeno all’inizio, è dunque una vita agreste quasi da cartolina: casa, bambini e, perché no?, magari una capretta a brucare l’erba davanti casa.

 

Uno pensa alle capre e subito si immagina un paesaggio brullo e sentieri aspri, da capre, appunto. Invece al Boscasso c’è dolcezza di colline smeraldine, edifici ben curati, campi d’orzo appena mietuti. E capre, tante capre, altro che la capretta a brucare sulla soglia: “Una capra tira l’altra – spiega Chiara reduce dall’impegno quotidiano nel caseificio. – Abbiamo cominciato, io e Aldo, tornato cinque anni fa in città, a voler imparare come produrre dal loro latte, lavorato sul posto, formaggi caprini. In Francia quei formaggi avevano una grande tradizione, mentre da noi, nei primi anni Novanta, si trovavano a fatica…”.

Si entra in stalla: sessanta capre, quelle allevate qui al Boscasso, ti puntano all’unisono lo sguardo addosso e non è una prova psicologica lieve. Soprattutto per chi rammenta ancora, dai banchi di scuola, i versi dove Umberto Saba parlava di una “capra dal viso semita”, “sola/legata sul prato” dal belato, scriveva il poeta triestino, “fraterno al mio dolore”.

 

Ma anche le capre ormai non sono più quelle di una volta. Queste, appena vedono l’obiettivo della macchina fotografica, si mettono in posa. Qualcuna si alza su due zampe per sovrastare con mite determinazione le altre.

Sessanta capre, e capretti e caproni riproduttori che stanno in uno stallo separato, in questa stalla dove molte funzioni, mungitura compresa, sono automatizzate, scandite dalla pianificazione imposta da Chiara con matematica nitidezza. Chi lavora al Boscasso – lei, il figlio più grande e due collaboratori – ha giornate lunghe che corrono dalla mungitura, all’alba, sino al lavoro da svolgere nell’immacolato caseificio.

 

 

Ogni giorno dal latte munto si lavorano quaranta chili di formaggio. Caprini freschi, di media e lunga stagionatura, erborinati e aromatizzati con creativa sapienza: “Il nostro primo maestro è stato Berto Vassena, che ha introdotto in Italia, dalla Francia, la capra scamosciata. Ci ha insegnato a produrre quel “fromage fermier” che allora pareva prerogativa solo dei francesi. Ma decisiva è stata anche la scelta, mantenuta in oltre vent’anni, di preservare la genuinità di ogni ingrediente, in ogni fase della lavorazione. Rifiutando ogni scorciatoia”. Adesso, arrivati i riconoscimenti, Chiara rifiuta di far crescere ulteriormente l’azienda: “Semmai – spiega – mi interessa collaborare con altri produttori di tipicità di questo territorio e offrire così un paniere d’Oltrepò dove formaggi e salumi di qualità, vino e frutta siano il biglietto da visita di queste colline…”.

 

All’inizio il dialogo di questa donna, rimasta sola a pilotare la sua azienda, con gli altri produttori pareva in salita. Ora invece funziona, ma aggiunge altri impegni alla sua giornata quanto mai fitta. Eppure, piena di curiosità e di energia vitale, nelle sue sere al Boscasso trova anche tempo di leggere: narrativa e soprattutto saggi sulla difesa dell’ambiente, sulle sfide poste dai nostri anni. E l’estate? Chiara Onida, memore dei primi anni di lavoro con le capre – dodici anni senza staccare mai, neppure un giorno di vacanza – sorride soddisfatta: “Le cose sono cambiate. Questa estate almeno un pomeriggio in piscina me lo regalo proprio”.

 

Ho parlato a una capra.

Era sola sul prato, era legata.

Sazia d’erba, bagnata

dalla pioggia, belava.

Quell’uguale belato era fraterno

al mio dolore. Ed io risposi prima

per celia, poi perché il dolore è eterno,

ha una voce e non varia.

Questa voce sentiva

gemere in una capra solitaria.

In una capra dal viso semita

sentiva querelarsi ogni altro male,

ogni altra vita.

 

Umberto Saba, La capra (da “il Canzoniere”, 1921)

 

Precedentemente apparso su La Stampa

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