Il presepe slow e gli artigiani del gusto

14 Novembre 2014

Se si vuole vedere come un sistema di idee può trasformarsi in scelte visive, interazioni umane e insiemi di sapori, l’evento a cui partecipare è il Salone Internazionale del Gusto di Torino. Ci si troverà di fronte a una variegata e consistente manifestazione del sistema di idee che, per intendersi, sta intorno al cibo “lento”, tipico, buono e giusto: lo slow pensiero.

 

Dentro il fenomeno sociale che Gianfranco Marrone definisce gastromania, lo slow pensiero ha un ruolo decisivo perché riguarda valori essenziali, come il buono, il giusto, il pulito. E se il pensiero del cibo, anzi il pensiero gastromane, esce dall’ambito della nutrizione e del gusto, e si espande in sfere sociali molto più ampie (politiche, economiche, etiche, criminali), lo slow pensiero lo fa all’ennesima potenza; può essere utile pensarlo come una delle ideologie, attualmente in voga, più chiare, definite, sviluppate. Vi invito a considerare l’ambito politico, religioso o quello generalmente culturale e sociale per trovare una “linea di pensiero” altrettanto diffusa e precisa, alta ma nello stesso tempo di massa, profonda ma facile da raccontare e descrivere, come quella dello slow food.

 

Se si condivide questo sguardo un po’ astratto su un appuntamento in fondo mondano, allora il Salone del Gusto non è più soltanto un evento che dà spazio a più di mille espositori, ma un momento prezioso da analizzare che fa sorgere varie domande: l’evento nella sua concretezza è coerente con questa, ipotizzata, ideologia? I più di mille espositori nella loro vasta offerta di marchi, etichette, stili di comportamento e ovviamente odori e sapori che rapporto avevano con questo sistema di idee? Che impressione fa, a un visitatore, trovarsi di fronte a questa ideologia concretizzata? Le parole d’ordine dell'evento sono chiare (lo slogan è “Arriva l’arca del gusto”) e l’estetica, nel suo insieme, è coerente con esse; si tratta però di qualcosa di prevedibile, perché legato alle competenze professionali del soggetto che ha gestito l’immagine coordinata. Se andiamo a vedere invece i singoli espositori, in particolare quelli delle regioni italiane, ecco che il discorso si fa più ambiguo e forse più significativo.
Sono stato al Salone per due giorni fitti, durante i quali ho conosciuto e parlato con circa 90 espositori distribuiti tra le sezioni delle varie regioni, ho osservato i loro stand e i loro abbigliamenti, assaggiato quasi sempre i loro cibi, raccolto e sfogliato i loro volantini.


 Tutti gli espositori si ponevano, per la loro stessa presenza al Salone, sotto il cappello del lento, del tipico anzi dell’ultra tipico, del protetto anzi del presidiato, del tradizionale anzi dell’antico riscoperto. Anche le loro parole, quelle scritte nei volantini e quelle pronunciate, erano molto omogenee. Come prevedibile, la fissazione per il passato è imperante, un passato chiaro e solido, genuino e corretto: il passato è il bene. Un elenco non esaustivo include infatti: metodi riscoperti; antica coltivazione; ricetta originale; antichi sapori & antichi saperi; tradizione familiare & tramandata da tradizioni; innovazione nel rispetto della tradizione.

 

 

Insieme a quella del passato vi sono altre costanti: lo “human touch”: comunità, gestione familiare; il “local touch”: territorio, reti locali; l’“unique touch”: la combinazione di posizione geografica, clima, caratteristiche della terra, biodiversità. I discorsi sono talmente omogenei che sarebbe facile creare un software per produrre in automatico le descrizioni dei prodotti. Il prodotto x nato grazie a: passione e/o tradizione – è: unico e/o esclusivo – grazie a: luogo e/o clima – è prodotto con: tempi lunghi e/o artigiani esperti e/o mani sapienti e/o processo complesso – nel rispetto di: tradizione e/o territorio e/o comunità locali – con: ricetta antica e/o ricetta riscoperta e/o ricetta esclusiva – da ingredienti: presenti solo localmente e/o rari e/o pregiati. Queste parole chiave e combinazioni discorsive erano usate con una certa ingenuità, quasi recitate.


Se invece ci si concentrava sulla dimensione visiva ecco che l’impressione era quella di una grande confusione: le coerenze visive, che bene o male si tenevano alla scala del singolo prodotto visto isolato, nelle installazioni degli spazi e nella moltiplicazione dei prodotti esplodevano e perdevano coerenza. Se le parole erano comuni le estetiche andavano invece in ogni direzione ma, nella maggior parte dei casi, lo facevano in modo sgangherato. Emergevano qua e là delle costanti, ma in modo molto meno strutturato rispetto a quanto avvenisse a livello verbale. I sapori, che le tradizioni e le pratiche fossero inventate o meno, erano curati, e anche un non esperto come me riusciva spesso a coglierne dei tratti distintivi. In molti casi il discorso del gusto era però schiacciato dal discorso verbale. Altrettanto ricca era l’interazione con gli espositori che, salvo il trito utilizzo delle parole chiave, dimostravano al mio sguardo una ricchezza di comportamenti, modi di fare, sfumature dell’eloquio, e soprattutto di modi di vivere, esibire, presentare il loro prodotto e il processo che lo aveva creato: erano tutti bravi a viverlo piuttosto che a raccontarlo a parole (eccezion fatta per i professionisti del commerciale).


Va così riconosciuto allo slow pensiero un potere mitopoiètico, una capacità di inventare tradizioni o comunque narrarle per poi solidificarle e renderle intoccabili. Questo potere consente ai singoli produttori di inquadrarsi in un discorso, ma dentro questa narrazione si muovono con difficoltà, e riescono a salvarsi soltanto appena ne escono, abbandonando questo presepe con gli artigiani che mettono in mostra i famosi gesti ripetuti identici da secoli. Si potrebbe pensare alla necessità di una demistificazione, ma forse non è così necessario: immagino che già autonomamente il pubblico dello slow pensiero sappia coglierne gli stereotipi.

 

Il potere di creare miti, storie, tradizioni mi è sembrato più insidioso per i produttori che per i fruitori. I miti che si aggirano al Salone sono decisamente diversi da quelli del cuoco eroe, poco importa che questo sia genio romantico o scienziato pazzo. Il cuoco è un individuo che inventa, nella mitologia slow invece gli individui operano più che altro per riscoprire qualcosa di esistente da sempre, o presunto tale, per selezionarlo, per amplificarlo, per difenderlo. I produttori dentro questa narrazione che dà al loro lavoro una dimensione profonda sembrano, in molti casi, incapaci di gestirla, di portarla lontano, di non esaurirla, di non limitarla alle parole chiave, di declinarla. Quel discorso è una delle fondamenta del loro piano di business e del loro fatturato, ma nonostante tutto non sembra appartenergli.

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