Quegli arresti del 1934 a Torino

Il 9 dicembre, presso i locali della Comunità ebraica di Torino, in collaborazione con l’Istoreto e Museo Diffuso della Resistenza, si è tenuto l’incontro dal titolo 1934 Quegli arresti di ebrei torinesi antifascisti. Il ricordo dei protagonisti nelle parole dei loro figli e nipoti.

L’incontro, dedicato alla ricostruzione e al ricordo della repressione fascista del marzo 1934  del gruppo antifascista di Giustizia e Libertà attivo a Torino, si è svolto con il duplice sguardo della storia e della  memoria e ha visto la partecipazione di studiosi e ‘testimoni’ di ricordi familiari della vicenda che si inserisce nella realtà torinese dell’antifascismo e dell’ebraismo: dopo l’introduzione storica di Chiara Colombini (Istoreto) e con la presentazione di Giulio Disegni sono intervenuti Anna Foa, Bice Fubini, Carlo Ginzburg, Giovanni Levi, Manuel Segre Amar.

Pubblichiamo due interventi della serata per gentile concessione degli autori: Chiara Colombini, ricercatrice dell’Istoreto, ricostruisce il contesto del gruppo torinese di Gl e l’operazione di polizia all’interno della quale si collocano gli arresti del marzo 1934.

Carlo Ginzburg, figlio e nipote di protagonisti diretti, in qualità di storico ha avanzato alcune ipotesi sul significato da attribuire a quei fatti e riflessioni più generali sul rapporto tra fascismo e comunità ebraiche prima delle leggi razziali.

 

Enrico Manera

 

Chiara Colombini

 

Ebrei antifascisti al soldo dei fuoriusciti assicurati alla giustizia dall’Ovra. È il titolo di un comunicato dell’agenzia Stefani che i principali quotidiani italiani riprendono il 31 marzo 1934. La notizia riguarda Torino, al centro di una campagna di stampa che anticipa sinistramente la persecuzione antiebraica del 1938. Tutto ha avuto inizio pochi giorni prima.

 

Ponte Tresa, 11 marzo 1934. Alla frontiera con la Svizzera si ferma un’auto per il controllo di routine. Alle guida è Sion Segre Amar, studente universitario; accanto a lui Mario Levi, dirigente della Olivetti. Sono stati a Lugano per conto del movimento antifascista Giustizia e Libertà.

I finanzieri in servizio pensano di avere intercettato dei contrabbandieri e li perquisiscono. Addosso a Levi viene trovata una copia del settimanale della Concentrazione antifascista, “La Libertà”, e copie di volantini che incitano a votare NO alle elezioni del 25 marzo (è un plebiscito, si può solo accettare con un SI o respingere con un NO la lista presentata). Nell’auto si trovano copie dei “Quaderni di Giustizia e Libertà”, la rivista che il movimento stampa dal gennaio 1932.

Nel tragitto verso il commissariato di polizia del confine, Levi si getta nel Tresa e nuota verso l’altra sponda del lago di Lugano. La Guardia federale svizzera lo trae in salvo. Segre è arrestato e trasferito alla Questura di Varese, dove viene malmenato.

 

Nei giorni successivi cominciano gli arresti, poi confermati per 14 persone: Leone Ginzburg, Carlo Levi e suo fratello Riccardo, Gino e Giuseppe Levi (fratello e padre di Mario), Barbara Allason, Carlo Mussa Ivaldi, Giovanni Guaita, Giuliana Segre, Marco Segre, Attilio Segre, Cesare Colombo, Leo Levi, Camillo Pasquali. Non tutti sono militanti di GL, e non tutti avranno la stessa sorte giudiziaria.

La rete torinese del movimento è stata lacerata una prima volta tra il dicembre 1931 e il gennaio 1932. È stato Ginzburg, con Carlo Levi, a ritessere la tela. All’inizio del 1932 Ginzburg si è recato a Parigi e ha preso contatto con Carlo Rosselli e il gruppo dirigente di GL. Di origine russa, Ginzburg ha ottenuto la cittadinanza italiana nell’ottobre 1931: da sempre antifascista, ha aspettato questo momento per passare all’azione, per affermare un’idea di patria alternativa a quella fascista.

Nasce una rete clandestina che “pesca” in ambienti non coincidenti ma con molti punti di intersezione, che hanno a che fare con rapporti di amicizia, di parentela, con affinità culturali e sociali: il liceo D’Azeglio in cui cresce una generazione di antifascisti; il salotto di Barbara Allason che ospita serate di discussioni culturali e cospirazione; la cerchia di intellettuali da cui poco più tardi nascerà la casa editrice Einaudi; la Olivetti di Ivrea.

E c’è l’origine ebraica di un buon numero dei giellisti torinesi, la quasi totalità se si guarda agli arrestati del 1934.

Su questo elemento si scatena la speculazione. Riprendendo il comunicato Stefani, i giornali raccontano che Levi, una volta in salvo, ha gridato: «cani italiani! vigliacchi!». Non è vero. Urla, sì, però dice: «Viva la libertà! Abbasso il fascismo!». Ma quel «cani italiani» è funzionale a presentare gli arrestati come antifascisti perché antitaliani, e antitaliani perché ebrei.

In realtà, come ha osservato Alberto Cavaglion, nel rapporto tra antifascismo ed ebraismo in quella fase era il primo a prevalere: «Prima di tutto si era antifascisti, il “problema dell’appartenenza” passava in secondo piano».

Lo smantellamento della rete torinese è un duro colpo per GL. In quel momento è pressoché l’unico nucleo del movimento attivo in Italia, capace per di più di dare un contributo fondamentale di idee: prima degli arresti del 1934 scrivono sui “Quaderni” Ginzburg, Carlo Levi, Vittorio Foa, Renzo e Michele Giua, Riccardo Levi, Mario Levi, Sion Segre, Augusto Monti.

 

Paradossalmente, l’incidente di Ponte Tresa è una bella seccatura anche per la polizia. Da mesi ha arruolato come spia l’ingegnere francese René Odin che, millantando la necessità di viaggi commerciali in Italia, appare perfetto al centro parigino di GL per tenere i collegamenti con i militanti interni.

Il fermo alla frontiera costringe ad anticipare gli arresti, mentre la polizia avrebbe voluto attendere per individuare il numero maggiore possibile di cospiratori. Inoltre, agli arrestati non si può chiedere conto di quanto si è scoperto su di loro attraverso Odin, con il rischio di “bruciarlo”. Le ammissioni che la polizia riesce a strappare non sono che uno specchio deformante, confermano cose che gli inquirenti già sanno. Saranno deferiti al Tribunale speciale soltanto Sion Segre e Leone Ginzburg, condannati rispettivamente a 3 e 4 anni di detenzione (entrambi usufruiranno poi di un condono di due anni). Giungeranno 5 assegnazioni al confino per Guaita, Mussa Ivaldi, Cesare Colombo, Attilio e Marco Segre.

 

Saranno i militanti già attivi scampati alla polizia nel 1934, in primo luogo Vittorio Foa e Michele Giua, a ricostruire a Torino una nuova cospirazione di GL.

 

da sin.: Giovanni Levi, Chiara Colombini, Anna Foa, Giulio Disegni, Bice Fubini, Emanuel Segre Amar, Carlo Ginzburg.

 

Carlo Ginzburg

 

Grazie per questo invito, credo che quello che dirò deluderà l’aspettativa legata ai miei molti legami familiari, nel senso che, certo, ci sono molti legami famigliari e prima Chiara Colombini ha ricordato una pagina di Lessico famigliare in cui mia madre parla in maniera molto vivida degli arresti che avevano colpito i suoi familiari – il padre e due fratelli –, e l’uomo di cui era innamorata e che diventerà suo marito, cioè mio padre, Leone Ginzburg. Questa pagina – che invito a leggere o rileggere – è una pagina in cui la diciottenne di allora presenta, racconta – questa è la costruzione del libro, non c’è il senno di poi – gli arresti, e racconta la visita di Pitigrilli, cioè Dino Segre ricordato prima, che arriva, dice che in carcere non bisogna mandare le arance, e la spia Pitigrilli non è mai descritta come spia. Ho visto che nell’edizione scolastica di Lessico Famigliare non viene detto che Pitigrilli è una spia, e quindi il sapore di questa pagina si perde completamente, perché quello che c’è è la spia che visita la casa di persone che sono state arrestate attraverso la sua delazione, e dà consigli su come comportarsi con i carcerati. È una pagina notevole.

Qui il mio ruolo di figlio e nipote finisce, da questo punto di vista non ho altro da dire.

Tuttavia, siccome – come è stato ricordato – faccio di mestiere lo storico, mi sono chiesto: al di là di questa vicenda che ha segnato la vita delle persone che sono state coinvolte e, indirettamente, di figli e di nipoti – fa certo parte delle mie memorie infantili, sapevo di tutto questo anche prima che mia madre ne scrivesse –, qual è il significato generale di questa vicenda?

 

E qui una risposta è stata data, è stata ricordata: è la prima battuta di quella che sarà la campagna antisemita.

Io credo che questa interpretazione sia contestabile, e lo dico avendo rivisto alcune cose, riletto alcuni testi. Perché dico questo? Quello che abbiamo sono, come è stato ricordato: gli arresti, poi i 20 giorni, poi il comunicato dell’agenzia Stefani tutto orientato in senso antisemita, antiebraico, e viene immediatamente ripreso dal «Popolo di Italia» e dalla stampa. Questo è fuori di dubbio: sono andato a rivedere una parte di questa stampa. Qui segnalo il fatto che nella Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di De Felice, con mia grande sorpresa, non si cita questa agenzia Stefani, e questo secondo me è coerente con il punto di vista di De Felice, in un libro che è tanto ricco di materiale quanto poverissimo a mio parere, più che mediocre, sul piano dell’interpretazione, in cui si cerca a più riprese di minimizzare il razzismo di Mussolini e quindi non viene detto quello che è evidente, cioè che dalla ripresa letterale della agenzia Stefani da parte del «Popolo di Italia» non c’è dubbio che questa campagna fosse condivisa da Mussolini. E però questa campagna si spegne, viene ripresa da un organo di stampa razzista come il «Tevere» di Interlandi, il «Popolo d’Italia» riprende il «Tevere», e però poi questa campagna di stampa si attenua e molto dopo, nel novembre, quando si arriva al processo contro Sion Segre e Leone Ginzburg, le condanne, come ha ricordato Chiara Colombini, sono lievi, e la spia Togo, René Odin, registra questa lievità dicendo che tutti si sarebbero aspettati condanne più gravi.

Cosa è successo nel frattempo?

Io sono portato a pensare che questa campagna antisemita che è stata lanciata, sia stata una sorta di ballon d’essai, cioè un modo di tastare il polso all’opinione pubblica, e quello che ha arrestato questa campagna quasi sul nascere, sono stati due fatti di portata diversa. Uno lo ha ricordato Chiara Colombini, e lo aveva ricordato anche Giovana nel suo libro (M. Giovana, Giustizia e Libertà in Italia. Storia di una cospirazione antifascista 1929-1937, Bollati Boringhieri, Torino 2005), e cioè che sono stati fatti dei passi falsi da parte della polizia, che avrebbero finito con il compromettere quella che era la spia principe, al di là di Pitigrilli, cioè Togo, René Odin. Per non comprometterlo non si poteva spingere troppo gli interrogatori. Quello che però credo vada ricordato è il contesto internazionale. In quel momento si crea una tensione tra l’Italia fascista e la Germania nazista riguardo all’Austria e, quando il 25 luglio viene assassinato il cancelliere Dollfuss questa tensione raggiunge il massimo e a questo punto, quando poi nel novembre si arriva ai processi, anche il «Popolo di Italia» – oltre a storpiare il nome di mio padre – dà notizia della cosa molto rapidamente nella pagina della cronaca giudiziaria.

 

Io credo che bisogna resistere alla tentazione di vedere una sorta di traiettoria, di linea continua che comincia nel 1934 e arriva alle reggi razziali. Qui è una discussione che si apre:  credo che sia una sorta di inizio che si spegne e tra i risultati di questo ballon d’essai c’è, è stato ricordato giustamente, l’inizio della «Nostra Bandiera», che è, se non sbaglio, nel maggio. C’è poi questa storia terribile che è stata raccontata, l’eccidio di Ettore Ovazza e della sua famiglia, che arriva alla fine di una traiettoria fascisticamente coerente. Io sono andato a guardare questi testi impressionanti, come Sionismo bifronte, questa raccolta di Ovazza che raccoglie i suoi articoli sulla «Nostra Bandiera»: sono documenti che vanno letti e analizzati.

Il problema che si pone a uno storico è quello di interrogarsi sulla direzione, e io credo che la ricerca vada spinta nell’analisi della comunità ebraica torinese, come una comunità particolarmente importante toccata sul vivo da questi arresti e che ha risposto, in una parte, ma una parte io credo maggioritaria della comunità, con la «Nostra Bandiera». Bisognerebbe fare un’analisi insieme sociologica, raccogliere tutto il materiale per vedere le reazioni della comunità. C’è un memoriale di Togo, René Odin, spia, uomo animato da un fortissimo pregiudizio antisemita: e però questo memoriale non pare inventato – Giovana lo pubblica in appendice al suo libro – e registra le reazioni della comunità, dei commenti sprezzanti su Segre e Ginzburg. Qui dietro c’è un problema che va analizzato. Del resto da un certo punto di vista perché gli ebrei avrebbero dovuto avere un atteggiamento complessivamente diverso rispetto a quello della società italiana? C’era una minoranza di antifascisti, certamente iper rappresentati tra gli ebrei rispetto a quella che era la società italiana, però resta il fatto che in quel momento la società italiana era nella sua grande maggioranza fascista, e così era la comunità ebraica torinese. E però certamente questa divisione che gli arresti del 1934 – ecco il significato vero, al di là delle vicende personali, di questi arresti – hanno creato andrebbe analizzata.

 

Anziché lavorare sull’idea di una traiettoria, di una linea continua, bisognerebbe analizzare questo caso come un caso molto significativo per capire come una comunità ebraica estremamente rappresentativa come questa, ha reagito a quella che per molti è stata una provocazione. Anche la «Nostra Bandiera» io non credo possa essere vista come un’anomalia, ma come una risposta a questi arresti.

 

L'articolo di Chiara Colombini è stato pubblicato su «la Stampa».

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