Pratiche e strategie del motore di ricerca / Google è ovunque

17 Ottobre 2017

Google è ovunque, Google è qualsiasi cosa. Google è, lo sappiamo tutti, un universo. Agisce su scala planetaria e su tutti gli ambiti della conoscenza umana, esplorandone ogni anfratto. Così facendo, ovvero esplorando e mappando, Google finisce per generare un doppio del mondo, talmente ampio e profondo, che appare quasi impossibile riuscire a tenergli testa. Ed è proprio questo quasi lo spazio della sfida semiotica che il team di analisti chiamato a raccolta dal recente Nella rete di Google. Pratiche, strategie e dispositivi del motore di ricerca che ha cambiato la nostra vita (a cura di Isabella Pezzini e Vincenza del Marco, Franco Angeli) lancia al gigante informatico: decostruirne la retorica, mostrare le procedure di costruzione del suo discorso, metterle alla prova di alcune obiezioni semiotiche, spiegare il significato delle sue tante interfacce, il ruolo ovvio e quindi di regola ignorato che esse svolgono nelle nostre vite è l'obiettivo esplicito del libro. 

 

Si comincia con la sua stessa identità aziendale (Pezzini). Prendendo in esame l'epopea mille volte raccontata da libri e magazine più o meno embedded dei due fondatori, Larry Page e Sergey Brin, emergono alcuni tratti caratteristici della retorica googliana. Il pilastro su cui tutto si fonda è, come prevedibile, l'innovazione. Affinché l'azienda possa risultare vincente sul mercato, essa non può che assumere il punto di vista dell'utilizzatore finale dei suoi prodotti. Una tale proiezione è lungi dall'essere assunta come inerte evidenza. Il cliente di Google, secondo la retorica aziendale, non va infatti assecondato, ma anticipato. "Creare il cliente", prospettandone desideri e necessità, relazioni e obiettivi, è l'unico modo per traghettarlo verso il futuro delle invenzioni tecnologiche: un modo sicuramente semiotico, osserva Pezzini, di approcciare il mercato (il riferimento rimanda all'idea echiana di Lettore modello). Affinché questa progettazione possa andare a buon fine, il dipendente Google deve essere, però, allo stesso tempo creativo e concreto, visionario ma non conflittuale. Egli avrà il talento di pensare liberamente e, così facendo, di vedere prima degli altri i trend di mercato, aiutando il proprio gruppo di lavoro a modellarsi in loro funzione. Ne viene fuori un quadretto tecnoentusiasta, fondato sulla fiducia nel ruolo benevolo della rete e su un paradigma sostanzialmente evoluzionista che promette emancipazione, grazie all'influsso positivo delle tecnologie.

 

Ma accanto a questo tipo di pubblicistica ottimista e integratissima, nella letteratura a tema Google, si può riconoscere un'altrettanto vigorosa tendenza alla disamina severa delle conseguenze di una società modellata sulle sue tecnologie: si va dai criteri, a dir poco opachi, attraverso cui si costituisce la gerarchia di link risultato delle interrogazioni ai suoi server, ai problemi di copyright che la googlizzazione della cultura genera, agli ulteriori problemi legati al carattere privato di una tale impresa a cui non corrisponde niente di comparabile, né in termini di influenza né in termini di tecnologie, sul versante pubblico. 

Toccherà all'altra curatrice (Del Marco) tracciare, invece, i termini della struttura aziendale di Google, ripercorrendo le ricadute identitarie della sua immagine coordinata, le strategie della nuova holding, Alphabet, e dei servizi principali offerti da Google, ideale viatico verso gli approfondimenti che gli autori dedicheranno ai singoli asset

 

Si passa, dunque, alla geolocalizzazione (Finocchi). Che differenza c'è fra l'esperienza di utilizzo delle mappe cartacee e i servizi di geolocalizzazione di Google? Come pensare dal punto di vista semiotico, lo spazio delle Google Map e tutto ciò che a partire da questo tipo di tecnologie si può realizzare? Che rapporto c'è fra percezione di sé, identità e spazi simulati dalle macchine? Come inquadrare e quindi descrivere le conseguenze dell'interazione attraverso spazi virtuali? Bisogna andare con ordine. Se è vero che le arti hanno sempre posto il problema dell'aumento percettivo dello spettatore nei confronti del mondo, ora prefigurandone l'esperienza (racconti di viaggio), ora indicando al viaggiatore i luoghi da vedere (guide, fotografie e quant'altro), le mappe di Google sono onnipresenti, ci seguono sempre e sono sempre a nostra disposizione in ogni momento della vita. Allo stesso tempo, le mappe di Google permettono di orientarci e di attraversare virtualmente ogni luogo del globo terraqueo. Di fronte alla facile obiezione che fra mappe reali e mappe virtuali non ci sia una grande differenza, giova, quindi, ricordare che, quantomeno per motivi meramente quantitativi, il fenomeno presenta caratteri di grande novità: è come se ogni viaggiatore (ma anche ogni stanziale!) potesse avere sempre con sé non soltanto la mappa della città in cui si trova, ma tutte le mappe del mondo.

 

Questa pervasività diventa iconizzazione del mondo, grazie al fatto che la sua mappatura permette a ognuno di collegarvi ulteriori testi, testi che mirano a rendere meglio l'idea dello spazio, raffigurato dagli utenti in ogni angolatura possibile e collegato a video e scritti di qualsiasi sorta, vere e proprie espansioni intermediali dell'esperienza di attraversamento. Ma questa infrastruttura non è propriamente un testo narrativo. Essa sta un gradino indietro: non narrazione, ma setting da esplorare all'interno del quale posizionarsi, trovare spazio e posto, ancorandovi storie. Questo mondo secondo, specchio (in)fedele di quello reale, è - si tende spesso a dimenticarlo - frutto di una costruzione, il cui innesto nella vita quotidiana di ognuno non è affatto neutro, nella misura in cui permette un vero e proprio "aumento" della propria capacità di percepire. Grazie all'utilizzo delle tecnologie di geolocalizzazione, ciò che si sta in un dato momento percependo si rivela, quindi, già esperito, anticipatamente, dal software, che può, così, arricchire questa percezione, suggerendo all'utente una serie di testi a corredo dell'esperienza e orientando il suo comportamento. Si tratta di una delega fondamentale della percezione alla macchina che produce per l'utente il non piccolo vantaggio di poter interagire in un ambiente già costituito ed elaborato, con l'obiettivo di abbassarne la complessità, di semplificarlo.

 

Quando, invece di girare per il quartiere in cerca di una fermata dell'autobus, vado dritto alla vettura di Car2go geolocalizzata, il software ha già percepito per me, orientandomi nello spazio e offrendomi dei percorsi volti a ottimizzare il tempo della mia vita. Si tratta di un incremento percettivo, che è a tutti gli effetti una conquista per l'umanità. D'altra parte, però, lo spazio virtuale si differenzia da quello reale, a cui pure vorrebbe sostituirsi, anche per il fatto di esserne una contrazione più che finita. Come ogni navigatore può facilmente appurare, è facile scontrarsi con i limiti delle rappresentazioni virtuali del mondo offerte dalla rete. Ogni qual volta il Gps ci porta da tutt’altra parte rispetto alla nostra meta, magari perché l'indirizzo verso cui volevamo dirigerci non è stato ancora “mappato”, ovvero, ogni qual volta tentiamo una zoomata su un dettaglio della nostra streetview e il quadro si frantuma in una congerie di pixel illeggibili, possiamo prendere atto di come il mondo simulato sia soltanto una versione semplificata, imperfetta e finita, di quello reale. A questo punto una prima presa d'atto teorica: se guardati dal punto di vista della percezione, i due mondi, reale e virtuale, differiscono proprio per la loro estensione; se il mondo naturale è per definizione comune e non passibile di essere riconfigurato, quello digitale permette l'incremento percettivo a patto di prendere atto dei suoi limiti. 

 

La questione di come cambia la relazione con le opere d'arte attraverso la mediazione delle tecnologie di Google è affrontata da ben due saggi, il primo scritto a quattro mani da Lucia Corrain e Anita Macauda, il secondo, invece, da Francesca Polacci. È questo il caso in cui si possono apprezzare delle differenze di posizionamento rispetto alla medesima problematica, tali da rendere i due saggi speculari. Se, da una parte, Corrain e Macauda assumono una prospettiva di apertura verso le evoluzioni dello sguardo permesse dalle macchine, sottolineando come il linguaggio dell'arte si sia sempre costituito a partire da un rapporto conflittuale, ma proficuo con le virtualità implicate dalle tecnologie, Polacci, interviene sul medesimo argomento in modo decisamente critico. Le autrici concordano sul fatto che l'impatto delle tecnologie di Google in ambito artistico chiami in causa i problemi fondativi del rapporto fra percezione e arte. Se si osserva partire da un tale sguardo lungo, affiorano impensate affinità, per esempio, fra i risultati delle query di Google Image e i Cabinets d'amateur del XVII secolo.

 

I "risultati della ricerca" mettono di regola in un unico calderone la Gioconda di Leonardo, quella coi baffi di Marcel Duchamp e le mille altre reinterpretazioni degli utenti, costituendo liste di immagini il cui fascino sta proprio nel gusto per l'ennesima variazione, nella curiosità e nel desiderio. Altra storia per Google Art Project, che sostituisce alla logica dell'accumulo propugnata da Google Image Search, l'"anima regolata del sapere" (Stoichita) dell'archivio, proponendo un itinerario strutturato fra le più importanti opere d'arte scansionate e messe a disposizione degli utenti della piattaforma. Alcune caratteristiche di questo servizio emergono per la loro pregnanza. Innanzitutto, troviamo la possibilità di giustapporre a coppie le opere in visione sullo schermo. Si tratta di un vecchio metodo che gli storici dell'arte normalmente utilizzano per far emergere le differenze di stile fra opere e autori diversi. Mettendo a confronto, per esempio, due quadri ritraenti un medesimo soggetto, si possono notare gli scarti significativi in grado di posizionare nello spazio e nel tempo, in una poetica, le opere in esame. Questa operazione fondamentale costituisce un vero e proprio museo immaginario che, grazie alla tecnologia, può espandere la propria collezione "differenziale" all'infinito.

 

Altra caratteristica fondamentale di Google Art Project è la possibilità di zoomare a livelli mai visti prima le collezioni scansionate. Una visione così dettagliata è caratteristica dello studioso, interessato al particolare, al valore significativo della singola pennellata. Essa costituisce, però, un'opportunità, a disposizione anche dell'utente più ingenuo, di superamento del figurativo in nome del valore intrinsecamente visivo della rappresentazione, del suo linguaggio plastico. Questo passaggio, non sarà, comunque, a senso unico. Al contrario, nei casi più felici, permetterà un felice dialogo fra questi due aspetti del visivo. 

La ritrovata centralità del dettaglio nella relazione con l'arte mediata da Google ha, poi, una evidente ricaduta passionale: stupore e curiosità. Da una parte, c'è la meraviglia di fronte all'inatteso, rivelato dal dettaglio e dalla visione attenta dell'opera, dall'altra, c'è la curiosità di connettere questi dettagli in un intreccio narrativo. È quello che succede al fotografo di “Blow Up” (1966) di Antonioni: da una parte, egli resterà fulminato dalla complessità rivelata dalle sue foto scattate nel parco, una volta ingrandite, d'altra, non potrà fare a meno di cercare di ridurre tale complessità, riconducendola a un filo razionale, attraverso congetture più o meno verosimili. 

 


Il contributo di Francesca Polacci, come si diceva, torna sulle medesime questioni, rappresentando una sorta di controcanto del capitolo precedente. Se è vero, per esempio, che Google Art Project offre la possibilità di navigare, di muoversi fra le stanze dei musei più importanti del mondo, simulandone la visita, non si può non notare l'inadeguatezza dell'esperienza offerta da Google. Le stanze dei musei appaiono affastellate, senza la possibilità che il versante significativo, politico-ideologico, del loro allestimento possa davvero essere inteso: perché tre dipinti sono stati disposti dal curatore della mostra in un trittico? Domanda banale a cui non si può, però, dare una risposta attraverso la rimediazione tecnologica che del trittico offrirà il museo, dato che la streetview non permette di riconoscere, se non assai malamente, le immagini rappresentate. Ciò che resta dell'allestimento è così soltanto la decorazione. Anche l'attraversamento e l'orientamento nelle stanze virtuali è molto diverso da ciò che succede in un museo fisico: nessun dépliant con la mappa dell'esposizione, nessun cartello, nessuna indicazione sul percorso che ci si accinge a compiere viene fornita. Il tutto assume così un aspetto ludico ('giochiamo a visitare il museo Louvre') assai lontano dalla dimensione pedagogica e politico-culturale che i musei hanno incarnato nel nostro scenario dalla notte dei tempi.

 

A questa critica non rimane esente nemmeno la microscope view (ovvero la possibilità di ingrandire i dettagli delle opere di cui abbiamo detto sopra), colpevole di avvicinare, senza fornire il minimo supporto didattico (cosa vale la pena osservare, ingrandendo?) lo sguardo sull'opera, a tal punto da trasformare la visione "ottica" in "aptica", a tutto vantaggio della seconda. Laddove la visione ottica permetterebbe un dominio cognitivo dell'opera d'arte, l'avvicinamento dello sguardo sposterebbe la fruizione dell'opera d'arte sul versante tattile e corporeo, emotivo. Un tale silenzioso slittamento rappresenterebbe, ancora una volta, un'interessante opzione dal punto di vista ludico, che appare a Polacci criticabile dal punto di vista della funzione primaria del museo, che è, come si è detto, di carattere politico culturale e solo successivamente passionale. Ciò che consegue da queste dinamiche è che le tecnologie di Google promettono una democratizzazione dell'arte finendo, piuttosto, per costituirne nei fatti una banalizzazione, contribuendo al lungo processo (iniziato, invero, prima di internet) di dismissione del museo, come istituzione pedagogica fondamentale delle società.

 

A questo punto, si passa ai Google Glass. A occuparsene è Ruggero Eugeni che ne ricostruisce la storia per rileggerla in termini foucaultiani. Dal suo punto di vista, i Google Glass possono essere considerati perfetti "dispositivi", sia in quanto aggeggi tecnologici dotati di caratteristiche e funzionalità specifiche, sia in termini più propriamente filosofici, in quanto oggetti in grado di condizionare l'esperienza dei soggetti che li utilizzano. Essi sono, inoltre, dispositivi postmediali, in grado di mettere in scena le più disparate esperienze di fruizione, e, soprattutto, diventano tutt'uno con il nostro corpo, rivelandosi doppiamente efficaci, sia nella misura in cui svolgono alcuni compiti al posto nostro, sia simbolicamente, in quanto oggetti magici addirittura in grado di ridefinire l'umano. I glass, da questo punto di vista, contribuirebbero a definire il soggetto in quanto "embodied, embedded, enacted, extended, emerging, affective and relational", tutti aggettivi che vanno nella direzione di una costruzione ibrida dell'umanità, in cui la distinzione fra bios e logos tende a venire meno.  

Ancora interessanti sono le riflessioni di Dario Cecchi su Google Spotlight Stories, di Bianca Terracciano sulle ibridazioni fra forme di consumo on e offline nel mondo della moda e di Claudia Torrini e Tiziana Barone sugli spazi di Google (dai suoi fantasmagorici uffici fino ai pop-up, come il Winter Wonderlab dentro i centri commerciali della catena di Westlife). Tocca, invece, a Giulia Ceriani, mettere in luce un misunderstanding fondamentale: quando si dice trend, si intende vettore, trasformazione, cambiamento, ovvero il contrario di ciò che offre Google Trend, piattaforma in grado di restituire informazioni sul passato, dati statistici, serie storiche, di regola, usate dai marketer come strumenti per anticipare i comportamenti di consumo. Senza l'analisi semiotica di questi dati, senza la convocazione delle storie di cui sono portatrici, senza un'adeguata contestualizzazione di tutto ciò, si rimane schiavi della tirannia dei numeri e si cade nell'errore di pensare il mondo soltanto al passato, senza prevedere la possibilità che il tavolo possa essere ribaltato e che una tendenza minoritaria, per ragioni eminentemente semiotiche, possa prendere il sopravvento e divenire così mainstream.

 

Ma è sul versante delle nuove forme di lavoro (saggio di Parisi) che emergono ancora alcuni aspetti fondamentali dell'universo Google. In primis, riprendendo Pasquinelli, si ricorda come il problema della società del controllo instaurata dalla proliferazione mediale dei nostri anni possa essere, per certi versi, rovesciato: non solo e non tanto sorveglianza dall'alto, ma gigantesco dispositivo di conversione del valore. Più che a controllare, Google sarebbe interessato a tradurre (attività eminentemente semiotica) ogni interazione umana in valore in grado di far funzionare la sua gigantesca macchina. E, a questo proposito, i tanto famigerati like, potrebbero essere a ragione considerati come il fondamento di questa economia, la sua moneta sonante. Moneta sonante, manco a dirlo, affettiva, "affective nuggets" che spingono ognuno a "lavorare gratis", mettendo in scena la propria vita quotidiana sui social network, per nutrire il proprio avatar virtuale e modellarlo a proprio piacimento, ricevendone in cambio l'approvazione della propria comunità di lettori. Controllare, reprimere, interessa, insomma, i governi. Ciò che, invece, è il vero core business delle società informatiche è estrarre metadati, informazioni, dalle interazioni, in grado di riempire i suoi palinsesti e generare profitto. Ed è proprio l'indistinguibilità fra tempo del lavoro e tempo della vita (quando posto su Google o su qualsiasi altro social network le foto del mio compleanno sto lavorando?) a costituire il prototipo della nuova fabbrica, libera dall'orario di lavoro ed emotivamente densa. Questo modo di essere/lavorare è già egemonico nelle classi di lavoro cognitivo, ma ancora deve forse rivelare la sua criticità.

 

Il volume si chiude con un fondamentale saggio di Patrizia Violi su identità e memoria. Cosa succede all'umanità con l'avvento della rete? Costituisce la rete un gigantesco dispositivo di dismissione della memoria in favore di una comparabilità di tutto con tutto, di un presente allo stesso tempo totalitario e senza forma? La questione va al cuore della dialettica fra apocalittici e integrati, e fa bene Violi a riconnettere le polemiche attuali su questo fronte al problema di base del rapporto fra tecnologie e memoria (come aveva già, peraltro, fatto nel 1964 Eco): è evidente che si tratti della medesima questione. Per inquadrarla, però, da un punto di vista meno ideologico e naïf di quanto non faccia il dibattito giornalistico, sul tema bisogna definire meglio l'oggetto della riflessione, tracciando opportuni confini fra le nozioni e i concetti in gioco. Per comprendere davvero il senso della trasformazione in atto, bisognerà, allora, prendersi la briga di distinguere fra forme di memoria. È possibile riconoscere una prima forma di memoria, la memoria archivio, legata alla catalogazione e, un'altra, la memoria traccia, legata, invece, alla dinamica di trasformazioni e riscritture a cui la memoria è di regola sottoposta. Ambedue sono attive sul web. A partire da questa distinzione di base, bisognerà distinguere fra memorizzabile, memorabile e memorizzato, veri e propri modi di esistenza semiotica della memoria.

 

La cultura tradizionale (pre-internet) ha storicamente funzionato, mettendo in riga questi tre ambiti della memoria. Da una parte, c'è il calderone di testi memorizzabili dalle società, di regola scremato in funzione di specifici criteri che selezionano alcuni di essi come degni di essere ricordati (memorabile), e infine c'è la concretizzazione imperfetta di questa selezione che è la memoria realizzata (memorizzato). Internet, secondo alcuni, avrebbe influito su questo processo spazzando via il filtro atto a scremare il sapere, riconoscere fatti più importanti degli altri, stabilire criteri di pertinenza e selezione. Di questo passo, Internet, non possedendo più tale filtro, finirebbe per somigliare al Funes di borghesiana memoria, che ricorda tutto al caro prezzo di dismettere ogni distinzione di valore, emergendo come lo stupido perfetto. Contro questa semplificazione, Violi prende posizione, provando a dimostrare che le cose non sono così semplici e che Internet possiede dei filtri semiotici in grado di produrre memorabilità, solo che si cercano nel posto sbagliato. Piuttosto che agire nella fase di selezione (non c'è un cattivo che decide cosa possa essere considerato degno di pubblicazione e cosa no), il filtro agisce nel momento del retrieval, ovvero nel momento della ricerca, secondo criteri statistici. Il Page Rank, secondo Violi, rappresenta l'esempio perfetto di tale meccanismo.

 

La rete iscrive tutto, salva tutto ma sono pochi quelli che si prendono la briga, di fronte alla propria lista di risultati, di andare oltre la terza pagina, con il risultato che ciò che non è statisticamente interessante finisce per essere dimenticato. A questo punto, Violi passa a sostenere che, soccombendo ai criteri statistici, sono i testi e le pratiche meno standardizzate a subire una marginalizzazione, intendendo con "meno standardizzati" quei testi che uscendo fuori dai canoni comunicativi ordinari risultano più difficili e, quindi, meno “linkati”. Mi piace aggiungere a questa idea alcune considerazioni, ricordando che a mitigare questo effetto, contribuiscono alcuni meccanismi interni alla rete stessa. Per esempio, qualsiasi sia la query, Google tende a restituire al vertice della lista le voci di Wikipedia, voci che sono costruite secondo un progetto editoriale che ne verifica fonti e dettagli, con il risultato di restituire la complessità dei temi ricercati, senza la necessità di andare a fondo nella ricerca. C'è di più. È vero che, nella misura in cui un testo è pubblicato da un sito influente, (nodo egemone di una rete cfr. Barabási), assecondando le aspettative di genere del suo pubblico, esso avrà le carte in regola per essere rintracciato più facilmente, ricevendo molti link. È anche vero, però, che lo stesso testo difficilmente sarà individuabile, se pubblicato uscendo fuor dai canoni (ovvero dalle aspettative di genere), dal singolo, su un blog personale magari appena creato. Una tale evidenza porta a considerare un'ovvietà: il criterio statistico è specchio del potere di influenza dell'editore (o al limite, dell'autore, editore di se stesso), della sua capacità di maneggiare i codici comunicativi del medium che utilizza e di costruire un patto di fiducia efficace con i suoi lettori. Tutto ciò, piuttosto che portare a riflettere su una presunta diversità della rete, potrebbe essere un argomento per sostenere il contrario.

 

Insomma, anche su Internet vale la regola d'oro dell'editoria: il fatto che a pubblicare il mio nuovo romanzo sia Einaudi o, al contrario, l'ultimo editore di provincia, ha ovviamente impatto sulla distribuzione e sulla centralità del romanzo stesso nel sistema della cultura, ora come allora, a meno che il mio stesso romanzo pubblicato dall'editore di provincia non venga preso a cuore da una rivista specializzata in grado di fare da mediatrice con il circuito mainstream di riferimento e promuoverne il passaggio dai margini al centro del sistema. I blog per molto tempo hanno svolto questa funzione, traghettando i loro beniamini verso il successo a cavallo fra i media (cfr. Granieri 2005). Cosa cambia, allora? Il mio punto di vista è che ci stiamo lasciando alle spalle un periodo di forte scollamento fra editori on e offline, in cui, semplicemente, gli editori tradizionali hanno sottovalutato il potere di egemonia della discussione online, cedendo il campo ai nuovi venuti (puntualmente, accusati di essere usurpatori) della rete. A ben vedere, la questione assume, pertanto, i tratti di uno scontro fra fazioni più che organizzate, che peraltro è in via di assestamento. Sempre più spesso i grandi gruppi editoriali si presentano come editori post-mediali, in grado di produrre egemonia culturale ampia on e offline, attraverso strumenti e media eterodossi, non disdegnando nemmeno di assoldare i tanti influencer, editori di se stessi, presenti in rete per tirare l’acqua al proprio mulino. 

 

Ma il già ricco ragionamento di Violi non si esaurisce su questo aspetto. I social network come Facebook, infatti, sono in grado di incrociare con risultati inaspettati memoria archivio e memoria traccia, con il risultato di creare cortocircuiti proprio a proposito della memorabilità degli eventi. In generale, tendiamo a utilizzare questo tipo di tecnologie come strumenti di conversazione senza curarci della traccia che tali conversazioni lasciano online, anche perché i social network tendono a farcela dimenticare. Succede così che ci ritroviamo a dover fare i conti con frammenti di conversazioni online di cui non riconosciamo la paternità, per il semplice fatto che non sono stati espressi con la volontà di attestarla, ma al contrario come momenti di orientamento o di negoziazione di un'opinione con il proprio gruppo: ciò che viene utilizzato come traccia ci viene presentato come archivio da chi vuole farci pagare il conto delle nostre più o meno volontarie attestazioni. Ancora, interessante è nei social network, il rapporto fra lo stream collettivo e quello individuale.  Se il primo è organizzato sull'idea della sincronicità, il secondo è organizzato come un grande archivio. Questi due aspetti concorrono a creare delle identità collettive estemporanee, basate su ibridazioni temporali e spaziali, generando nuove collettività che hanno il proprio centro proprio nella rete. La maggior parte di esse sono fondate sulla nostalgia, sul ricordo di epoche mai veramente vissute, ma fortemente ancorate alla socializzazione online

 

Che cosa ne sarà di tutto questo conversare dipenderà, conclude Violi, da quanto terreno comune continuerà a fornire la rete: sempre più massivamente i motori di ricerca e i social network tendono a costituire bolle identitarie di opinioni e soggettività compatibili e molto autoreferenziali, frammentando gli scenari di interazione. Per rendersene conto, basti comparare i risultati di una medesima ricerca fatta con Google da due account diversi: i risultati generati saranno differenti, sia in funzione delle ricerche precedenti operate da ognuno degli utenti, sia del luogo e del momento in cui essa è stata compiuta. È questo il vero rischio che corriamo nelle nostre vite apparentemente connesse: che un silenzioso motore, ci disconnetta sempre di più, restituendoci un'immagine del mondo che ci somiglia moltissimo, ma che non riesce più nemmeno a includere la diversità del nostro vicino di casa. 

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