Intervista con il filosofo francese / Michel Serres. Perché ho scritto alcuni dei miei libri

7 Febbraio 2018

Do il benvenuto a Michel Serres, un giovane filosofo di 87 anni che di recente ha pubblicato molti libri in Italia.  Le porrò alcune domande sui libri ora disponibili per i lettori italiani: Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente, tr. it. di Chiara Tartarini, Bollati Boringhieri, Torino 2016;

BioGea. Il Racconto della terra, tr. it. di Maurizio Costantino e Rossana Lista, Postfazione di Francesco Bellusci, Asterios Editore, Trieste 2016; Darwin, Napoleone e il samaritano, tr. it. di Chiara Tartarini, Bollati Boringhieri, Torino 2017; Hergé mon ami. Studi e Ritratto, a cura di Domenico Scalzo, tr. it. di Simone Massa, Portatori d'acqua, Pesaro 2017. E anche la bella antologia a lei dedicata a cura mia e di Mario Porro: Michel Serres, Riga 35, Marcos y Marcos, Milano 2015.

 

Partiamo dal titolo Il mancino zoppo (Le gaucher boiteux), che descrive la sua condizione fisica – «Penso, dunque biforco. Già mancino, ho rischiato l’emiplegia: zoppico dolcemente» (p. 93) –, ma anche, nel suo stile a più voci, i suoi “personaggi concettuali”, Pantope, Hermès, Petite Poucette e molti altri. La sua filosofia produce personaggi. Ci dica qualcosa su questi personaggi. Come li ha creati?

 

Sulla prima parte della domanda, quando richiama l'espressione “mancino zoppo”, vorrei dire che essa si riferisce a una storia millenaria. All’origine gli eroi dell’antichità greca erano detti “zoppi”. I nomi di Edipo, di Laio, padre di Edipo, e di Labdacos, padre di Laio, rinviano tutti e tre a una caratteristica comune, la “difficoltà a camminare dritti” (Labdacos = “zoppo”; Laio = “sinistro”, “deforme”; Edipo = “piede gonfio”). E all'origine dell’antichità latina c'erano Orazio Coclite e Muzio Scevola, che erano uno guercio (cocles) e l'altro mancino (scevola). Nella tradizione ebraica Giacobbe che sta per diventare Israele, il fondatore, se vogliamo, del termine, lotta tutta una notte contro l’angelo e diventa zoppo. 

Quindi questa tradizione è davvero molto antica, e vuol dire che in qualche parte del corpo è necessaria una qualche forma di squilibrio, e tale squilibrio è favorevole alla marcia, all’avanzata; si può camminare grazie a una rottura dell’equilibrio. Questa specie di corpo a metà, di mezza sensazione che ci coinvolge è molto interessante. E così, se volete, il personaggio del “mancino zoppo” è una sorta di ripresa di una tradizione estremamente antica.

 

In secondo luogo, per quel che riguarda i personaggi, io credo che la filosofia debba dire tutto. Sa bene che ci sono scienze specialistiche e scienze generaliste. Il filosofo è generalista, perché ha da dire su tutto. Ma come? Deve dire di tutto in tutte le forme possibili, tanto con la geometria, l’algebra, con scienze come la fisica o la biochimica, ecc., quanto con la poesia, la letteratura, ecc. E ciò è evidente nelle tradizioni che ci riguardano – noi francesi e italiani –, nelle quali si dice che i filosofi sono anche letterati.

La filosofia produce personaggi, ma non direi “personaggi concettuali”, bensì personaggi reali che si possono incontrare per strada, come si può incontrare il “mancino zoppo”. Non sono concetti, allegorie, ma personaggi reali come quelli che un poeta o un romanziere avrebbero potuto inventare. Ecco la molteplicità delle vie di accesso alla realtà. E si tratta di tradizioni che sono penetrate a fondo nella cultura latina, italiana, spagnola e francese.

 


In Darwin, Napoleone e il samaritano espone una filosofia della storia. Nessuno oggi ha il coraggio di proporre una filosofia della storia. E una filosofia della storia che rinvia alla visione di Gioacchino da Fiore sul progresso dello Spirito in tre periodi: l'epoca dell'origine, l'epoca dura e l'epoca dolce. L'epoca dolce del Samaritano si apre con la pace, la medicina, il virtuale. Un'eresia, si direbbe, che annulla anche l'opposizione natura/storia.

 

Vorrei rispondere richiamando ancora una tradizione. C’è in Francia un libro di un gesuita francese, Henri de Lubac, un libro molto bello, che si intitola La Postérité spirituelle de Joachim de Flore [La posterità spirituale di Gioachino da Fiore, tr. it. di Francesco di Ciaccia e Gabriella Cattaneo, 2 voll., Jaca Book, Milano 1981-83]. Questo libro sottolinea che a partire da Gioacchino da Fiore non c’è una filosofia della storia, dal medioevo ad oggi, che abbia evitato la divisione del tempo in tre parti. In tal modo Gioacchino da Fiore è anche l’ispiratore di Hegel, di Marx, di Bossuet e così via, di tutti i filosofi della storia. Egli richiama così la più antica tradizione della filosofia della storia del nostro tempo.

In secondo luogo, a proposito della rottura natura/storia io dico che accade tutto il contrario, perché per la prima volta abbiamo creato una storia del mondo, quello che chiamo il Grand Récit, ovvero sappiamo ora veramente che la storia umana si collega alla storia del mondo, alla storia dei viventi, all’evoluzione darwiniana, ecc. Di conseguenza, al contrario di quanto si crede, il legame natura/storia non è mai stato assicurato più saldamente di quanto lo sia oggi. 

 

La terza risposta alla sua domanda è che, soprattutto nella seconda parte del libro, ho scritto la storia dal punto di vista delle vittime. Ci sono stati grandi uomini come Napoleone, Luigi XIV, Cesare, Alessandro Magno. ma io guardo alla storia dal punto di vista del numero di morti che questi grandi uomini hanno prodotto. E per questo ho chiamato questo periodo della storia l'epoca dura.

Ha ragione a segnalare che viviamo in pace, almeno in Occidente, da più di settant’anni e che la speranza di vita è cresciuta di una decina o ventina di anni, e quindi che viviamo un momento del tutto eccezionale della nostra storia.

 

Le porrò ora tre domande su Hergé mon ami. Studi e Ritratto, appena tradotto da Simone Massa in un libro a cura di Domenico Scalzo. Hergé è stato un vostro amico d'infanzia, di maturità e di vecchiaia. «Hergé insegna a ridere, a pensare, a inventare: unico verbo in tre persone» (p. 18).

La figura di Tintin possiede tratti indeterminati, quasi inespressivi, quasi a favorire l'identificazione di ogni lettore con l'eroe di Hergé. Lei è stato un lettore attento delle Aventures de Tintin fin dall'infanzia, tra la guerra di Spagna e la Seconda Guerra Mondiale. Ci può descrivere il momento in cui ha detto, come Flaubert davanti a Madame Bovary, “Tintin sono io”?

 

La mia risposta è molto divertente. Ci sono in Francia, e credo anche in Italia, dei cartoni nei quali si trova un foro al posto della testa e ci si può fotografare mettendo la testa nel foro e apparire nel resto del corpo, ad esempio, come un soldato di una legione romana. Una volta ero a teatro e ho visto un attore al quale è caduto sul collo e sulle spalle un muso di toro e che se ne è andato, barcollante, tra le attrezzature di scena. Ho capito allora che Tintin era come uno di quei cartoni. Per questo motivo Tintin ha dei tratti così indeterminati, perché attraverso quel foro Gaspare o Michel o ogni altro individuo può mettere la propria testa. Di conseguenza Tintin è lei, sono io, siamo tutti. Credo che il successo di questo fumetto sia dovuto al fatto che noi tutti possiamo identificarci con il personaggio principale. È questo, credo, il motivo della sua originalità, o piuttosto della sua assenza di originalità, che influenza tutti.

 

Ci dice che ha appreso, per la ricerca sulle origini della nostra civiltà, più da Hergé che da Marx o da Freud: «Hergé – lei scrive – non ha alcun bisogno di economisti, di psicoanalisi o antropologia, né di etnologi, poiché disegna, senza dirlo pesantemente, ciò che questi sapienti e queste scienze credono di spiegare. Meglio, egli inventa e si spinge più lontano di loro» (p. 54). 

 

Richiamo ciò che ho detto prima sulla tradizione che accomuna Italia e Francia nel mettere dei personaggi nella riflessione concettuale, come avviene con Vico o, tra di noi, con Diderot. Evidentemente in quel momento ci si persuade che il racconto, come quelli sviluppati dai grandi scrittori della letteratura o da Hergé che ne prende il testimone, che questi personaggi in azione o questi racconti dicono cose molto più profonde, o, se vuole, sono la sintesi, la sintesi vivente di determinazioni concettuali che sarebbero più astratte. E in un certo senso questa letteratura, compresi i fumetti, fa la sintesi delle scienze umane. Per questo ho scritto una volta che Hergé era il Jules Verne delle scienze umane.

 

Una delle avventure più celebri di Tintin, Les Bijoux de la Castafiore, Hergé affronta il tema della mancanza di comunicazione a causa di un eccesso di comunicazione. Tema che attraversa la sua filosofia, nel gioco mai risolto tra immagini e parole che riassume l'arte del fumetto. Qual è oggi il senso degli scacchi nella comunicazione?

 

Risponderò in due maniere. Una personale e una oggettiva.

In maniera personale devo dire che quando ho letto Les Bijoux de la Castafiore mi sono accorto che si trattava di una meditazione molto precisa sulle rotture di comunicazione. E ciò mi ha colpito molto, perché avevo già scritto Hermès, La Legende des Anges e tutta la mia ricerca si era orientata sulla comunicazione.

In maniera oggettiva si deve rispondere alla domanda: “perché c’è uno scacco nella comunicazione”. Vi sono diverse ragioni. La prima ragione, oggettiva, ma ora anche soggettiva, è che quando si connettono troppo i canali di comunicazione, essi si intrecciano gli uni con gli altri: si ha nello stesso tempo e insieme la televisione, il telefono, internet. Di conseguenza, tutto a un tratto ogni mutamento nel regime delle comunicazioni è completamente muto, per eccesso di comunicazione. E bisogna anche aggiungere – è molto semplice – che all’epoca di Hergé la televisione non funzionava ancora molto bene, come anche il telefono. Vi sono nei fumetti di Hergé una serie di immagini datate di un periodo nel quale effettivamente si stavano realizzando nuovi sistemi di comunicazione, ma in cui questa realizzazione non era ancora molto precisa.

 

Per finire due domande sul futuro dell'umanità, che è legato alla gioventù di oggi. Ha scritto in Petite poucette (2012; Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere, tr. it. di Gaspare Polizzi, Bollati Boringhieri, Torino 2013): «i ragazzi abitano dunque il virtuale […]. Non conoscono, né integrano, né sintetizzano come noi» (p. 14). Quale sarà la pedagogia del futuro in questo predominio del virutale? Come combinare la creatività con la conoscenza legata ai lunghi esercizi sui libri e sulle formule? 

 

In Petite pouchette ho descritto le differenze che mi sembravano più importanti tra i giovani e noi. Quando siamo in presenza di internet o degli strumenti odierni di comunicazione abbiamo un accesso estremamente facile alle informazioni. Noi due, per esempio, abbiamo deciso di apprendere qualcosa di molto difficile, come la meccanica quantistica. Ci troviamo insieme e con internet acquisiamo tutte le informazioni possibili, ma non comprendiamo niente in queste informazioni e di conseguenza dobbiamo cercare un amico che diventi il nostro maestro e ci permetta di trasformare l’informazione in conoscenza. L’informazione non è la conoscenza. Con questo esempio si vede molto bene che avvicinarsi all’informazione è molto facile, ma per arrivare alla conoscenza bisogna impegnarsi a lungo. La pedagogia non è stata davvero annullata per effetto dei nuovi strumenti di comunicazione. C’è sempre bisogno di un pedagogo, di un insegnante o di un professore.

 

Ci può regalare, per finire, un ricordo della sua amicizia con Ilya Prigogine, del quale si è appena celebrato il centenario della nascita? Su “Le Monde” del 4 gennaio 1980 ha scritto, a proposito di La Nouvelle Alliance: «un libro tanto equilibrato sembra un miracolo».

 

Me ne ricordo bene di Prigogine, perché è scomparso alcuni anni dopo, dopo aver conseguito il premio Nobel per la fisica. L’ho conosciuto bene e gli ho sottoposto il mio articolo uscito su “Le Monde” prima che fosse pubblicato. La frase che avete citato è una frase quasi ironica, perché tutto il suo libro è fondato su un concetto che è l’inverso di quanto ho scritto. Prigogine è un teorico della termodinamica e ha studiato il non-equilibrio. Ha fatto bene a porre questa domanda, perché consente di ritornare alla prima, a quella sul “mancino zoppo”. 

Lei aveva esattamente l’idea di ciò che abbisognava in questa nostra conversazione, ovvero che per camminare bisogna produrre uno scarto dall’equilibrio e per pensare bisogna sempre mettere in questione ciò che si è imparato. Tutto si tiene, grazie a lei, con la prima e con l'ultima domanda.

 

Attendiamo ancora molti suoi libri. Quale sarà la prossima tappa della sua randonnée, dopo il suo ultimo libro C’était mieux avant!?

 

Scriverò ancora altri libri. Quando si scrivono dei libri non ci si ferma mai. I calzolai fanno sempre delle scarpe nuove.

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