Commonfare

14 Gennaio 2014

Terzo Stato (abate Sieyès), Quarto Stato (Pelizza daVolpedo), Quinto Stato (precariato moderno): tre composizioni sociali del lavoro, fra loro diverse, ma tutte accomunate da un aspetto: la necessità e la dannazione del lavoro.

 

È quindi ineluttabile quando si parla di condizione precaria, appunto di Quinto Stato, affrontare il tema,  sempre più rimosso, di che cosa sia oggi il lavoro.

 

Per lavoro (parola di uso tradizionale per indicare una prestazione umana frutto dello sforzo del corpo e della mente) si intendono diverse cose, a seconda della finalità che vengono perseguite. Una prima distinzione classica è quella tra il lavoro che produce valore di scambio (lavoro produttivo) e lavoro che produce valore d’uso (lavoro improduttivo). Sulla base di tale distinzione, nel fordismo, in modo misurabile, si determinava la sua remunerazione (“il cottimo”: tot  pezzi, tot soldi).

 

Solo il lavoro produttivo deve essere pagato, esito della rivoluzione francese che sancisce che l’attività lavorativa produttiva è libera, non può essere sottoposta a nessuna forma di coazione e pertanto deve essere remunerata (più o meno bene, ma questo è un altro problema), mentre il lavoro improduttivo (la cura, l’arte, la formazione, la relazione, la comunicazione, ecc.) se è frutto di una libera scelta individuale ed è finalizzato alla realizzazione della propria individualità/soggettività di uomo/donna libero/a, non necessita di una remunerazione, perché, non scambiandosi con capitale, non produce valore di scambio.

 

Con il termine “lavoro” (che deriva da “labor”, ovvero “fatica”, “dolore”, “tortura”)  si indica il solo lavoro produttivo, che, procacciando reddito, è diventato il temine più usato e onnipresente per indicare un’attività umana (soprattutto in tempi di “etica del lavoro”). L’attività improduttiva invece si chiamava “opera” (da opus: vedi ad esempio opera artistica), oppure “ozio” (da otium, termine che oggi diventa simbolo di lassismo e parassitismo) oppure ”svago” o ancora “gioco”.

 

Nel contesto del capitalismo attuale (questo è l’esito principale del cambio di paradigma dall’accumulazione fordista a quella cognitivo-relazionale finanziarizzata), tali distinzioni perdono di senso. Oggi non esiste più una netta divisione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, esiste semmai una classificazione tra lavori più immediatamente produttivi e lavori meno produttivi di plusvalore. Oggi, l’“opera”, l’“ozio”, lo “svago”, il “gioco” sono diventati tutti “lavoro” (labor), cioè attività che producono valore di scambio, vengono mercificati e entrano – a diverso titolo – nella filiera produttiva di pluslavoro. Poiché lavoro, ozio, svago, gioco sono la nostra vita, ciò significa che l’intera vita viene messa al lavoro quindi a valore.

 

Già a partire da tali considerazioni, a prescindere dal discutere se il lavoro è merce (bene) di scambio, il lavoro non può essere un “bene comune”. È come dire che lo “sfruttamento” è un bene comune.
Il fatto che il lavoro non può essere un bene comune è spiegabile anche dal fatto che il lavoro non è un “bene” (nel senso di merce), per lo meno nel senso economico del termine, come può esserlo un  kg di patate, un computer, un’automobile. E ciò, nonostante che il lavoro sia oggetto di scambio, come tutte le altre merci. Ma tale similitudine non deve trarre in inganno.

 

Riprendiamo il vecchio Marx. In primo luogo, ciò che sul mercato del lavoro i lavoratori vendono non è il lavoro tout court, ma la “forza lavoro”, ovvero quella quota del tempo di vita che ogni lavoratore/trice mette volontariamente a disposizione del padrone e del committente (al riguardo Marx ironicamente sottolineava che “il suo proprietario non è solo libero di venderla, ma si trova anche e soprattutto nell’obbligo di farlo”): in altre parole “disponibilità lavorativa”.

 

Ciò che invece le imprese acquistano (domandando lavoro, e non possono farne a meno se voglio produrre plusvalore) è la prestazione lavorativa, ovvero non solo il tempo di vita dei lavoratori, ma la loro capacità e competenza lavorativa, il cui esito diventa di proprietà del datore di lavoro. In altre parole, lo scambio sul mercato del lavoro è uno scambio anomalo e ineguale, dove ciò che si vende acquista un significato diverso quando viene comprato. Qui sta lo sfruttamento, qui sta l’alienazione.

 

Per il terzo Stato, lo scambio di lavoro si basava su un rapporto di corvée (coazione diretta al lavoro); per il Quarto Stato, il rapporto di lavoro, formalmente libero, nasconde un rapporto di sfruttamento monetario, comunque misurabile; oggi, per il Quinto Stato, la prestazione lavorativa è sottoposta a forme indirette di coazione e nasconde forme di sfruttamento della vita.

 

La condizione precaria, infatti, va oltre la semplice condizione lavorativa. Per questo qualsiasi politica del lavoro è politica sociale e viceversa. Tra lavoro e welfare c’è complementarietà e non antagonismo, così come tra reddito di base e battaglie per il salario (a questo proposito: condizione che venga introdotto un reddito di base è che contemporaneamente venga inserito un salario minimo orario a livello nazionale).

 

Trovo veramente stupido porre l’aut aut tra il diritto al reddito indiretto (servizi, casa, ecc.) e l’introduzione di un reddito di base. Il welfare adeguato alle nuovo paradigma di accumulazione che, mettendo a lavoro e a valore la vita, estrae profitto espropriando la riproduzione sociale e il general intellect, non può essere né un welfare esclusivamente pubblico (di stampo keynesiano, quindi solo reddito indiretto) né un workfare di tipo anglosassone (secondo il quale si ha accesso ai servizi – di proprietà anche dei privati – in funzione della contribuzione pagata o del costo del servizio: mercificazione/privatizzazione e finanziarizzazione del welfare). È piuttosto un welfare del comune (commonfare).

L’idea di commonfare, infatti, parte dal presupposto che la cooperazione sociale è la produzione del comune: qualsiasi politica di welfare che abbia a cuore la coesione sociale non può quindi che partire dal comune. I beni comuni nell’evoluzione del capitalismo hanno più volte modificato la propria struttura.

 

Ai beni comuni legati alla sopravvivenza terrena e al consumo primario (aria, acqua, cibo, vestiti, abitazione, socialità, ecc., ecc.), connaturati allo stesso agire umano, si sono aggiunti dei nuovi beni comuni, che oggi stano alla base non tanto della sopravvivenza e del consumo di base, ma piuttosto della produzione e dell’accumulazione.

 

Essi riguardano in primo luogo il territorio geografico e virtuale, e conseguentemente l’ambiente, quindi il linguaggio e la conoscenza.
Ipotizzare un welfare del comune significa oggi imbastire una politica:

 

• che tolga dalle gerarchie imposte dal libero scambio i beni primari e di pubblica utilità che negli ultimi 15 anni hanno subito estesi processi di privatizzazione in seguito all’adozione degli accordi europei di Cardiff sulla regolamentazione del mercato dei beni e dei servizi (accesso ai beni comuni materiali);

 

• che imponga forme di controllo e di monitoraggio sul mercato del credito, sui suoi costi e sulle possibilità di elargire forme di finanziamento anche a chi non ha contratti a tempo indeterminato con la garanzia e l’assicurazione degli apparati pubblici, sia a livello locale che sopranazionale (accesso alla moneta come bene comune);

 

• che proceda ad una regolamentazione dei diritti di proprietà intellettuale e della legislazione sempre più restrittiva dei brevetti a favore di una maggiore libertà di circolazione dei saperi e alla possibilità gratuita di dotarsi di infrastrutture informatiche, tramite adeguate politiche innovative e industriali (accesso ai beni comuni immateriali);

 

• che consenta una partecipazione finanziaria e consultiva agli organi di gestione, a partire dal livello locale, dei beni pubblici essenziali, quali acqua, energia, patrimonio abitativo, e sostenibilità ambientale tramite forme di municipalismo dal basso (principio democratico).

 

Commonfare, ovvero continuità di reddito per la riappropriazione del comune e libero accesso ai beni comuni. Due condizioni per poter scegliere e essere autonomi dalla dipendenza economica. Perché oggi le politiche sociali sono l’effettivo specchio della democrazia. E la nostra libertà si fonda sul diritto a una scelta libera e consapevole.

 

"Che cos'è il Quinto Stato? Tutto. Che cos'è stato finora nell'ordinamento politico? Nulla. Che cosa desidera? L’autodeterminazone e il diritto alla scelta del lavoro".

 

L’obiettivo del welfare del comune può così rappresentare la Bastiglia del nuovo millennio.

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