Quando la teoria critica non era solo un lamento / Edgar Morin. L’etica del Loisir

17 Maggio 2018

Torna finalmente in libreria Lo spirito del tempo di Edgar Morin, un classico della sociologia dei media che mancava in Italia dal 2005. Nella nota introduttiva, Andrea Rabbito, il curatore del volume, spiega che questa nuova edizione vuole colmare un vuoto editoriale e soprattutto intende restituire agli studiosi contemporanei un testo che preserva ancora inalterata la capacità di cogliere “lo spirito del tempo attuale” (p. 9). È proprio questo il punto di avvio preferenziale per comprendere l’opera di Morin, l’idea di uno “spirito del tempo”, vale a dire quella di un clima nuovo che fotografa l’uomo “a un certo stadio della tecnica, dell’industria, del capitalismo, della democrazia e dei consumi” (p. 235).

 

Un problema di fondo, quindi, che, come scrive Ruggero Eugeni nella bella introduzione al volume, è allo stesso tempo lo sfondo su cui si staglia la vita dell’Occidente, descritto da Morin portando alla luce i più significativi dettagli dell’impronta che la cultura di massa deposita sul mondo. Lo spirito del tempo studiato da Morin è “l’etica del loisir”, una delle intuizioni più felici dello studioso francese – rielaborata e attualizzata oggi, nel modo più diretto, dagli studi di Michel Maffesoli sulle tribù metropolitane e sull’estetica dionisiaca del postmoderno. Etica del loisir è l’imporsi di nuovi meccanismi di funzionamento nella società, che non prevedono la produzione come centro gravitazionale dell’esperienza: il lavoro non è più sufficiente a tratteggiare l’identità di una persona, acquisisce invece rilevanza il consumo che, con i suoi momenti ludici e ricreativi, diviene l’atmosfera culturale e il tratto essenziale della società occidentale del dopoguerra. Ma l’aspetto probabilmente più innovativo dell’analisi moriniana è il modo in cui descrive i meccanismi della cultura di massa: il passaggio dall’etica della produzione a quella del loisir è stato favorito dal proliferare dei media dell’immagine, che hanno disseminato nella dimensione ordinaria tutto ciò che prima aveva un valore festivo e stra-ordinario, individuando quindi uno strettissimo legame tra la diffusione delle comunicazioni mediali e le nuove forme del consumo. Usare il concetto di “spirito del tempo” significa affrontare il fenomeno della cultura di massa proponendo un’analisi in cui media e mondo sembrano coincidere: il rapporto tra il cinema – il suo immaginario e i suoi apparati di produzione – e la vita quotidiana si sviluppa lungo una frontiera porosa, in cui è sempre più complicato separare i due fronti, che hanno invece sviluppato una reciproca compenetrazione, definita da Eugeni come “una sfocatura diffusa dei confini tra il reale e l’immaginario” (p. 14). In questo senso Morin sembra cogliere in modo originale e tempestivo la portata di un cambiamento tecnologico, presentato allo stesso tempo come mutamento culturale e antropologico.

 

Una concezione profondamente mediologica, almeno nelle sue conseguenze teoriche, che è possibile leggere nitidamente in una delle più belle pagine del libro, in cui Morin, riferendosi alla cultura di massa, scrive: “è coinvolta nella storia in movimento, il suo ritmo è quello dell’attualità, il suo modo di partecipare è ludico-estetico, il suo modo di consumare è profano e il suo rapporto con il mondo è realistico” (p. 220). In queste parole, sembra venire meno un altrove, un autonomo spazio dell’immaginario, perché il loisir “non è soltanto la cornice dei valori privati, è anche un compimento in sé” (p.108). Lo spazio immaginario non si proietta più nel cielo, non si colloca più in una dimensione accessibile solamente attraverso la fruizione spettacolare, ma si è radicato nella vita terrena, pur non coincidendo completamente con essa, ma stabilendo un rapporto dialogico tra “qui e altrove” (p. 233). Esempio lampante di questo processo sono i divi, le star, che sono discese dal cielo alla terra, confondendosi progressivamente con l’uomo ordinario, senza scendere però l’ultimo gradino, in modo da preservare la propria, sbiadita, aureola mitica.

 

 

Attraverso la lucentezza delle vetrine, delle foto, degli schermi cinematografici e di quelli televisivi, ogni cosa appare come avvolta da una patina spettacolare che ne trasfigura il senso, accentuando la potenza della sua sensualità inorganica. L’esposizione della merce, la sua messinscena e la “vetrinizzazione” prodotta dai media di massa ne evidenziano l’alto valore comunicativo, imponendo all’uomo un’unica forma relazionale con ciò che lo circonda: il consumo. Pertanto, se vi è una potenza teoretica del concetto di “etica del loisir” è quella di indicare l’emergere del consumo come forma di sensibilità, come modo della conoscenza, alla luce di una connessione permanente, sia da un punto di vista concreto sia visuale, tra gli uomini e gli oggetti. Un tema caro alla tradizione francese di quegli anni e approfondito anche in Italia da studiosi come Alberto Abruzzese, Vanni Codeluppi e Mario Perniola. Quest’ultimo, in particolare, nel suo celebre saggio Il sex appeal dell’inorganico (1994) descriveva una tendenza centrale sul finire dello scorso secolo, ovvero “l’alleanza tra i sensi e le cose” con la quale si affermava una propensione al superamento della fase di orgasmomania, derivante da una concezione della sessualità come ascesa verso l’acme del piacere, e lo spirito del tempo lasciava emergere una dimensione sessuale neutra, tipica delle merci, sancendo, in questo modo, il passaggio da una sessualità – e sensibilità – umana a una post-umana, tipica della “cosa che sente”. Un fenomeno che Morin coglie già al suo stato nascente, analizzando la “cosificazione” prodotta dalla tecnica e, in particolare, dalla tecnica industriale del cinema (p. 225).

 

Il valore della riflessione moriniana, come sottolineava Abruzzese nell’edizione del 2005 di Lo spirito del tempo, è quello di proporre un approccio all’industria culturale come sistema e insieme di apparati, piuttosto che come estetiche degli autori e dei mezzi espressivi. Questo aspetto rende il libro estremamente moderno, perché costituisce un imprescindibile antecedente dei lavori più avanzati sulla produzione culturale nell’era digitale, come quelli di Henry Jenkins sulla cultura convergente (2006) e sulla spreadability (2013).

 

Lo spirito del tempo, come scriveva Abruzzese, ci ha aiutato a comprendere l’affinità invece che la distanza tra sentimento e analisi del mondo vissuto, ma questo non indebolisce la portata critica della riflessione moriniana, al contrario, la esalta, perché non riduce la critica a triste lamento del presente. Grazie a tale approccio, che induce l’osservatore a rivolgere lo sguardo a ciò che lo attrae e che lo spaventa allo stesso tempo, emerge tutta l’ambivalenza della cultura di massa, basata sull’ambivalenza degli schermi: essi da un lato separano l’uomo dal mondo, dall’altro consento di vedere anche cose che altrimenti sarebbero inaccessibili. “Così – scrive Morin – lo spettacolo moderno è contemporaneamente la più grande presenza e la più grande assenza. È insufficienza, passività, erranza tele-visionaria e nello stesso tempo partecipazione alla molteplicità del reale e dell’immaginario” (p. 109). In questo passaggio si comprende tutta la complessità dell’analisi formulata da Lo spirito del tempo, in cui la fruizione non è intesa come processo di trasmissione unidirezionale, al pari delle analisi sull’industria culturale sviluppate da Adorno e Horkheimer, ma prevede sempre una partecipazione. Morin scrive queste pagine in un periodo in cui la teoria critica riteneva che uno degli effetti più rilevanti prodotti dalla televisione fosse la trasformazione di un gruppo sociale intimo come la famiglia in un consesso spettacolare plasmato sul modello cinematografico, in cui si è tutti rivolti verso il televisore senza avere più la possibilità di guardarsi reciprocamente se non in maniera casuale, nonostante si condivida il medesimo spazio fisico. Morin riconosce questo impoverimento, ma aggiunge anche: “nelle partecipazioni tele-visionarie un po’ di linfa filtra attraverso la membrana del video, dello schermo, della fotografia, andando ad alimentare comunicazioni vissute. Nelle conversazioni in cui si parla di film, di star, di trasmissioni televisive, di vicende varie, avvengono autentici scambi affettivi” (p. 109).

 

Il sociologo francese riconosce quindi la possibilità di forme relazionali nuove rispetto a quelle preesistenti l’avvento dei media elettronici. La famiglia, rivolta verso un medesimo totem, stabilisce un legame ulteriore che non depotenzia il vincolo che esisteva in precedenza, è un’unione differente, basata sul piacere della fruizione, su una partecipazione condivisa e, come scriveranno nei decenni successivi i cultural studies, la televisione garantisce un sottofondo perpetuo di comunicazione parlata sul quale i membri della famiglia possono costruire i propri scambi interpersonali, usando la tv come risorsa ambientale. Morin con il suo metodo di analisi complesso, forgiato sulla complessità dell’Occidente e della società dei consumi, prova a frammentare gli schematismi ideologici precostituiti, insinuandosi nelle loro crepe e fornendo una interpretazione più articolata e libera della realtà, che gli ha consentito di comprendere in anticipo e con straordinaria lucidità processi culturali che molti altri faticano ancora a spiegare.

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