La stanza dell'analisi e la società psicotica / Il discorso interiore oggi

1 Giugno 2017

Dell’ultimo libro di Nicole Janigro, Psicoanalisi. Un’eredità al futuro (Mimesis 2017), colpisce innanzi tutto il titolo, che colloca la psicoanalisi tra due poli temporali: il passato, ciò che è arrivato a noi del pensiero e della pratica analitica, e il futuro, ciò che potrà rappresentare per una civiltà che dà segni allarmanti di crisi, sfiducia, insicurezza e disumanizzazione. In effetti, basta leggere le prime pagine per capire che il ponte mancante è un presente dominato da un “traumatismo diffuso” – la “società psicotica” –, da un “terrore senza nome”, da un “dolore estremo” che non sembra trovare altro significato che provocando la sofferenza estrema all’altro.

Viene da pensare che sia per questa resa a una condizione di impotenza che l’importanza della dimensione psichica è “confutata” e l’ indagine del profondo ritenuta una “materia strana, che suscita perplessità e sospetto”.

 

La patologia, scrive Nicole Janigro, si annida oggi nel corpo: un discorso pubblico che volendo essere solo razionale finisce per farsi sopraffare dalle emozioni, pericolose per le nazioni e le famiglie; manifestazioni somatiche che riconoscono i limiti di ogni vita, la fragilità, l’esposizione alla malattia, al lutto, così come alla perdita di uno status lavorativo, in particolare per le donne che scelgono di avere figli. L’analisi, che potrebbe essere di aiuto per capire una realtà complessa, più di quanto siano riuscite a fare le tradizionali categorie interpretative storico-economico-sociologiche, diventa un lusso, mentre si diffondono terapie brevi e ricorso ai farmaci. Pur avendo sempre fatto fatica a passare dall’io al noi, a riconoscere nel disagio psichico del singolo i segni della storia collettiva, la psicoanalisi non può esimersi dalla responsabilità di adattare i suoi cardini di tempo e di denaro per rispondere alla domanda che viene dai nuovi paesaggi – campi profughi, favelas, ecc. – esterni alla stanza dove si incontrano paziente e analista.

 

La necessità di andare oltre la “segregazione di un rapporto duale” si era già posta nella breve intensa stagione dei movimenti antiautoritari e del femminismo degli anni Settanta. Pur senza abbandonare la pratica clinica, Elvio Fachinelli si impegnò allora per una psicoanalisi “senza fissa dimora”, capace di interrogare la politica e di spingerla “alle radici dell’umano”. Per incontrare Edipo – scriveva – bisogna trovarsi sulla strada di Tebe, bisogna che l’analista costituisca in altri luoghi condizioni, possibilità, linguaggio dell’interrogazione analitica: cioè il problema di “che cosa è l’uomo”. Il riferimento era in particolare a quei luoghi della socializzazione dove avviene un apprendimento precoce delle regole vigenti in una società – gli asili, i nidi di infanzia, la scuola primaria –, ma anche a “quell’asilo collettivo e sterminato costituito dai cortili, dalle strade, dalle periferie. Allora, come oggi, alla psicoanalisi si chiedeva di dare risposte, tamponare conflitti, chiudere vuoti e fratture della società industriale avanzata, anziché fare chiarezza sulle resistenze e le difficoltà che l’introduzione di qualunque tentativo liberatorio riguardante la formazione degli individui suscitava negli educatori e nei genitori.

Oggi, saltati i confini tra privato e pubblico, tutto ciò che è stato considerato “non politico” si prende la sua rivincita– dal populismo, all’esplosione manifesta della violenza sessista, razzista, al “terrorismo senza nome” dei fondamentalismi religiosi.

 

Ma, a differenza degli anni Settanta, è venuta meno la speranza di una “rivoluzione” possibile. Se in quel passato il noi, la dimensione sociale e collettiva, era ancora preponderante rispetto all’io, tanto da poter pensare all’analisi come la continuazione della politica con altri mezzi, oggi è nella formazione dell’individuo e nella stanza dell’analisi che si può “captare la simultaneità del discorso interiore, il pensiero ficcato dentro, con il fuori”.

 

 

 

“In un’epoca che ansima perché non trova il tempo per la vita, che campa nell’orrore di ogni dipendenza (…) investire nella inafferrabilità di conversazioni speciali, così le chiamava Freud, assume di nuovo un significato controcorrente (…) Un setting che si affettivizza, mentre il mondo si disumanizza”.

 

Alla stanza dell’analisi, sospesa tra cielo e terra, dove Nicole Janigro dice di essere diventata grande, sono dedicate le pagine più appassionate e poetiche del libro: un luogo dove è possibile ritrovare un rapporto intimo, ininterrotto, con le parole, riportate a quel radicamento nel corpo e nell’azione che hanno nell’infanzia. Ma è anche il luogo dove la relazione tra analista e paziente, per quanto asimmetrica, o proprio perché tale, può tornare a essere, come lo è stato il legame originario di parziale co-identità con la madre, il dispositivo che “la natura ha trovato per la gestione del dolore”. Il riferimento è in questo caso a Elvio Fachinelli, all’analisi che troviamo nel libro Claustrofilia e poi nella Mente estatica, di quel rapporto di compenetrazione con una particolare figura materna, desiderato e temuto come “gioia massima” dallo stesso Freud, che se ne sottrae cercando come segno di compromesso la figura del doppio: l’alter, il gemello.


Per una “conversazione” portata alle estreme regioni della vita psichica, ai confini col sogno, non è previsto che il terapeuta resti “impersonale”. L’empatia, il voler bene ai propri pazienti è “la condizione perché in loro torni il gusto di vivere e le cose trovino il loro sapore”. A farsi portatrici di affetti, emozioni, fantasie, aspetti indicibili della vita, più ancora che le parole sono le immagini, o meglio ancora il “pensare per immagini”. È il metodo che Jung, nel Libro rosso, ha sperimentato prima di tutto su se stesso, curandosi durante la fase della sua “malattia creativa”: “reminiscenza del passato e prefigurazione del futuro, che non possono essere dette, riescono tuttavia a essere conosciute e pensate in una rappresentazione di senso non verbale”.

 

Particolarmente intensa è la descrizione che Nicole Janigro fa del potere trasformativo dell’immagine e di quel “sognare con le mani” che è il “gioco della sabbia” nelle pratiche di alcuni terapeuti junghiani:

“L’immagine ci chiede ascolto, ci permette di passare dall’emozione alla narrazione, di diventare noi raccoglitori di immagini che nutrono, trasformano, trascendono. Ci rapisce, ci può offrire un rifugio in una fase di difficoltà, le possiamo chiedere sostegno quando prevale un senso di frantumazione, può costituire una base sulla quale poterci appoggiare.”

 

Nel momento in cui l’analisi –nel caso di Nicole Janigro, di Romano Madera e dell’associazione a cui hanno dato vita, Philo – diventa “pratica di esistenza” e di umanizzazione, attenta a restituire all’individuo la sua interezza – corpo e pensiero, coscienza e inconscio, ragione e sentimenti, ecc. – è chiaro che i confini del setting analitico tradizionale si allargano fino a toccare linguaggi, saperi che non sono mai stati estranei. “La storia della psicanalisi è anche storia della scrittura dei suoi casi”, a cominciare da Freud, per il quale vocazione letteraria e vocazione medica hanno continuato a darsi battaglia.

 

“Leggere romanzi per trovare risposte, per seguire i destini, per sapere come va a finire, per inseguire gli andirivieni temporali di un’esistenza (…) Ancora oggi la scrittura psicoanalitica si nutre dell’incontro con la letteratura.”

 

Sul rapporto tra psicoanalisi, arte, letteratura, è la riflessione di Elvio Fachinelli, citata da Nicole Janigro, che torna a sottolineare i limiti di un allargamento che rischia di sottrarre incisività al rapporto analitico: “Non più (o non soltanto…) disseminazione dell’analisi negli sconfinati territori della letteratura, dell’arte, della varia ‘umanità’; ma piuttosto curiosità, scrutinio retorico, interesse scientifico verso un modo di conversazione conoscitiva che è probabilmente la più significativa innovazione introdotta nel discorso occidentale dopo la ‘nobile sofistica’ di Protagora e Socrate.”

 

Pur guardando all’eredità del passato e al ruolo che la psicoanalisi potrebbe avere nel futuro, è tuttavia ancora al presente che si rivolge il libro, alla “vulnerabilità dell’uomo contemporaneo”, esposto più che in passato alla relazione, incalzato dalla fatica di vivere, dalla “dannazione” di un corpo sempre più sezionato in parti, inadeguato alla produttività richiesta. All’analisi, sembra di poter concludere, spetta il compito di una umanizzazione che è “accoglimento” capacità di “immedesimazione in cui noi, feriti, diventeremmo madri di creature ferite” (Fachinelli).

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