Una possiblità / Che cos'è la noia?

27 Giugno 2017

Durante la sua famosa passeggiata sulle Dolomiti in compagnia di Freud, che avrebbe ispirato a quest’ultimo, guarda caso, il testo “Caducità” (1915), Rilke, pur ammirando la bellezza della natura, non riesce a trarne gioia tanto è turbato dal pensiero che tutta quella bellezza sia destinata a perire, la transitorietà delle cose genera in lui un doloroso sentimento di “tedio universale”. Questo noi lo sapremo dallo stesso Freud la cui risposta al giovane poeta è che la caducità delle cose non ne sminuisce il valore, al contrario, lo accentua. Una posizione consolatoria solo a uno sguardo superficiale e che in realtà ribadisce in termini meno crudi quanto egli aveva già affermato pochi anni prima nel saggio Considerazioni attuali sulla guerra e la morte: la vita va vissuta e può essere vissuta solo accettando ciò che non è eliminabile, ossia la morte. Si vis vitam, para mortem. Freud si accorge tuttavia che la sua affermazione non produce alcuna impressione su Rilke. Conclude quindi che lo svilimento del bello, “l’interferenza perturbatrice del pensiero della caducità” (Freud 1915), debbano essere dovuti ad una ribellione al lutto, ad una impossibilità a rendere disponibile la libido a nuovi investimenti. Il rifiuto di riconoscere che “le delizie della nostra sensibilità e del mondo esterno debbano finire nel nulla” (ibid.) sarebbe legato a “una esigenza di eternità che è troppo chiaramente un risultato del nostro desiderio per poter pretendere un valore di realtà” (ibid.).

 

“Il bello non è che il tremendo al suo inizio” (Prima Elegia, in Elegie Duinesi). Questo è il tema delle Elegie. Il tremendo, lo spaventoso irrompe e spezza l’armonia e la continuità che ci sono familiari. La poesia di Rilke si colloca storicamente in quella posizione di precarietà estrema, frutto del cambiamento dei tempi, per la quale l’illusione del dominio sulla vita e dell’eternità è svelata e non più praticabile. Detto altrimenti, il tremendo traumatico irrompe sulla scena e la modifica definitivamente. D’altro canto questa evidenza è insopportabile e dunque non può essere veramente fatta propria. L’esito è quello di sostare sul confine tra “ascesi” e “caduta”, esiliati da una qualsivoglia garanzia. L’impossibilità rilkiana di rinunciare all’esercizio di “illusione di eternità” (Freud, Introduzione al Narcisismo, 1914) non è che l’altra faccia di una acuta consapevolezza di irreparabile perdita. Egli si muove su un confine – “il bello non è che il tremendo al suo inizio”- tra l’illusione di ripristinare ciò che è perduto e l’orrore della perdita.   

 

Ho pensato questo dopo avere letto Noia (di O. Fenichel, S. Benvenuto, B. Moroncini, G. Pizza). Un libro che ha, tra gli altri, il merito di tematizzare da più prospettive un tema caro alla filosofia e alla letteratura, trascurato dalla psicoanalisi, e che, come un fiume carsico, appare e scompare nel corso dei secoli. Dopo l’akedia tardo-medievale, e prima ancora con gli stoici Seneca e Marco Aurelio, il quale assimila la noia alla scontentezza di sé, la noia diventa un tema letterario cospicuo nel Romanticismo, per diventare condizione ontologica in filosofia, fondamento che determina l’essenza e il destino dell’uomo, intorno agli anni ‘30 del ‘900. Quello di Otto Fenichel (1934), che apre il libro, è un testo ormai storico se non altro perché è tra i pochi a tematizzare la noia in ambito psicoanalitico. Fenichel la descrive come una spiacevole condizione psichica di mancanza di spinta verso le cose del mondo. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare la noia non è apatia, abbandono, bensì insopportabile tensione psichica (ingorgo libidico, lo chiamano gli analisti) accompagnata dalla bramosia di trovare una via d’uscita, un oggetto del mondo che serva a scaricare la tensione accumulata. Eppure la frenesia dell’annoiato resiste agli stimoli che il mondo propone, egli si astiene, gli oggetti apparentemente non lo tentano. La noia è dunque un’istanza pulsionale amputata di meta, proprio di ciò che permette la scarica dell’eccitazione, una “pulsione mostruosa” (Benvenuto). La meta pulsionale è rimossa, la tensione pulsionale no. Lo stato di “frenesia” che spesso accompagna la noia resiste agli stimoli esterni proposti all’annoiato, poiché non soddisfano neanche lontanamente la meta, ossia l’oggetto pulsionale rimosso.

 

Dal testo di Fenichel, rigoroso e godibile, traspare una pratica non addomesticata che vede la pulsione e la sessualità come imprescindibili. Esso ha un altro merito, quello di mettere al centro della problematica della noia l’oggetto, rimosso e interno (anche se Fenichel non lo chiama così ma sembra implicito, dato che egli ne prevede uno esterno). Egli tocca così, e probabilmente a propria insaputa, lo spinoso problema del confine, sottile e forse fittizio, tra dentro e fuori, tra mondo esterno e “mondo interiore”. Dilemma da cui la fenomenologia in quegli anni ci liberava (si veda Sartre, Husserl e l’intenzionalità, 1939) lasciando un’impronta fondamentale sul giovane Lacan e sulla sua rilettura di Freud. 

 

 

Anche per Sergio Benvenuto nella noia, la “nebbia silenziosa” heideggeriana, si fa esperienza diretta della pulsione allo stato puro, proprio perché deprivata di oggetto. L’annoiato fronteggia una “pulsione mostruosa” che ingaggia il soggetto con “il rumore e il furore delle pulsioni”, per dirla con un enunciato un po’ faulkneriano di Lacan (Lacan, IV Seminario, 1956-67. La relazione d’oggetto). La noia è “spinta libidica allo stato puro”, puro desiderio beante nel quale il soggetto è schiacciato dall’ente in tutto il suo spessore anziché aprirsi ad esso. Se Heidegger pensa la noia come sentimento fondamentale della nostra epoca è perché essa che non ci implica più, l’ente non riesce a farsi abbracciare dalla spinta pulsionale rifiutandosi al soggetto. L’ente che nella noia diventa protagonista è, invece, il tempo, tempo che non passa mai, svuotato di godimento e divenuto indigesto, scheletro intollerabile della vita. La noia (in omaggio al suo etimo) è odio del tempo percepito in quanto tale. Ma al dunque per Benvenuto la noia non è che profonda delusione del soggetto che aspettava “la grande festa”, il proprio trionfo nella vita che, invece, non arriva. Nei sogni dell’annoiato affiora il rovescio della medaglia, ossia il proprio godimento, che nella vita diurna l’annoiato lascia sdegnosamente all’Altro.

 

Poiché la noia con il suo fondo di megalomania, è “un rifiuto dell’ente (come soggetto e come oggetto, sottolineerei) nella sua totalità”, essa svela “la magnificenza del soggetto” che è sotto scacco semplicemente perché non trova nulla al mondo che sia degno di sé. Uno sdegnoso “preferirei di no”. Con un occhio al monito freudiano che raccomanda l’uscita da se stessi per “non ammalarsi”, il donchisciottesco rifiuto di fare il lutto dell’illusione di raggiungere la terra promessa e vedere tutti i desideri (o il grande desiderio?) soddisfatti, ci appare tragico e commovente. Esso tocca una corda umana fondamentale, direi ontologica, che decide il destino del soggetto, sia che si risolva ad attraversare la perdita angosciosa di ogni bussola e padronanza – proprio l’Hilflosigkeit, la derelizione freudiana – per accedere agli oggetti (certo ridimensionati) e dunque ai piaceri del mondo, sia che, come l’annoiato, sia ad essa irriducibile. Diremmo per non privarsi del godimento di continuare ad aspettare “la grande festa”. 

 

Con i Concetti fondamentali della metafisica. Mondo-finitezza-solitudine (1929-30), la noia per Heidegger assurge a stato d’animo fondamentale (Grundstimmung) “della situazione spirituale del suo tempo” sostituendosi all’angoscia: da qui parte la riflessione di Bruno Moroncini. La noia è in grado di “svegliare l’esserci richiamandolo all’autenticità, all’essere se stesso e alla responsabilità, sottraendolo al commercio quotidiano con il mondo pur essendone formatore”. Per dirla con Jean-Luc Nancy, l’esserci deve essere-al-mondo ma non deve essere mondano. “Andate nel mondo senza essere del mondo”, dice Gesù agli apostoli poco prima di salutarli per ascendere al regno del Padre. È dalla condizione di declino e di decadenza che caratterizza il passaggio tra l’800 e il ‘900 che l’esserci deve essere svegliato, come suggeriscono i pensatori che raccolgono l’eredità di Nietzsche (Spengler, Klages, Spengler, Ziegler). Ma è la noia profonda che interessa Heidegger: in essa “ci si annoia”, un esso (Es) si annoia, c’è dell’uno che si annoia, in cui viene eliminato ogni residuo coscienzialistico e personalistico (direi anche psicologistico), l’Io scompare e resta un indifferente Nessuno. Non scompare invece l’ente, anzi, “si mostra in quanto tale nella sua indifferenza”. Questa è la peculiarità della noia: se nell’angoscia il mondo (l’ente) viene annullato nell’anticipazione precorritrice della morte, nella noia esso emerge nella sua totale indifferenza. Per questo la noia, sottraendo all’esserci persino il tempo, è in grado di riportare “il discorso a livello di un’autentica possibilità ontologica”.

 

Sradicato l’Io, la noia permette di pensare alla storia dell’esserci nella sua autenticità, ripulito dai residui soggettivistici. È impossibile qui non correre con il pensiero all’allora giovane Lacan che sta intraprendendo, nel suo ritorno a Freud, la costruzione di un soggetto quanto più possibile de-personalizzato, de-psicologizzato, logico. Solo la noia è in grado di destare l’esserci dall’assopimento, non certo la psicoanalisi che, trasformata da Heidegger in filosofia della cultura, assolve e giustifica la condizione umana. Prospettiva verso la quale Moroncini è critico, collocandosi su posizioni del tutto freudiane e lacaniane quando afferma che la psicoanalisi non è né una filosofia né una visione del mondo (basta pensare a Lacan quando enuncia che “non c’è metalinguaggio”) ma una scienza moderna (su questo si potrebbe molto parlare…) della psiche che prevede l’assunzione di una posizione etica nei confronti del desiderio/godimento del soggetto. 

 

Sia la noia heideggeriana che l’angoscia lacanianamente intesa sono ciò che non inganna (che tocca il reale, diremmo) mettendo il soggetto di fronte a un troppo pieno, a una mancanza della mancanza per quanto riguarda l’angoscia, alla vita fittizia e assopita che tutti viviamo per quanto riguarda la noia. Il passo che Heidegger non fa, secondo Moroncini, è quello di vedere nell’"uno si annoia” una delle possibili vicissitudini della pulsione. 

Se Heidegger non ha colto il rapporto peculiare della noia con il tempo, Benjamin ne fa un elemento cardine. Da un lato troviamo un tempo ripetitivo, circolare che “come l’oppio o l’assenzio, lenisce il dolore e la delusione” di uno scacco insopportabile (Passagen Werk, 1982). Benjamin, in effetti, individua nella sconfitta bruciante della Comune di Parigi il germe storico della noia. Da un altro lato troviamo un tempo come cesura (Tesi sul concetto di storia, 1950 postumo) che riesce a attualizzare il passato rendendolo leggibile. Un tempo che si arresta per non tornare e inaugurare così una nuova serie temporale rompendo la ripetizione. Una prospettiva del tutto psicoanalitica, se pensiamo alla potenza ricostruttiva e trasformativa dell’après coup e alle due opzioni temporali di tyche e di automaton.

 

Per Giovanni Pizza, l’antropologia della noia diventa antropologia politica. Può il fenomeno circoscritto del tarantismo, trattato da Ernesto De Martino in La terra del rimorso (1962), “diventare strumento di critica antropologica della modernità e del contemporaneo?” Sembra di sì, visto che l’operazione è già stata inaugurata dallo stesso De Martino quando, in La fine del mondo (1977, postumo) recupera la monografia sul tarantismo nella prospettiva di un’analisi della crisi della modernità e del rapporto tra apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche. Probabilmente, anche “in ragione della sconfitta del movimento operaio e contadino come declino di una prospettiva di cambiamento e trasformazione” che aveva animato gli anni ‘50. Un altro scacco bruciante. Oltre il riduttivismo medico-psichiatrico e, aggiungerei filosofico, l’analisi della noia corporea (diremmo incarnata) si propone come tentativo di comprendere una “perdurante crisi della modernità” e delle sue istituzioni.

 

E allora “il tempo corpulento” di cui scrive Gramsci dal carcere non è solo la tentazione del demone meridiano coniugato a un apparato di distruzione della persona, ma strumento di resistenza (corporea) contro un nemico politico. 

Tornando al tedio di Rilke, mi sembra che esso, come paradigma possibile della condizione dell’annoiato, colga un comune denominatore che, nella loro diversità, accomuna i testi di questo libro, e cioè l’avere collocato la noia su una soglia aperta a una doppia possibilità. Che sia l’inaccessibilità (o meglio, il rifiuto) dell’oggetto che mette a nudo la brutalità della pulsione, l’indifferenza dell’ente e la sconfitta storica che diventa ineluttabilità cosmica, o la crisi di una presenza e di un’epoca, da un lato abbiamo il perpetuarsi di una condizione di “tedio universale” che cede alla gabbia (pur vedendola molto bene) dell’insistenza di ripetizione, al sostare sotto il “panno caldo.” Da un altro lato si profila la possibilità di compiere un salto vertiginoso e senza garanzie (come senza garanzie è sempre il lavoro di Eros) del tutto all’insegna della “caducità”, che spezzi la ripetizione e che ci consegni al fuori, a un oggetto, un ente, un’epoca, umani e imperfetti, ed esattamente per questo praticabili.   

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