La mutazione epocale della nostra soggettività / La persona è online

17 Maggio 2017

Ogni volta mi chiedo: ma cosa fanno? Stanno rispondendo a un messaggio, a una richiesta di incontro, stanno controllando l’email, le previsioni del tempo, prenotano il cinema, guardano foto, caricano un video, stanno dando la caccia a un Pokemon, stanno lavorando… Lo schermo è sempre tra noi, perfetti sconosciuti che comunicano con i loro dispositivi, a loro affidano gusti e interessi, vizi e virtù. Abituati a essere sempre connessi alla rete delle reti, sviluppiamo e troviamo nuove forme di adattamento, modalità originali di muoverci nel mondo reale e in quello virtuale. Mentre la cronaca propone ogni giorno episodi che interrogano, chiedono di riformulare, anche giuridicamente, il confine tra pubblico e privato, pongono quesiti etici legati alle potenzialità esponenziali del mezzo. 

 

Quali sono gli effetti sul comportamento umano di questa nuova galassia? La nuova edizione italiana (a cura di Paolo Ferri e Stefano Moriggi) di La psicologia di Internet (Raffaello Cortina Editore, 2017) cerca di fare il punto sulla mutazione epocale della nostra soggettività. L’autrice, Patricia Wallace, che si occupa di psicologia delle relazioni e dell’apprendimento e ha insegnato alla Graduate School del Maryland University College, considera la convivenza con questa “protesi” un’estensione, un accrescimento del Sé di quella che definisce persona online. E, pur conoscendo in modo approfondito gli usi “eccessivi” e perversi che la rete rende accessibili a tutti, dichiara fin da subito le sue conclusioni: i vantaggi sono superiori alle criticità, e per le correzioni meglio aspettare e invocare un po’ di … vecchio buon senso. 

Il pregio del suo testo, quasi 500 pagine dal taglio un po’ manualistico, 

è l’immensa raccolta di esperimenti che mettono a confronto il comportamento, in situazioni della vita reale, spesso con la tecnica della simulazione, con quanto avviene quando la persona è online. Come cambia l’esperienza navigare nel cyberspazio, poter proiettare la nostra personalità, modellarla e moltiplicarla? 

 

Patricia Wallace enumera ricerche che riguardano l’affettività e la sessualità, la dinamica di gruppo e quella del gioco, lo sviluppo infantile e adolescenziale, le attività lavorative e di socializzazione, la possibilità di acquisire informazioni in un database infinito. Il risultato è una sociologia descrittiva, un po’ impressionistica, secondo un mainstream ormai anche accademico, la cui linea guida, la separazione tra Vita reale e tutto ciò che avviene online, rischia di fornire risposte teoricamente troppo semplificate. O meglio, che possono apparire tali a un lettore europeo, avvezzo ad altri mondi culturali. A fare la differenza non è solo la diversa diffusione di internet nei differenti contesti – qui l’uso privato delle tecnologie è vicino a quello degli Stati Uniti (le usa l’87% degli adulti con una distribuzione uguale tra i due generi), ai paesi del Nord Europa, Germania, Gran Bretagna, Corea, Giappone, e ora la Cina, ma nell’ambiente professionale e istituzionale italiano la diffusione è inferiore agli standard internazionali. 

Difficile, mi pare, mettere a confronto pattern comportamentali che saltano dalla Corea alla Finlandia, dalla Svezia al Giappone, dall’Egitto alla Slovenia. Perché, solo per fare un esempio, le forme della socializzazione sono talmente diverse da rappresentare già una precondizione da studiare. 

 

Illustrazione di Marco Melgrati.


Alcuni temi ricorrono e alcune delle questioni analizzate sono decisamente significative. Seppure le loro implicazioni teoriche siano più postulate che affrontate. A partire dalla rivoluzione del linguaggio che internet ha provocato. L’accumulo di abbreviazioni, sigle, contrazioni, acronimi, l’uso di hashtag per facilitare la ricerca con parole chiave: tutto si svolge in inglese. Ma dato che l’inglese usa comunemente la scrittura fonetica questo influenza, e come, le altre lingue? 

 

Rilevanti, si sa, sono i cambiamenti che il mezzo provoca nello scambio interpersonale. Conversare via skype o chattare via WhatsApp, dunque senza impressioni olfattive, senza o ridotto “contatto visivo”, riduce i messaggi corporei, induce la necessità di una maggiore verbalizzazione. Paradossale: le parole si contraggono mentre aumentano. Da questo punto di vista il colloquio psicologico potrebbe fornire materiale stimolante sul rapporto tra dimensione verbale e non verbale. Sono infatti sempre più numerosi i terapeuti che conducono sedute online, con compagni d’analisi che conoscono da tempo, ma anche con persone mai incontrate prima – per esempio un italiano all’estero.

 

Nello scambio scritto accade qualcosa di simile, si avverte il bisogno di compensare la mancanza della voce, dunque l’assenza di tono e di ritmo, con un accompagnamento di emoticon per essere certi di aver trasmesso l’umore o l’ironia. Quando si passa alle sfumature però il malinteso è in agguato, a quel punto bisogna parlarsi di nuovo a viva voce.

Un altro tema dalle implicazioni importanti è quello del tempo, che la rete rende asincrono. Una particolarità non da poco: da un lato ci sono 3,6 miliardi di persone al mondo in connessione, dall’altro il mezzo permette a ognuno di avere un proprio tempo. Fatti ed eventi non coincidono, a un messaggio ricevuto in questo istante posso rispondere subito o tra una settimana. E a questo proposito, ma più in generale per quanto riguarda il rapporto tra reale e virtuale, verrebbe da rovesciare l’assunto: è internet che cambia il nostro vissuto del tempo, oppure è internet che riflette il cambiamento di un tempo dove ogni singolo – pensiamo solo a quanto conti per una coppia trovare un proprio ritmo – vive un suo tempo. Certo, siamo multitasking, internet permette di ordinare la spesa, avere un incontro sessuale, partecipare a un’attività sociale, chiedere un consiglio medico, ma… quando io ho tempo.

 

Dunque, appare ormai superata l’annosa questione se internet isoli o amplifichi le possibilità di relazione, in un momento storico in cui la relazione avviene spesso online. E ci fa scoprire ribaltamenti di Freddo e Caldo; a volte, chi parla poco scrive molto, chi è secco nella comunicazione diventa enfatico nel testo email. L’analisi dei dati di migliaia di profili dei siti di dating conferma che, quando costruiamo il nostro profilo, scegliamo di far vedere il meglio. L’aspetto fisico risulta la caratteristica più importante, a cui segue una lista di “mi piace” dove si procede per similitudini di gusti e valori: si è convinti che la familiarità fa nascere l’amore. La self-disclosure via internet (negli Stati Uniti uno su dieci, il 38% tra i single, usa il mezzo per trovare l’anima gemella) fa sentire però clienti più che utenti, produce una “mentalità da shopping”. La collezione dei dati, che sullo schermo si incastra in modo ideale, si scombina per l’imprevedibilità dell’incontro in carne e ossa.

 

La ricerca di una dimensione familiare si riscontra anche nelle azioni di solidarietà (fundraising e crowdfunding), nei gruppi di sostegno a tema (dalla tossicodipendenza, al disturbo alimentare, alla scelta sessuale). In un mondo impersonale chiediamo alla rete comprensione e sostegno.

L’anonimato, la distanza fisica, l’amplificazione del messaggio, le diverse opzioni informatiche sono un dato che può produrre empatia allargata, ma anche una “disinibizione tossica” che aumenta l’aggressività e riduce il senso di responsabilità. Il collettivo online polarizza, accresce il conformismo e l’estremismo, le stereotipie, e le “scorciatoie cognitive”. Difficile trovare mediazioni. 

Insomma, dalle dipendenze alle modificazioni cerebrali, all’influenza sui bambini e sull’apprendimento, numerosi sono ancora i campi di ricerca. Disconnetterci è ormai impossibile: internet è già diventata la nostra memoria, il modo della nostra permanenza e del nostro oblio.

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