Prigionieri nella rete?

3 Aprile 2015

L'ampia letteratura sul tema del rapporto tra libertà e controllo in Rete si è recentemente arricchita di un nuovo interessante capitolo, mi riferisco al saggio che Giovanni Ziccardi ha pubblicato per Raffaello Cortina. Va subito detto che non siamo di fronte ad alcuna novità sostanziale, nulla dunque viene aggiunto alla narrazione dei fatti che hanno condotto all'affermarsi dell'attuale sistema onnipervasivo di controllo, così come non viene proposta alcuna nuova mappatura del potere e del contropotere in Rete. L'elemento che rende prezioso il saggio di Ziccardi va dunque cercato altrove; si tratta – a mio avviso – della capacità di inserire quei fatti e quelle mappe in un quadro di riferimento giuridico. Proprio l'attenzione alle categorie giuridiche rende l'opera dello studioso italiano un utile approfondimento di altre letture come, ad esempio, del bestseller internazionale nel quale Glenn Greenwald racconta le vicende che hanno trasformato l'informatico statunitense Edward Snowden nel più famoso whistleblower al mondo. Ne rappresenta un completamento ideale, riesce infatti a sistematizzare in un sistema organico le questioni sollevate dalle denunce di Snowden e aiuta a porsi le giuste domande. O meglio, alcune delle giuste domande, perché il saggio di Ziccardi si iscrive in una tradizione di pensiero tipicamente liberale, tende dunque a dare maggiore enfasi alle minacce per valori quali la privacy (il cosiddetto “diritto ad essere lasciati da soli”), la riservatezza, la proprietà dei dati personali ecc. Minore considerazione ricevono invece altri rischi, quali quelli che incombono sulla neutralità di Internet, sulla parità delle condizioni di accesso (e, più in generale, sulla lotta agli squilibri nella distribuzione del potere prodotti dalla tecnologia); oppure altri importanti temi come la salvaguardia del carattere libertario ed anarchico della Rete, la mercificazione di soggettività e di esperienze personali che vengono ridotte a oggetto, a dato informatico; o ancora il diritto di piccole minoranze antagoniste a esprimere il proprio dissenso in Rete e di auto-organizzarsi sfruttando le potenzialità delle nuove tecnologie globali di comunicazione.

 

L'ipotesi di partenza di Ziccardi è che l'attuale “società dell'informazione” sia connotata da quattro elementi fondamentali: sorveglianza, controllo, segreto e trasparenza. Si tratta di un'ipotesi funzionale all'articolazione del discorso attraverso i capitoli del saggio, più che di una posizione sostenuta da puntuali argomentazioni. Tali elementi condizionano in misura sempre maggiore la vita quotidiana e si estendono oltre il corpo fisico, fino a interessare quello che Rodotà definisce “corpo elettronico” ossia “l'insieme delle nostre informazioni personali custodite in infinite banche dati” (Rodotà, 2005).

 

Al di là dell'opportunità di legare la società contemporanea ai soli quattro elementi evidenziati da Ziccardi, trovo molto convincente la sua impostazione perché sono persuaso che la vicenda di Snowden, che nel giugno 2013 ha rivelato i programmi di sorveglianza di massa dei governi statunitense e britannico, rappresenta un autentico punto di non ritorno nei rapporti collettivi e individuali con le tecnologie di comunicazione contemporanee. Oggi che la maschera è caduta, è divenuto impossibile ignorare che occhi e orecchie registrano ogni nostra comunicazione, ogni movimento, ogni transazione economica, al punto che è diventato difficile abitare la Rete senza interrogarsi continuamente sul destino dei propri dati personali (appunto ciò che Rodotà definisce corpo elettronico), sulla sicurezza di conversazioni e di scambi di informazioni, sulla legittimità di alcune barriere alla circolazione della cultura e così via. A mio avviso, siamo di fronte ad un autentico mutamento antropologico le cui conseguenze di lungo periodo non si possono prevedere. È invece già possibile cogliere alcuni effetti immediati delle guerre per il controllo delle informazioni, in particolare con riferimento ai governi e alle diplomazie, alle aziende di Internet, ai gruppi e ai movimenti dal basso che si mobilitano a difesa della libertà in Rete. In tal senso Ziccardi, riprendendo alcuni articoli dello studioso statunitense Yochai Benkler, evidenzia la perversa “partnership extra legale tra pubblico e privato”, ossia la possibilità per alcuni governi (in particolare quello statunitense) di superare limiti e garanzie imposte dalla legge, utilizzando come “braccio armato” alcune aziende informatiche che, proprio perché private, non sono soggette a quegli stessi limiti costituzionali stabiliti, in gran parte dei paesi democratici, proprio allo scopo di tutelare il cittadino dallo stato. La vicenda di WikiLeaks è emblematica da tale punto di vista, infatti – come ricorda Benkler – quando nel dicembre del 2010 l'ascesa della popolarità di Assange sembrava inarrestabile, le aziende informatiche hanno rappresentato per il governo statunitense una concreta possibilità di aggirare quelle leggi che, ancora oggi, impediscono di bloccare il funzionamento di un sito web. L'ampio margine discrezionale nell'interpretare i termini dei contratti sottoscritti con i propri clienti, offre invece ad alcune grandi aziende tecnologiche come Google, Facebook, Amazon ecc. il diritto di vita e di morte sui flussi di dati che attraversano i propri server. Si tratta di un tema centrale per interpretare la contemporaneità, proprio per questo ho dedicato buona parte del mio InfoWar alla denuncia dell'ambiguità di tali aziende, considerate, da un lato, paladine della libertà durante la cosiddetta Primavera araba e, dall'altro, eccessivamente prone ai voleri dei governi in alcuni paesi autoritari o anche negli Stati Uniti.

 

A conferma di un simile atteggiamento ondivago, solo pochi giorni fa, in occasione di un incontro con il pubblico a Barcellona (Mobile World Congress), il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg ha proposto una formula che trovo insuperabile nel fotografare l'opportunismo delle principali aziende tecnologiche: in alcuni casi – egli afferma – è necessario scendere a patti con i governi (censurando dunque alcune voci) per dare voce a tutti gli altri. Ed è del tutto superfluo chiedersi quali sono i riferimenti etici in base ai quali le scelte sono operate: l'unico criterio è rappresentato dall'opportunità del momento.

 

Un altro punto dell'analisi di Ziccardi che trovo particolarmente interessante è costituito dal fatto che lo studioso italiano non dimentica mai che oltre alla tecnica e al legislatore, bisogna sempre fare i conti con la predisposizione degli esseri umani ad assumere alcuni atteggiamenti, piuttosto che altri. In sostanza, oltre agli auspicati progressi di una tecnica più attenta alla salvaguardia della sfera privata di individui e gruppi, oltre ai necessari sforzi del legislatore finalizzati a offrire un quadro di riferimento giuridico stabile e (soprattutto) adeguato all'attuale panorama sociale, politico e tecnologico, è indispensabile un mutamento di atteggiamento da parte dei cittadini della Rete. Nessun reale mutamento del preoccupante quadro contemporaneo potrà dunque avvenire in mancanza della diffusione generalizzata della consapevolezza dei rischi intrinseci in tecnologie che, essendo pensate per “tracciare, e non per dimenticare”, raccolgono e conservano in automatico ogni informazione alla quale hanno la possibilità di accedere. Il problema, sottolinea Ziccardi, è la “cultura diffusa” in forza della quale l'anonimato non è percepito come un valore da difendere (aggiungo io, a meno di non essere oppresso da uno stato autoritario), ne consegue che la tendenza di gran lunga prevalente tra gli utilizzatori di Internet è quella per cui si rivelano e si condividono innumerevoli informazioni personali.

 

L'analisi di Ziccardi è pienamente condivisibile, oltre che confermata dall'ingente letteratura sviluppatasi negli ultimi anni sul tema, ma – a ben vedere – la posta in gioco va ben al di là della difesa delle proprie informazioni personali: infatti, come denuncia Greenwald, “la sorveglianza di massa spegne la fiammella del dissenso nella mente umana” e “l'individuo addestra se stesso a pensare solo in conformità a ciò che gli è richiesto o che ci si aspetta da lui”.

 

Ritengo inoltre che, soprattutto se si accetta la prospettiva del mutamento antropologico, non si può escludere che in un futuro prossimo si assista a una fortissima svalutazione di costruzioni culturali moderne quali la privacy. Non è possibile, ad esempio, escludere la possibilità di un “adeguamento cognitivo” in forza del quale potremmo imparare a ignorare che il “ricordo digitale” non scompare mai e dunque a non esserne più condizionati nelle nostre valutazioni e decisioni (questa tesi è stata sostenuta in particolare da Viktor Mayer-Schönberger, Julian Togelius e danah boyd). Non è nemmeno possibile escludere a priori che le nuove generazioni, invece di preoccuparsi di valori tipicamente liberisti quali la privacy, la libertà ecc., siano più interessati ad affrontare i problemi posti dall’incessante moltiplicazione, dalla dispersione e dall’isolamento sociale indotti dai moderni strumenti tecnologici. È forse un male immaginare di cedere porzioni della propria sfera privata a vantaggio di una minore dispersione sociale?

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