Terrorismo e videogiochi

21 Novembre 2015

Anche nell'attacco a Parigi, i videogiochi. La tipica inquietudine che genitori, educatori e frettolosi commentatori provano nei confronti dei videogiochi, da quando questi ultimi sono nati, oggi prende proporzioni abnormi. Questo perché si è saputo che i reclutatori di Daesh attirano e addestrano terroristi con giochi come Call of Duty e l'organizzazione comunica anche attraverso le chat delle Playstation, efficienti e difficili da intercettare. L'ansia per l'adolescente di famiglia, la sua possibile dipendenza dal joystick e il possibile scambio fra vita virtuale e vita reale, si amplifica a dismisura, diventa una questione politica e militare di livello planetario. È la Realtà tutta, che oramai teme il proprio Game Over.

 

Nell'intervista che un invero riluttante Daniel Pennac ha concesso per Repubblica a Fabio Gambaro (19/11/2015) riecheggiano le argomentazioni contro i videogiochi che normalmente, e da decenni ormai, seguono certi violenti casi di cronaca. Parlando dei terroristi, Pennac dice: «Nelle loro azioni omicide c’è la ricerca di sensazioni estreme ai limiti dell’estasi, come nello stordimento prodotto dalla droga. A ciò si deve aggiungere la fascinazione per le armi e l’universo iperviolento dei videogiochi. Così, il passaggio dalla dimensione ludica a quella tragica della realtà viene probabilmente vissuto come il semplice passaggio a un livello più avanzato del gioco. Il mondo reale come prosecuzione dell’universo virtuale». La letteratura scientifica ha invero sempre escluso una correlazione tanto diretta fra passione per i videogiochi e violenza, ma è un pensiero facile da pensare, un modo per spostare la soglia del nonsense un poco più in là: dalla violenza alla dimensione ludica, e dunque irreale, che l'avrebbe covata. Christian Salmon aggiunge qualche migliore elemento di riflessione quando afferma che «l’universo dei videogiochi, cui ricorrono anche gli americani per il reclutamento di volontari, è un eccellente strumento di desocializzazione, addestramento e assuefazione alla violenza, che può indurre a passare all’azione e a partire verso un teatro di operazioni reali». L'uso dei videogiochi sarebbe innanzitutto, per il teorico dello storytelling, uno fra i modi diversi e «personalizzati» per trovare candidati al bellicoso suicidio: «I reclutatori di Daesh hanno messo a punto alcuni grandi miti: il modello del “cavaliere eroico” destinato ai ragazzi, la partenza per una “causa umanitaria” proposta alle giovani idealiste, il “portatore d’acqua” per chi è alla ricerca di un leader, il videogioco di guerra Call of Duty rivolto ai giovani attratti dall’azione violenta e animati da un desiderio di onnipotenza» (Repubblica, 15/11/2015).

 

A guardare alla questione dal punto di vista del gioco, i videogiochi fanno parte della vasta categoria dei giochi di simulazione, i quali vanno dal «facciamo che io ero il cowboy e tu l'indiano» al teatro delle recite a soggetto e ai giochi di ruolo (pure questi ultimi già fonte di angosce sulle possibili confusioni di identità dei giocatori). La versione bellica dei giochi di simulazione ha avuto una data e un luogo di nascita ben determinati: Berlino, 1811, quando George Leopold von Reisswitz inventò il primo Kriegsspiel, poi perfezionato dal figlio e adottato a fine addestrativi e strategici dall'esercito prussiano. Nel secolo precedente vi erano già state varianti guerresche degli scacchi, e comunque proprio l'antichissimo gioco degli scacchi e quello ancor più antico del «go» sono considerati simbolizzazione, rispettivamente, di guerra e guerriglia. Da lì in poi è aumentato esponenzialmente il grado di realismo, quindi di coinvolgimento del giocatore. Un coinvolgimento che può uscire dal gioco e irrompere nella realtà?

 

È da allora che, in realtà, i wargame sono giocati non solo nelle ludoteche, ma anche nei quartieri generali (dove i generali spesso hanno dimostrato poca flessibilità nell'applicare strategie inedite e non basarsi esclusivamente sul già noto). Il più bizzarro fra tutti i giochi di guerra è descritto in un capitolo fra i più folgoranti di Infinite Jest, il vasto romanzo di David Foster Wallace. Gli allievi dell'accademia tennistica che è uno dei due set principali del romanzo giocano a «Eschaton», nome che fonde l'escatologia ai megaton: un gioco di simulazione in cui quattro campi da tennis attigui rappresentano quattro continenti su cui gli allievi mettono in scena una guerra termonucleare, usando le palline da tennis come missili. Nella partita descritta in quel capitolo il gioco va all'aria perché i giocatori prendono il terreno del gioco non come mappa ma come territorio di guerra: la stessa confusione tra simulazione e realtà che è paventata da Pennac e indagata anche da Salmon.

 

Al di là di ogni fantasma angoscioso, i videogiochi possono indurre effettivamente all'azione soltanto in quanto inscritti in una più vasta operazione di propaganda e storytelling. Il loro principale apporto diretto è invece in termini di addestramento (e qui non si può non paragonarli ai videogiochi di simulazione del volo che sono serviti agli attentatori dell'11 settembre). Creano una socialità ristretta ai giocatori, ne testano e affinano la destrezza e la prontezza nell'azione e, soprattutto, li abituano all'idea che l'individuo singolo o la singola cellula possono compiere azioni militari che devastano città e colpiscono quantità massive di civili. I vecchi giochi di guerra presupponevano eserciti schierati in battaglia l'uno contro l'altro (la parola «sintassi» arriva alla linguistica proprio dalla polemologia antica, dove «sintassi» designava lo schieramento dell'esercito in battaglia). Se oggi si dibatte sull'estensione del significato di «guerra» è perché anziché da un esercito l'Occidente viene colpito da piccoli nuclei di «giocatori», e non nei propri eserciti ma nelle proprie popolazioni. È ancora guerra? Per sostenerlo occorrerebbe una revisione profonda del nostro dizionario, e anzi dell'enciclopedia su cui il dizionario si fonda.

 

Agli schermi dei videogiochi dei terroristi si possono simmetricamente paragonare quelli da cui, quando l'attacco non capita nel nostro quartiere (ma a volte anche in quel caso), apprendiamo le notizie più spaventose. È così che Slavoj Žižek considera gli attentati: «sono per noi un momentaneo promemoria del mondo violento al di fuori della nostra sfera, un mondo che in genere vediamo in televisione, remoto, distante, non come parte della nostra realtà» (Repubblica, 19/11/2015). Il terrorismo globale inventa così una categoria di guerra peer-to-peer, in cui alla strategia dei quartieri generali si sostituisce l'azione singola (sia pure concertata in una rete di combattenti) che colpisce singoli (sia pure in grande quantità). Dal videogioco il terrorista trae l'idea che la sua azione può meritargli una vincita da godere post-mortem; ma il suo atto non colpisce più la mappa bensì, e direttamente, il territorio. Lo stratega occidentale suo nemico per poter governare guarnigioni di combattenti deve prima confermare la sua legittimazione al comando, che gli può essere ritirata dalle masse colpite e dolenti, quando il monitor da cui osservano gli accadimenti non è più la tv, il computer o lo smartphone, ma la finestra di casa. Alla derealizzazione del gioco corrisponde la brusca presa d'atto nel reale di chi è assuefatto a un rapporto remoto e mediato con la realtà della violenza. Qui avviene il passaggio decisivo, l'asimmetria dei conflitti contemporanei: con aeroporti, fermate di metropolitana, appartamenti-covi al posto delle foreste del Vietnam del Sud (non a caso anche all'epoca ci furono discussioni semantiche su quanto il conflitto vietnamita fosse configurabile come «guerra»).

 

Il combattente rappresenta il Daesh, che infatti ne rivendica gli atti; ma i governanti occidentali rappresentano le vittime? La libertà che stiamo rivendicando in queste ore è quella di non giocare: ma al momento in cui la rivendichiamo il gioco non è più un gioco e la mappa è la nostra città, il nostro quartiere, casa nostra. Dovremmo piuttosto rivendicare il nostro diritto di giocare: cioè, di essere davvero rappresentati nel gioco che ci coinvolge, nostro malgrado. La debolezza strategica dell'Occidente è una debolezza politica: non di conduzione di gioco, ma di capacità di rappresentare il reale e di capire che il rischio non viene da una ludopatia criminogena, ma dalla miniaturizzazione degli apparati di distruzione (la lattina con la bomba che ha abbattuto l'aereo russo); dall'uso del corpo come munizione e bossolo che può perdersi nello scontro; dalla sintassi a rete – e non più, come negli eserciti, ad albero gerarchico – dei combattenti e dei loro nemici effettivi: noi. I videogiochi sono un passaggio funzionale al processo, ma non lo cominciano né lo finiscono, non lo strutturano né lo definiscono. Non possiamo pensare di interrompere questo gioco mandandolo semplicemente in tilt.

 

 

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita su Repubblica il 20 novembre 2015.

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