David Foster Wallace su Roger Federer

30 Giugno 2011

Per chi non lo sapesse, Roger Federer è il più grande tennista di tutti i tempi, di quelli che ne nasce uno ogni 100 anni, come Rossi, Gould o Pasolini.

Noi qui vi riproponiamo un bellissimo testo a lui dedicato, scritto da David Foster Wallace, uno dei nostri scrittori preferiti.

 


 

Quasi tutti quelli che amano il tennis e seguono i tornei maschili in televisione avranno sperimentato, negli ultimi anni, uno di quelli che potrebbero essere definiti “Federer Moments”. Ci sono delle volte, quando guardi giocare il giovane tennista svizzero, in cui la mascella scende giù, gli occhi si proiettano in avanti ed emetti suoni che inducono il coniuge nell’altra stanza a venire a vedere se ti è successo qualcosa. Questi Federer Moments sono ancora più intensi se hai abbastanza esperienza diretta di gioco da comprendere l’impossibilità di quanto gli hai appena visto fare. Tutti possiamo citare qualche esempio. Questo è uno. Finale dello US Open 2005, Federer contro Agassi, siamo all’inizio del quarto set, Federer ha il servizio. C’è uno scambio piuttosto lungo di colpi da fondocampo, con il caratteristico andamento a farfalla del tennis da picchiatori che predomina ai giorni nostri, con Federer e Agassi impegnati ognuno dei due a far correre l’avversario da un lato all’altro del campo, cercando di trovare il colpo vincente fino a quando, improvvisamente, Agassi tira fuori un potente rovescio incrociato che costringe Federer a decentrarsi alla sua sinistra: ci arriva, in allungamento col rovescio, ma il tiro esce corto e tagliato, mezzo metro oltre la linea di battuta, una di quelle situazioni in cui Agassi va a nozze, e mentre Federer si scalmana per cambiare direzione e recuperare la posizione centrale, Agassi si fa sotto per prendere la palla corta di controbalzo e la scaglia con forza nello stesso angolo di prima, per cercare di prendere Federer in contropiede, e in effetti ci riesce: Federer è ancora vicino all’angolo, ma sta correndo verso il centro, e la palla ora è diretta verso un punto dietro di lui, dove stava appena un attimo fa, e non c’è tempo di girare il corpo, e Agassi segue il colpo scendendo a rete sul rovescio ed ecco che Federer, non si sa come, riesce a invertire istantaneamente la spinta, arretra di tre o quattro passi quasi saltellando, a velocità impossibile, e colpisce la palla di diritto sul suo lato di rovescio, con tutto il peso spostato all’indietro, e quel diritto è un topspin lungolinea da urlo, e Agassi, sceso a rete, si protende per cercare di intercettarlo, ma la palla lo supera, corre lungo la linea e va a atterrare esattamente sull’angolo destro del campo di Agassi, conquistando il punto, con Federer che ancora sta danzando all’indietro quando la palla tocca terra. E poi segue quel consueto, breve secondo di silenzio attonito prima che la folla newyorchese esploda, e in tv John McEnroe, con il suo auricolare da commentatore in testa, che dice (più che altro a se stesso, sembra): “Come ha fatto a far punto da quella posizione?”. E ha ragione: considerando la posizione di Agassi e la sua straordinaria velocità, Federer doveva indirizzare la palla dentro un corridoio largo cinque centimetri se voleva superarlo, ed è quello che ha fatto, muovendosi all’indietro, senza tempo per preparare il colpo, e senza poter sfruttare il peso del corpo per imprimergli potenza. Era impossibile. Era una roba alla Matrix. Non so che razza di suoni siano usciti dalla mia bocca, ma la mia consorte dice di essere accorsa nella stanza e di aver trovato il divano pieno di popcorn e il sottoscritto in ginocchio, con gli occhi che sembravano quelli finti a palla che si trovano nei negozi di cianfrusaglie. Questo è un esempio di Federer Moment, ed era solo in tivù, e la verità è che il tennis in tivù sta al tennis dal vivo più o meno come il video porno sta alla realtà percepita dell’amore umano. Giornalisticamente parlando, non ho notizie succose da offrirvi su Roger Federer. A venticinque anni è il miglior tennista vivente. Forse il migliore di tutti i tempi. Biografie e profili si sprecano. Il programma di informazione della Cbs, 60 Minutes, gli ha dedicato una puntata lo scorso anno. Tutto quello che volete sapere su mister Roger N. M. I. Federer, il suo passato, la sua città natale in Svizzera, Basilea, il modo assennato e disinteressato con cui i genitori hanno sostenuto il suo talento, la sua carriera tennistica giovanile, i suoi iniziali problemi di fragilità e carattere, il suo amato allenatore delle giovanili, la morte accidentale di quell’allenatore, nel 2002, che lo ha al tempo stesso annichilito e temprato e lo ha aiutato a diventare quello che è oggi, i trentanove titoli conquistati finora in singolo nella sua carriera, gli otto titoli del Grande Slam, l’attaccamento, insolito per costanza e maturità, alla sua ragazza, che lo segue nei suoi viaggi (nel circuito maschile è una cosa rara) e gestisce i suoi affari (nel circuito maschile è una cosa mai sentita), il suo stoicismo di altri tempi e la sua solidità mentale e la sua bella sportività e la sua generale, evidente modestia e la sua meditata e filantropica prodigalità: è tutto a portata di Google. Rimboccatevi le maniche. Il presente articolo vuole descrivere il modo in cui Federer viene sperimentato da uno spettatore, e il contesto in cui ciò avviene. La tesi specifica è la seguente: se non avete mai visto il ragazzo giocare dal vivo, e poi lo andate a vedere, di persona, sul sacro manto erboso di Wimbledon, in mezzo a un caldo letteralmente disidratante, seguito da vento e pioggia come nell’edizione di quest’anno, allora siete il soggetto ideale per sperimentare quella che uno degli autisti dei pulmini riservati alla stampa durante il torneo descrive come “un’esperienza che rasenta lo spirituale”.

 

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David Foster Wallace è stato uno scrittore curioso, imprevedibile, ossessivo, onnivoro, geniale. E così è anche il breve libretto, Roger Federer come esperienza religiosa (ed. Casagrande), scritto per “Play”, la rivista sportiva del NYT nel 2006, costruito intorno alla figura di grande campione del tennis, e fondato sulla descrizione maniacale di alcune partite. Si sa che Wallace, morto suicida dopo una lunga depressione, solo tre anni fa, era un appassionato di tennis, e in gioventù un discreto giocatore; e che il protagonista del suo libro più importante, Infinite Jest, è un giocatore di tennis. Ma ci sono altre tre ragioni che spiegano perché questo sport lo interessasse sino a scrivere un’apologia del tennista svizzero, uno dei maggiori giocatori di tutti i tempi, un ventenne che ha rinnovato con il suo talento questo gioco (anche se oggi non più il primo nel mondo). La prima ragione risiede nell’analogia sottile che esiste tra tennis e scrittura letteraria: entrambi giochi solitari, fondati sul talento e sull’estro, attività fortemente individualiste, basate su piccoli colpi, agilità improvvise e eventi minuscoli che cambiano il corso di un’intera partita, o di un romanzo. Per Foster Wallace (e Federer) il tocco è tutto. La seconda ragione è detta nelle prime pagine del libretto: la bellezza. L’obiettivo dei giochi di competizione non è la produzione di bellezza, ma praticato ad alto livello, lo sport produce bellezza: quella del tennis è la “bellezza cinetica”, quella della scrittura la “bellezza morale”. La terza ragione riguarda il corpo, com’è detto nella prima nota (D. Foster Wallace è scrittore di lunghe note): Federer mostra come con il corpo umano, destinato a morire, si può produrre qualcosa di metafisico; Federer si sottrae alle leggi della fisica coi suoi colpi. Dietro a questa “spiegazione metafisica” ce n’è però un’altra, che è il vero cuore nascosto del saggio: il Caso. Nella descrizione della magistrale partita Federer-Nadal a Wimbledon, a lanciare la monetina, che decide il campo, è un bambino di sette anni malato di cancro: William. Ebbene, è il Caso, divinità cieca che produce bambini malati e insieme un genio come Federer. Con il Caso David F. W., genio letterario, ha combattuto tutta la sua vita, e alla fine ha perso. Ci restano i suoi meravigliosi colpi di pagina.

Marco Belpoliti

 


 

Nell’estate del 2006 David Foster Wallace – l’ormai 44enne divino fanciullo della letteratura mondiale, che il tennis lo ha praticato a livelli discreti e ne ha già scritto più volte – visita il museo di Wimbledon. Alla fine della rassegna delle racchette, dal 1877 ai giorni nostri, s’imbatte in un una scritta che spiega come l’evoluzione dei materiali abbia “trasformato totalmente il carattere del gioco. Oggigiorno è il picchiatore potente che domina con pesanti topspin. I giocatori serve-and-volley e quelli che si affidano al tocco sono praticamente scomparsi”. Sono dedicate a confutare questa diagnosi catastrofica le cinquanta auree paginette di Roger Federer come esperienza religiosa (che di lì a poco, in occasione degli U.S. Open, DFW consegnerà a “Play”, il magazine sportivo del New York Times, e che oggi, di nuovo in coincidenza degli U.S. Open, ci vengono offerte da un polito libretto Casagrande nella bella traduzione di Matteo Campagnoli, pp. 56, € 8.50).

Come si può – protesta DFW – prestare credito a questo cupio dissolvi che commina la decadenza del Tennis a catena di montaggio della brutalità? Anche quest’Isola Armoniosa deve ridursi alla miseria dei tempi? Deve alzare bandiera bianca quest’insieme di ritmo e grazia, energia e immaginazione, potenza dei gesti e fosforescenza dello spirito? Quest’arte del corpo che è insomma, nel mondo volgare e prevedibile dello sport-spettacolo, l’equivalente della poesia? Com’è possibile, quando dominatore incontrastato è un ragazzo svizzero che di tutto ciò rappresenta la smentita vivente?

Da tempo classiche, le pagine in cui DFW descrive movimenti e colpi di Roger Federer (“Mozart e i Metallica allo stesso tempo”) sono in tutto degne della grande tradizione dell’ekphrasis: quella in cui appunto i poeti si sfidano a tradurre in parole le immagini degli artisti. E non tradisce il titolo a effetto questa straordinaria orazione, od omelia, sulla “bellezza cinetica” che consente di “riconciliarsi con il fatto di avere un corpo”. Il segreto di Federer, sostiene scientifico DFW, è nel senso cinestetico, cioè l’equilibrio psicomotorio col quale controlla “il corpo e le sue estensioni artificiali”. Il segreto di Federer, sostiene metafisico (per la precisione gnostico) DFW, è essere “una creatura dal corpo che è insieme di carne e, in qualche modo, di luce”.

Il passo in cui viene letta la tavola crucciosa che decreta la fine del Tennis come arte riscrive il settimo capitolo di Moby Dick, del grande progenitore Herman Melville: Ismaele, alla vigilia dell’imbarco sul Pequod, nella cappella di Nantucket vede “certe lapidette di marmo, coi bordi neri”, che ammoniscono sulla potenza del mare e dei suoi mostri. Per poi ascoltare la grande orazione di padre Maple: che ripetendo la lezione dell’Ulisse dantesco esorta i balenieri a mantenere alta, nonostante tutto, la loro insegna di uomini (nel film di John Huston questa orazion picciola la diceva Orson Welles).

Ma habent sua fata libelli: poche volte come questa ha senso l’espressione ironia della sorte. Sono da allora passati solo quattro anni, infatti, e Federer da tempo ha imboccato il viale del tramonto (da ultimo, nei giorni scorsi a New York, sfiancato dal picchiatore serbo Nole Djokovic prima che potesse consegnarsi all’ascia rituale del super-picchiatore spagnolo Rafa Nadal). E, giusto due anni fa, lo scintillante Wunderkind della letteratura inopinatamente metteva fine ai suoi giorni ( “in fin dei conti”, suonava una delle meravigliose note al suo testo, “è il nostro corpo che muore”). Foster Wallace è l’Ismaele che si è trovato faccia a faccia col Nume Oscuro ma, a differenza di quello di Melville, non è sopravvissuto per raccontarcelo. Per questo, colpevolmente, lo si legge ora con molta maggiore passione di quando era in vita. Allo stesso modo, mentre il Federer sovrano del 2006 lo si ammirava senza amarlo, oggi si segue con trepidazione quello che su queste pagine Stefano Semeraro ha definito il suo “lungo addio”. C’è una voluttà indicibile, si sa, nell’attestarsi sulle posizioni dell’Impero alla fine della Decadenza.

Secondo uno degli ètimi proposti per la parola “Tennis” essa deriverebbe da “tenez!”, l’espressione con cui nell’antico gioco della paume si accompagnava il gesto del servizio. Cioè, più o meno, “prendi questa!”. Ma a me piace associarla al “tenere” della nostra lingua. In uno dei racconti di Tu, sanguinosa infanzia (libretto davvero aureo del ’97 l’anno scorso ristampato sotto silenzio da Einaudi), Michele Mari si ritrae attaccato, sanguinosamente appunto, agli emblemi dell’infanzia che la rovina del tempo gli sottrae: “ciò che hai amato anche solo un attimo, tenertelo stretto fino alla morte. Tenere, tenere, tenere…”. Sono convinto che su questa espressione, cinque anni dopo, abbia modellato la sua – a buon titolo più celebre – Francesco Saverio Borrelli: “resistere, resistere, resistere”. Ma dentro, ora, non faccio che ripetermi: tenere, tenere, tenere…

 

Andrea Cortellessa

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