La prima volta

5 Settembre 2013

Il 30 dicembre 1922 nasce l'Unione Sovietica. Il 26 dicembre 1991, dopo 69 anni di onorato servizio, si sfalda in quindici pezzi. Quello che ne rimane é uno dei territori più affascinanti del mondo, e questo é il racconto delle dodici volte in cui ci sono stato.

 


 

Alle 6 del mattino di un giorno di luglio del 2005, sulla spiaggia di Zelenogradsk, scattai questa foto.
Stavo cercando di aggirare gli insistenti inviti a fare un bagno nel Mar Baltico e subito dopo lo scatto, seduto sulla sabbia, guardai i tre denudarsi e gettarsi in acqua.
Era la mia prima volta nell'ex Unione Sovietica.
Mi trovavo distante decine di chilometri dal posto dove alloggiavo e guardando Max, l'uomo al centro della foto, fare il bagno nudo nel Baltico con le due ragazze, mi sembrava incredibile che fossi in Russia solo da 24 ore.

 

Eravamo partiti per quello che sarebbe stato il primo di una serie di viaggi nell'ex Unione Sovietica, l'unico grande impero che la nostra epoca ci aveva dato modo di conoscere. Per anni avevamo pianificato vari itinerari per attraversarlo, e alla fine il punto da cui iniziammo fu Kaliningrad.

 

Kaliningrad si trova in un'exclave russa, circondata da Polonia, Lituania e dal Mar Baltico. Fino alla seconda guerra mondiale si chiamava Konigsberg, era il capoluogo della Prussia Orientale ed era uno dei più importanti centri culturali dell'epoca. A Kaliningrad é nato e vissuto Immanuel Kant, ed é il principale centro mondiale di estrazione dell'ambra. Qui finivano le nostre informazioni storiografiche prima della partenza.

 

Partimmo per Kaliningrad da Berlino, di sera, con un furgone guidato da un russo con la passione della corsa e il vizio del tabagismo. Attraversammo per tutta la notte la Polonia cercando di non pensare alle gare di velocità che il nostro autista ingaggiava con le altre auto sotto la pioggia, mentre riempiva il furgone di fumo. Dopo una notte di viaggio, alle prime luci dell'alba arrivammo in città, e più precisamente al nostro alloggio, una residenza per studenti e professori dell'università di Kaliningrad che in estate veniva in parte usata come albergo. Ma la parola albergo era decisamente fuorviante. Le stanze erano dormitori con 3 letti a castello e il bagno in comune. La struttura cadeva letteralmente a pezzi, e in uno dei bagni c'era un buco largo una ventina di centimetri attraverso il quale si vedeva il piano inferiore. In alcune di quelle stanze vivevano delle famiglie, con i mobili di un'intera casa ammucchiati in uno spazio grande non più di venti metri quadrati, come se avessero traslocato dopo aver perso la casa. Non riuscimmo a entrare in contatto con gli abitanti stabili della residenza, ma nei giorni seguenti i bambini di quelle famiglie venivano spesso ad affacciarsi nelle nostre stanze, attratti dagli esotici visitatori del sud Europa.

 

Passammo la giornata in giro per Kaliningrad e dopo aver visitato il museo dell'ambra ci dirigemmo verso la Casa dei Soviet che nel 1968, per volere di Breznev, fu costruita demolendo i resti del castello di Konigsberg, “simbolo del militarismo prussiano”. La Casa dei Soviet é divisa dal resto della città da una strada a grande scorrimento, ed é una sorta di gigantesco cubo con una fessura al centro, un edificio a suo modo molto evocativo. Decidemmo di girare intorno all'edificio e mentre la prima facciata che incontrammo era rifinita e riverniciata da poco, l'altro lato era al grezzo, senza infissi, e rivelava come l'interno del palazzo non fosse mai stato completato. Quell'unica facciata rifinita in ogni dettaglio ci sembrò un mistero inesplicabile.
            
Mentre tornavamo verso il centro scese la notte.

La vita notturna era monopolizzata da locali improvvisati all'aria aperta, con tavolacci di legno, musica pop russa a tutto volume, una brace casalinga e un frigo per gli alcolici. Iniziammo a girovagare da una balera all'altra, ci ricordavano le sagre di paese del sud Italia, ma con cibo e bevande molto peggiori.
Poi vedemmo un locale diverso dagli altri.

 

Era al piano terra di un palazzo sovietico, un palazzo molto simile a quello dove dormivamo noi, che era molto simile a qualunque altro palazzo della città. Questo però aveva sulla facciata delle piramidi di luci al neon, che emettevano ad intermittenza luci rosse e blu. Piramidi ad intermittenza in Russia. Ci fiondammo dentro.

 

Con nostra grande delusione il locale all'interno non aveva nessun tipo di riferimento alle sculture luminose che si erigevano all'ingresso, era una comune discoteca di provincia russa, un tipo di locale che avremmo visto molte altre volte in ex-Unione Sovietica.
Le discoteche in Russia sono una visione laterale degli anni 80 occidentali, un esonimo visivo, la materializzazione dell'idea che gli abitanti dell'Unione Sovietica hanno avuto per decenni di quel tipo di locale pubblico dell'Ovest. Mentre cercavamo di ambientarci bevendo una vodka al bancone, si avvicinò Max.
Quello al centro della foto.
Ci invitò a sedere al suo tavolo e a bere con lui ed i suoi amici.
Ci sembrò un invito che non si poteva rifiutare.
Max era un russo di origini iraniane, che commerciava in gioielli, vestiti, ed “altro”. Queste furono le concise informazioni che ci diede di sé, prima di iniziare a ridere senza apparente motivo e a versare vodka nei bicchieri.
Non ci chiese nulla di noi e continuò a parlare spiegandoci che Kaliningrad era il posto giusto per fare affari, ci raccontò dei suoi viaggi nell'estremo oriente russo, di quando tornava in Iran per organizzare la sua attività di commercio internazionale. Intanto ci presentava chiunque passasse nel raggio di 5 metri dal tavolo al quale ci trovavamo.

 

Dopo vari brindisi all'amicizia intercontinentale tra Russi, Iraniani e Italiani, lui ebbe quella che, a giudicare dal suo sguardo vittorioso, dovette sembrargli l'idea del secolo: saremmo andati al mare. Quella notte.
L'unica cosa che sapevo del mare a Kaliningrad é che era lontano decine di chilometri, e che era decisamente troppo tardi per organizzare una scampagnata. Cercai di farlo notare al nostro ingombrante ospite ma non ci fu verso di fargli cambiare idea, e mentre i miei amici si defilarono, io mi trovai in un taxi con Max e due ragazze, che poi capii essere la sua fidanzata, che gestiva un negozio di abbigliamento sportivo in città, e una sua dipendente, molto più giovane di lei.

 

Il taxi nel quale viaggiavamo si fermò ad un certo punto a una stazione di servizio, nel mezzo del nulla, e scesero tutti tranne me e l'autista. Lo guardavo in silenzio dal sedile posteriore, aveva tutti i capelli rasati a zero, tranne un ciuffo sulla fronte largo quanto tutta l'attaccatura dei capelli. Iniziai a pensare che mi trovavo in campagna nei dintorni di Kaliningrad, che nessuno, me incluso, sapeva dove fossi, ed ero in balia di un tassista che a guardarlo dimostrava non più di sedici anni e aveva uno dei peggiori tagli di capelli della storia, e di un russo che commerciava in “altro”. Non ebbi il tempo di preoccuparmi perché nel frattempo Max e le ragazze erano tornati carichi di lattine di birra e avevano ripreso il loro chiacchiericcio continuo. Dopo circa un'ora di viaggio arrivammo a destinazione mentre albeggiava.

Arrivati sulla spiaggia il tassista fu il primo a scendere, fece un tuffo in acqua, poi con una bottiglia di plastica vuota raccolse dell'acqua di mare e, tornato alla macchina, aprì il cofano e la versò da qualche parte nel motore. Pensai di indagare per scoprire in quale serbatoio era andata a finire quell'acqua, ma nel frattempo Max urlava a squarciagola chiamandomi dal bagnasciuga, e dovetti desistere.
E così, 24 ore dopo aver messo piede in territorio Russo, ero sulla spiaggia di Zelenogradsk a guardare Max e le due amiche fare il bagno all'alba.

 

Quando uscirono dall'acqua però l'atmosfera era cambiata. La fidanzata di Max era nervosa, gli urlava contro, e intanto lui si rivestiva e rideva guardando nella mia direzione. Lei continuava a inveire e quando Max venne verso di me cercai di fargli notare che la sua dolce metà stava andando via verso il paesino dall'altra parte della strada. Lui non sembrò granché interessato, chiamò l'altra ragazza, la abbracciò e si diresse verso l'auto. Mi sembrò subito chiaro l'argomento della discussione.
Rientrati in auto, loro si accomodarono sul sedile posteriore ed io di fianco al tassista che partì incurante del diverso numero di passeggeri rispetto all'andata.

 

Abbandonammo dunque la fidanzata di Max e partimmo alla volta di Kaliningrad.
Mi svegliai all'ingresso della città, mentre Max mi chiedeva dove portarmi. Gli diedi il foglietto con l'indirizzo in cirillico della residenza dove dormivo e una volta a destinazione mi salutò abbracciandomi e giurandomi eterna amicizia. In stanza, alle 8 del mattino, tutti dormivano.

Il giorno dopo uno studente dell'università locale conosciuto nel nostro alloggio ci svelò il mistero della Casa dei Soviet: quell'anno ci sarebbe stata la prima visita ufficiale di Putin a Kaliningrad e l'amministrazione comunale aveva pensato di completare quell'edificio che era rimasto uno scheletro di cemento per quasi 40 anni. I lavori, già conclusi, consistevano nel completare solo una delle facciate, quella che dava sulla strada dove sarebbe passata la parata presidenziale. Così si risparmiava, ci fece notare.

 

Nei giorni seguenti provai molte volte a ricontattare Max, ma il suo telefono non dava segni di vita. Ogni tanto passavo di fronte a Sportslandia, il negozio della sua fidanzata, stando ben attento a non farmi vedere dato che temevo mi considerasse complice del suo fidanzato nella vicenda dell'abbandono a Zelenogradsk. Non ho mai piú rivisto lei né Max. Mi spiacque aver perso così presto i contatti con il mio primo amico post-sovietico.
 

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