Mark Lewis. Corpo a corpo con le immagini

3 Aprile 2015

Con la mostra dedicata a Mark Lewis, la prima di una certa importanza in Francia, Le Bal si conferma essere uno dei luoghi più interessanti per la cultura contemporanea dell’immagine. Ma oserei dire fotografica, perché il percorso di Lewis parte dalla fotografia per approdare alle immagini in movimento, regalandoci l’ebbrezza di poter permanere – durante la visione dei suoi «film» – nel limbo tra fotografia e cinema, al cuore di un pensiero dell’immagine. Sette i film esposti, sette le esperienze dell’immagine. Fil rouge, una visione come processo, che si costruisce mentre facciamo esperienza del tempo – un tempo che si svolge in maniera accidentale e non secondo la linearità di un racconto, espandendo in un certo senso l’immagine stessa – e dello spazio, che possiamo percorrere liberamente fino a trovarci interamente e letteralmente immersi nella grande proiezione che presta il nome alla mostra, Above and Below.

 

Above and Below, lavoro recente di Lewis (2014), racchiude tutte le tematiche dell’esposizione, essendone appunto fulcro e motore. Sinuosa protagonista del film, l’autostrada Minhocão, gigantesco serpente che attraversa San Paolo del Brasile per 3,5 km, a lungo considerata una sorta di monumento della modernità. Costruita nel 1970, era all’epoca la più importante infrastruttura autostradale dell’America del Sud. Tuttavia, la massiccia invasione dello spazio urbano, l’inquinamento e l’intensità del traffico l’hanno trasformata nella sua crudele controparte, un’architettura in rovina, destinata alla distruzione.

 

Above and Below the Minhocão, 2014. Courtesy of Daniel Faria Gallery and Mark Lewis Studio

 

Ripresa durante l’abituale chiusura al traffico domenicale, il film di Lewis mostra Minhocão percorsa da pedoni e ciclisti, che la abitano e la occupano svolgendo le attività più disparate, mentre la camera montata su una gru ci offre uno stupefacente piano sequenza percorrendola, above and below, al crepuscolo. L’occhio a cui ci affidiamo somiglia a quello anonimo del drone (cui Lewis si è chiaramente ispirato per un altro film esposto, Forte!, del 2010), dimenticato e assimilato alla sua funzione. Questo film – come tutti gli altri in mostra – annuncia nel suo piano sequenza qualcosa che non arriverà mai: narrazione e storia sono solo potenziali; beffarde unità aristoteliche ci strizzano l’occhio mentre guidano il movimento della macchina da presa. Il tempo dell’immagine, in svolgimento più che in movimento, si appropria dello spettatore e ne colonizza l’esperienza, il montaggio viene dissimulato e reinterpretato da una vue plongeante che mostra gli stratificati livelli urbani che compongono l’immagine, il movimento continuo della macchina da presa ci cattura, tanto che lo seguiamo quasi identificandoci con lui. Quasi.

 

È così che Lewis ci porta infatti fino all’abisso del nostro essere spettatori. La proiezione ci permette di esperire una prossimità insolita con lo schermo e un rapporto fisico con l’immagine proiettata: un’immagine in cui possiamo entrare, in cui le nostre ombre si mescolano e si confondono con le ombre dei passanti dell’autostrada. Possiamo davvero fare parte dell’immagine. Il dubbio dunque si insinua, corporalmente lo montiamo noi stessi e visivamente ne troviamo la conferma nella rottura del patto tacito secondo cui io credo a quello che questo occhio meccanico mi mostra; una rottura che Lewis mette in scena attraverso un passante – figurante inserito da lui nel suo film – che guarda improvvisamente in camera e con un gesto simula la forma di un cuore (gesto della più banale consuetudine da social network). La domanda su cosa stiamo effettivamente guardando nasce tanto improvvisa quanto urgente. Bisogna forse diffidare delle immagini?

 

A questo punto emerge pertanto un altro interessante aspetto del lavoro di Lewis, quello di uno sguardo sulla contemporaneità che «resiste» nello spazio di un fotogramma. «Questi luoghi che la vita ha abbandonato» e che «tuttavia si mostrano come la cornice di una vita» (Simmel, Saggi sul paesaggio) sono il soggetto d’elezione di Lewis. Minhocão verrà distrutta, la luce crepuscolare conferisce alla scena una inquietante malinconia del presente.

 

Il tempo di una sigaretta diventa l’unità di misura di un atto di resistenza in Cigarette Smoker at the Café Grazynka Warsaw (2010), gesti anodini che la camera – fissa in questo caso – ci spinge a considerare nel loro semplice significato sovversivo: il gesto dell’operaio che fuma è incastrato nel riquadro della ripresa e non è un gesto funzionale, economico, ma una forma di resistenza a quelli che qualcuno chiamava i «processi continui e ininterrotti che assoggettano i corpi, dirigono i gesti, reggono i comportamenti» (M. Foucault, Microfisica del potere). La ripresa termina quando la sigaretta si esaurisce.

 

La camera fissa di un piano sequenza in Cold Morning (2009) ci racconta 8 minuti di vita di un clochard in un freddo mattino qualunque, in una grande città qualunque, su un marciapiede qualunque. La camera è puntata proprio sul marciapiede, il soggetto entra nell’inquadratura fissa in maniera sempre parziale, rinviando costantemente al fuori campo che ci viene negato e costringendoci nella dimensione dell’attesa, con lo sguardo concentrato a cogliere la nudità, l’asciuttezza dei gesti.

 

Cold Morning, 2009. Courtesy of Daniel Faria Gallery and Mark Lewis Studio

 

Di fronte, The Pitch (1998), unico film sonoro, mostra lo stesso Lewis nell’atto di leggere un testo sullo statuto dei figuranti del cinema, anch’essi in fondo «cornici di una vita», di più vite, quelle del cinema appunto. Come dice lo stesso Lewis nel suo testo, niente è stato scritto sui figuranti, sul loro modo di far finta di fare cose qualunque, individui à l’arrière-plan, metafora di uno scambio silenzioso e inconsapevole tra realtà e finzione.

 

Hendon F.C. (2009), sembra simulare il prologo di un film. La macchina da presa sorvola un campo di calcio abbandonato in cui vivono ora delle famiglie Rom, di cui seguiamo qualche istante di vita prima che l’occhio venga trascinato lungo il campo, nel campo, tra l’erba incolta, ancora una volta in attesa di qualcosa che dia avvio al racconto. Questo piano sequenza mostra concretamente quel terrain vague in cui ci veniamo quindi a trovare percorrendo la mostra. Mark Lewis riesce infatti a farci vedere e esperire qualcosa che non è più fotografia ma che non è ancora cinema, qualcosa che somiglia alla potenzialità dell’immagine in formazione, una specie di scatto fallito che ha aperto a nuove possibilità visive, un terreno aperto e potenzialmente sovversivo su cui ci confrontiamo – nel tempo della visita – in un corpo a corpo con le immagini che continuano così a mettere in questione noi ma anche sempre il loro ruolo nel mondo.

 

Hendon F.C., 2009. Courtesy of Daniel Faria Gallery and Mark Lewis Studio

 

 

 

Mark Lewis. Above and Below

Le Bal, Parigi, dal 5 febbraio al 3 maggio 2015

http://www.le-bal.fr

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