Speciale

Progetto Jazzi / Intervista a Claudia Losi

22 Giugno 2018

 

L’associazione con questa intervista vorrebbe raccontare a tutti coloro che non saranno presenti all’inaugurazione di Voce a vento il senso del progetto, che rimarrà visibile fino al 24 settembre 2018 sul versante di Monte Bulgheria verso Licusati (Camerota).

 

Katia Anguelova: L’associazione Jazzi si occupa di studiare un nuovo modo di vivere la natura e del recupero dei percorsi lenti. In che modo ti ha influenzato la prima visita in Cilento, qual è stato l’impatto iniziale?

Claudia Losi: Sono arrivata in una giornata di sole splendido, verso marzo 2017. I sopralluoghi sono iniziati dal mare, per poi salire in esplorazione sul versante del Monte Bulgheria verso Licusati, tra le sue rocce carsiche di un bianco accecante. Era primavera solo da pochi giorni ma già molta vegetazione era in fiore. Piante pioniere rigogliose e pronte a colonizzare nuovi siti.

Poco alla volta ho raccolto informazioni ascoltando chi vive questi territori, amandoli e conoscendone le difficoltà, e da chi ne è ospite temporaneo ma legato a essi attraverso uno stretto giro d’affetti.

Quello che più mi ha colpito per prima cosa è stata la pluralità di livelli di lettura possibili di questi luoghi: una storia umana, articolata e complessa, antica quanto le grotte a mare abitate nel Paleolitico e recente come il tentativo di fare convivere la tradizione agricolo-pastorale con le forme di un turismo che cambia.

Una varietà naturale di fauna e flora ricchissima, una geologia che rende questo sito di particolare interesse.

Mi sono state rivolte delle richieste specifiche da parte di Jazzi, il committente di Voce a vento, che sono diventate le lenti attraverso le quali guardare ciò che mi circondava.

Mi sono proposta, fin da subito, in accordo con lo spirito dell’associazione, alcune regole da seguire: rispettare i luoghi e le persone che lì vivono; avere un impatto ambientale non violento e che abiti temporaneamente questi luoghi; ipotizzare la possibilità di riproporre, sotto forme ogni volta diverse, il progetto per assicurarne una qualche forma di radicamento.

 

 

 

 

K.A.: Cosa significa camminare per te? Hai già compiuto tante camminate, ricordo una collaborazione alla Marrana Arte Ambientale con Hamish Fulton, il “walking artist”, che vive l’arte come esperienza del camminare. Che ruolo ha avuto nei tuoi percorsi? Questa pratica fa parte anche del tuo intervento sul Monte Bulgheria …

C.L.: Ricordo l’incontro con Hamish Fulton come uno dei momenti chiave della mia vita. Eravamo alla Fondazione Ratti, a Como, e Hamish era il visiting professor del workshop. L’incontro con quest’uomo che ha deciso di basare l’intera sua ricerca artistica sul camminare luoghi, tessendo idealmente una rete di cammini che s’infittisce nel tempo, dalla prima camminata all’ultima che farà, mi è sembrato l’equivalente di quello di cui scriveva Alberto Giacometti nei suoi diari: “l’idée fixe” che ti obbliga a insistere sempre verso quella medesima direzione, verso un fine che si sottrae mentre ti sembra di essere lì lì per raggiungerlo.

Questa coerenza mi emoziona profondamente. Questa ricerca dell’impossibile, dell’inesauribile.

Il proprio corpo come strumento, che è trasformato e trasforma nell’esperienza, mi pare un punto irrinunciabile dello stare al mondo. Siamo corpo sensibile, chimica viaggiante.

Quindi sì, camminare diventa la pratica importante, anche se non esclusiva, attraverso la quale voglio confrontarmi col corpo-paesaggio, col corpo-mondo.

Così per il progetto Voce a vento, per arrivare all’intervento finale, ho voluto prima organizzare delle brevi esplorazioni dei luoghi organizzando delle camminate collettive attraverso le quali condividere sguardi diversi.

 

K.A.: Infatti, hai iniziato tutto con una serie di “laboratori camminati”. La capacità di vedere nel vuoto-pieno dei luoghi è in qualche modo anche quella di dare loro dei nomi. Chi erano i tuoi compagni e come ti hanno aiutano nel sviluppo del progetto?

C.L.: Nominare i luoghi serve all’umano per non perdersi, per centrarsi rispetto a un qui e ora. A volte i nomi restano; altre volte s’insinuano nella memoria di pochi, spesso scompaiono.

Con i tre “laboratori camminati” realizzati durante l’inverno scorso, ho chiesto ad alcuni ospiti (amici di vecchia data o conoscenze recenti) di restituire – attraverso il proprio sguardo, le proprie conoscenze e pratiche – l'esperienza di paesaggio e di natura vissuta direttamente e insieme durante alcune brevi esplorazioni. 

Abbiamo scelto tre sentieri nella rete “venosa” del Monte Bulgheria e li abbiamo frequentati con ‘esterni’ e locali, aprendoli al pubblico. Lo abbiamo fatto ricevendo informazioni sulla geologia, sulla fauna e flora locale, sul passato remoto di queste terre e su come le si vive oggi, tra attaccamento e malinconia da abbandono. Ho raccolto impressioni, ho dialogato, anche a distanza, con alcune delle persone che hanno partecipato, arricchendo il mio vocabolario.
Da questo materiale sono nati alcuni testi poi utilizzati da Meike Clarelli per i canti di Voce a vento.

K.A.: Puoi parlarmi della dimensione collettiva del progetto Voce a Vento, dimensione che spesso ritorna nei tuoi progetti?

C.L.: In particolare per questo progetto e forse a maggiore ragione per il tempo duro che stiamo attraversando socialmente e politicamente, soprattutto in Italia, mi è venuto spontaneo pensare a un progetto corale, partecipativo e dove il “fare attenzione alle parole che si usano”, il compiere “piccole azioni di cura”, restano al cuore dell’azione allestitiva e performativa.

Non a caso, inizialmente, il titolo temporaneo del progetto era “abitare l’aria”. Siamo ospiti temporanei.

Così ho pensato di trasformare una trentina di maniche a vento originali, mutando la loro forma, e installandole lungo uno dei sentieri del Parco, come intervalli di uno spartito ideale.

Sono forme mutevoli che assecondano la presenza e la forza del vento.

La direzione che prendono è quella delle correnti che percorrono i profili del monte e rendono visibile, in qualche modo, un paesaggio fatto d'aria, anche d'aria.

Sono dei marcatori del paesaggio: evidenziano i punti “parlanti” rispetto al percorso scelto. Sono un viale alberato, un bosco in movimento di parole e forme.

Lo sguardo è catturato da queste presenze colorate che abiteranno anche la notte, con brillii più o meno visibili, forse con luna buona.

Hanno un suono di carta che struscia contro la carta stessa, se il vento è forte.

Le maniche resteranno per qualche mese e poi verranno tolte e magari riproposte, in forme diverse, negli anni a venire. 

 

 

 


Antonio Marras, disegno per i vestiti.

 

K.A.: Marius Schneider, filologo, musicologo, compositore dice: «La voce è suono. Il suono è l'elemento più sottile della materia percettibile. Nella storia di ciascuno di noi, come nella nostra storia collettiva, fu proprio esso, in origine, il luogo di incontro dell'universo e dell'intelligenza». Il canto, il sonoro diventa un atto, qualcosa da fare e non solo da ascoltare. Abbiamo vissuto il progetto come un cammino, un mezzo di trasporto… In che cosa consiste invece la sua parte sonora?

C.L.: Solo per qualche ora, al tramonto, il giorno prima di San Giovanni, la giornata dei fuochi, della trasformazione in tutto il Mediterraneo, un gruppo di 30 donne percorrerà il sentiero, cantando e distribuendo suoni in cammino fino al momento in cui, tutte e trenta, canteranno la stessa canzone a cappella.

Avevo in mente i canti del lavoro, quello delle donne di risaia che è anche il canto dei campi, della mietitura o della raccolta delle olive, quando la voce, aiuta il fiato a tenere e a continuare la fatica, sentendola un poco meno.

Immaginavo la voce che riverbera sulla superficie dell'acqua, tra la paglia, tra le reti e i rami degli ulivi, che salta nei cesti della sarchiatura. Una voce femminile, per queste montagne così maschili.

Meike Clarelli, a cui ho chiesto di dare suono a questi testi e di occuparsi della preparazione dei cori, ha inteso – con un grado di empatia che mi ha sorpreso – cosa avevo in mente, ed è riuscita a rendere contemporaneo e attuale il canto.

Le cantanti scenderanno in parte dall’Emilia Romagna, lì hanno preparato inizialmente i canti. Hanno fatto anche prove, al tramonto, tra i calanchi bolognesi per valutare come si potrà comportare la voce all’aperto col tipo di movimento lento e rituale che seguiranno durante la performance.

Al gruppo che scende dall’Appennino del nord (“Le Chemin des Femmes”) si uniranno le coriste locali dei cori “Kamaraton” di Camerota e “Vivat” di Lentiscosa e tesseranno insieme le proprie voci. Sarà un momento di grande emozione. Ogni donna indosserà un costume realizzato appositamente da Antonio Marras, amico caro e persona di naturale e grande generosità. A queste voci si aggiungerà l’incredibile voce di Elena Bojkova, cantante del gruppo di fama internazionale “Le Mystère des Voix Bulgaires”, che ha accettato di cantare e improvvisare per noi partendo da un altro canto musicato da Meike e Davide Fasulo. L’omaggio al Monte Bulgheria, la sua denominazione deriva dai coloni bulgari che qui si stanziarono prima del 500. Le voci e le maniche a vento abiteranno l'aria, si sposteranno col vento, verranno anzi azionate dal vento. Rimbalzeranno sulle pietre, si perderanno verso il mare e scenderanno a valle, sul fondo dell’antico, tra gli ulivi secolari.

 

Atmosferico, brano per il progetto di Claudia Losi Musiche originali Meike Clarelli (Amigdala)

 

K.A.: Mi viene in mente Maria Lai con il suo intervento Legarsi alla montagna, in cui l’artista ha annodato l’intera comunità al suo monte. La tua opera vuole restituire qualcosa al Monte Bulgheria, renderlo partecipe, ci racconti come sei entrata nello spirito del luogo?

C.L.: C’è una differenza importante: non appartengo a questa comunità. L’ho frequentata per poco tempo, sono di passaggio. Ma come spesso accade, venendo da fuori, lo sguardo che puoi dare, è in grado di mettere in evidenza aspetti che normalmente passano inosservati, per consuetudine o per disattenzione o pigrizia.

Come aggiungere una pietra a una piramide, un cairn, che segna un punto di particolare interesse lungo un sentiero.

Lo rende più solido e magari, proprio quella pietra, catturerà l’attenzione di chi passerà dopo di te. Poiché qualcosa è cambiato.

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