L’invenzione dei linguaggi / Tre forme di creatività: tecnica, arte, politica

3 Febbraio 2018

“Pensieri onirici e contenuto onirico manifesto stanno davanti a noi come due esposizioni del medesimo contenuto in due lingue diverse, o meglio, il contenuto manifesto ci appare come una traduzione dei pensieri del sogno in un altro modo di espressione, di cui dobbiamo imparare a conoscere segni e regole sintattiche, confrontando l’originale con la traduzione” (Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni)

 

Non è un libro su Freud, né un libro sul sogno (o almeno non solo), Tre forme di creatività: tecnica, arte, politica (Cronopio, 2017). Eppure, è attorno a questo passaggio centrale de L’interpretazione dei sogni che si gioca uno degli snodi fondamentali e più originali dell’ultimo lavoro di Pietro Montani. Il sogno e il lavoro immaginativo che esso mette in opera circoscrivono, infatti, uno dei luoghi teorici essenziali (insieme alla tecnica, all’arte, alla politica) per comprendere come vada intesa la creatività, almeno nel modo in cui Montani la descrive nelle pagine del suo recente volume. Un punto d’osservazione privilegiato non solo perché il sogno è l’attività che ci consente di produrre immagini, ma perché queste immagini, prodotte non in stato di veglia cosciente, risultano essere pregne di un significato, che eccede quello manifesto del contenuto del sogno stesso, e richiede, per essere accessibile, di un lavoro interpretativo, garantito soltanto da un accorto percorso analitico. 

Non è però la dimensione ermeneutica dei sogni, come nella tradizione freudiana più consueta, a interessare Montani, quanto piuttosto la loro capacità di produrre immagini non “stereotipate”, ma per l’appunto creative, ossia frutto della nostra immaginazione, quando essa riesce a non farsi catturare da tutti quei dispositivi di automatizzazione, per i quali il processo creativo diventa riconducibile alla semplice esecuzione di una regola già data. I sogni sono uno degli atti di possibile resistenza a questa deriva automatizzante che agisce in maniera sempre più prepotente nel mondo contemporaneo e che assomiglia, per certi versi, allo “schematismo dell’industria culturale” di cui parlano Horkheimer e Adorno: uno di quei casi in cui la tecnica serve da “autoconferma dell’esistente, in virtù della sistematica rimozione del possibile e dell’imprevedibile” (p. 53), piuttosto che come strumento per la sua messa in questione critica. 

 

 

Alla stessa funzione “negativa” rispondono le opere d’arte, quegli artefatti capaci, almeno quanto i sogni, di mostrare il lavoro dell’immaginazione (lo schematismo) nella sua funzione eminentemente creativa. Ciò di cui ne va, nel sogno, nell’arte e diciamo anche nella politica, è la formulazione di una lingua – mai riconducile a leggi stabilite in maniera definitiva, quanto piuttosto a regole di volta in volta rinegoziabili – diversa da quella verbale, dal canto suo funzionale all’espressione di significati e conoscenze, da cui si dice che la specie homo sapiens abbia fatto dipendere parte del successo della propria evoluzione. 

La tesi di Montani è, relativamente a questo tema, ben più radicale. Il successo evolutivo della specie umana andrebbe infatti fatta risalire, più che alla capacità di riconoscere e corrispondere a una regola, alla possibilità di scartare creativamente da essa, per individuarne, di volta in volta, una nuova. Nasce da qui la necessità di occuparsi, in un discorso sulla creatività, di oggetti come l’arte, la politica, il sogno, tutti luoghi in cui l’immaginazione lavora “liberamente”, non senza regole, ma con regole ogni volta nuove. È questa una ragione, fra le altre, per cui il sogno è un oggetto di indagine imprescindibile non soltanto per comprendere, come ha mostrato Freud, qualcosa del nostro inconscio, ma anche per intravedere una linea importante dentro lo sviluppo filogenetico della specie umana, alla quale si deve l’invenzione di un linguaggio, che ha tanto una valenza conoscitiva e comunicativa quanto, in alcune particolari occasioni, un valore che dipende direttamente dal quoziente di creatività che esse mette in gioco. I sogni sono una di queste occasioni, dal momento che le immagini oniriche “pur avendo natura allucinatoria […], vanno anche assunte nella loro natura di segni di una lingua particolare, fortemente investita sul piano simbolico” (p. 68). 

 

In cosa consiste dunque la creatività messa in opera dal sogno? Nella invenzione di una lingua, con regole sue proprie (quelle che L’interpretazione dei sogni si preoccupa di sottoporre a vaglio) in cui, diversamente dal linguaggio verbale, prima ancora che un significato, alle parole è attribuito un valore che si esaurisce in se stesso, nella parola in quanto “cosa”, senza rimandare necessariamente a qualcosa come un concetto, che solo un discorso (analitico) può cercare di restituire. In questo senso, la lettura di Montani tenta uno scarto rilevante rispetto alla lettera freudiana.  Nella lingua dei sogni, le parole sono trattate come oggetti, associabili l’una all’altra, in maniera esemplarmente creativa. “L’effetto di reificazione del tutto particolare che l’immaginazione onirica riserva al linguaggio” consente “di poter trattare le parole come fossero delle cose, oggetti manipolabili a vario titolo prima ancora che oggetti primariamente dotati di una funzione significante” (p. 69). “Nei sogni le parole valgono come cose, come pezzi di montaggio che servono a costruire aggregati ingegnosi e imprevedibili” (p. 69).

Ciò che i sogni primariamente mostrano, quindi, è la possibilità di sganciare il linguaggio dalla sua funzione prevalentemente cognitiva e ancorarlo a una funzione per certi versi addirittura più originaria. Ciò a cui assistiamo nel sogno è un “riassortimento inedito del rapporto tra immagine e parola” (p. 77), “una radicale rinegoziazione del loro vincolo normale” (pp. 78).  Questa lingua (per certi versi “prelinguistica”, che fa uso non più di parole, ma di immagini (o ancora meglio, di parole che sono ri-diventate segni), è la stessa lingua che parla l’arte, il luogo in cui (insieme alla politica) la creatività è esemplarmente in gioco. 

 

A qualcosa del genere pensa Pasolini quando parla del cinema come della “lingua scritta della realtà”. “Im-segni” definisce le immagini significanti di cui è fatto il cinema, in una delle pagine di Il “cinema di poesia”, e poi aggiunge: “c’è tutto un mondo, nell’uomo, che si esprime con prevalenza attraverso immagini significanti […]: si tratta del mondo della memoria e dei sogni” (in Empirismo eretico, p. 180). Da questa capacità del cinema di schivare la mediazione linguistica verbale e riconoscere nelle immagini stesse dei segni, fa dipendere la sua decisione di abbandonare la letteratura per cominciare a girare film. In Accattone (1961), il primo lungometraggio di Pasolini, un sogno anticipa al protagonista la scena della sua morte.  

 

Non c’è dubbio, in una prospettiva come questa, che il cinema sia, fra tutte le arti, quella capace di tematizzare e mettere in questione, con maggiore evidenza, il rapporto affatto scontato fra immagini e parole, che già i sogni mostrano nel modo in cui abbiamo detto. Oltre a Pasolini, lo sanno bene i grandi registi di cui si parla in Tre forme di creatività, in cui il cinema torna a essere uno dei luoghi in cui rintracciare, letteralmente in opera, il lavoro dell’immaginazione, come accadeva in molti dei lavori precedenti di Montani: qui mi piace ricordare (per affinità di temi e approccio) almeno L’immaginazione narrativa. Il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario (2000). Lo sa bene Godard, il regista che meglio e più di altri ha usato  da sempre il cinema (sin forse dai primi capolavori della Nouvelle Vague e certamente nei film degli ultimi vent’anni, almeno dalle Histoire(s) du cinéma in avanti) con l’intento non dichiarato, ma ciononostante esplicito: “di far saltare ogni schema pregresso nel rapporto tra parola e immagine per disporre, se possibile, l’infrastruttura di una nuova relazione, o forse addirittura la simulazione di una relazione parola-immagine colta allo stato nascente” (p. 122).

 Adieu au langage (2014), l’ultimo film di Godard, è il manifesto di tutto questo: di una creatività che il cinema – insieme una forma d’arte e una tecnica esso stesso – mette al lavoro in maniera radicale, quando si dimostra capace di creare un nuovo linguaggio. Il 3D “sbagliato” del suo Adieu au langage è lo strumento che Godard sceglie per non smettere di reinventare il linguaggio cinematografico e il film, più che un congedo, suona piuttosto come un’ostinata invocazione rivolto al cinema e a chi se ne ciba, a continuare a essere “fuori norma”, o creativi. Solo così, dopo essere divenuti animali (coincide con quello di un cane, il punto di vista che il film chiede al suo spettatore di adottare), si può continuare a essere umani.             

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