Responsabilità e gioia / South Africa. Diario di viaggio

8 Gennaio 2018

Parte prima

 

Tra i jacaranda esplosi di violenti rossi e malva, nel quartiere di Linden, a nord di Johannesburg, è l’ora di uscita di bambine e bambini da scuola. C’è il filo spinato elettrificato e le mura sono alte. La zona residenziale è molto curata. All’angolo, di fronte alla scuola, un emporio di formaggi naturali invita coloro che passano in Suv a fermarsi per assaggiare un ritorno alla terra e ai sapori autentici. Gli scolari cominciano a sciamare. Sono ben curati, vestiti con le divise della scuola. I loro genitori aprono le portiere delle grandi auto e dei pick-up perfettamente puliti. Sono tutti a piedi nudi e, senza scarpe, salgono sui veicoli dei padri e delle madri. È una scuola boera, frequentata dalla minoranza bianca che per ventisei anni ha dominato questa terra con l’apartheid, il regime segregazionista rimasto in vigore fino al 1991. Allevati dai genitori per essere dei veri africani, orgogliosamente afrikaaner, attaccati alla terra e alle tradizioni, sono pronti a dimostrarlo con tenacia e con tutti i mezzi, farmer nel cuore anche se gestiscono banche e miniere. I piedi nudi sono il simbolo del loro non essere viziati dalle comodità cittadine e dal successo economico. Oggi però tutto questo è simbolo di una sconfitta. Subito dopo le elezioni, che hanno portato Mandela a essere il primo presidente di un Sud Africa liberato dall’apartheid (1991), tre dei sei milioni di bianchi che costituivano la minoranza al potere – su una popolazione di cinquantacinque milioni di neri, coloured e indiani – sono andati via. Oggi, i tre milioni che rimangono sono un visibile resto sospeso tra chi vuole rimanere per una sincera affermazione di una democrazia arcobaleno (un’idea sempre più difficile da abbracciare) e tra chi vuole restare perché ha ancora in mano gran parte della ricchezza del paese. 

 

Nelle stesse ore in cui le scuole si svuotano, il centro di Joburg, come tutti qui chiamano la capitale economica e finanziaria del paese, mostra la sua trasformazione in atto, che ha cambiato radicalmente il volto del “financial district”. Laddove c’erano le sedi di banche, holding, società che gestivano oro e diamanti, ora c’è un quartiere abbandonato fatto di edifici in vetro e cemento, con le orbite vuote dei portoni e delle finestre, le facciate scrostate. Abbandonato e occupato da una marea di disperati homeless, di neri esondati dalle township, di nuovi immigrati da paesi come Botswana, Zimbabwe, Mozanbico. Dormono per terra, in edifici senza luce e acqua. Ci inseguono ossessivamente e a volte minacciosamente per avere qualche rand. Anche se i nuovi imprenditori neri stanno cercando di riportare in vita il centro con jazz club, guesthouse e gallerie d’arte, se cercate di farvi un giro più largo dell’isolato che contiene la loro buona volontà, vi dicono di farlo con molta prudenza e circospezione. Aggiungono che non è molto diverso qui dalle grandi città del mondo, ma poi vi raccomandano di non oltrepassare la linea invisibile che separa questa parte della città da un’altra oltre Constitution Hill, la storica collina dove è stata approvata la nuova costituzione. Oltre quella collina c’è una zona grigia, pericolosa, disperata, arrabbiata.

 

 


The “rage” è la marca di scarpe da donna più venduta alla nuova piccola borghesia nera emergente. Scarpe sexy, ben disegnate e a poco prezzo. Ma “rage” è anche la parola più sentita. A 26 anni dalla fine dell’apartheid, con un parlamento e un governo costituito in gran parte da neri, la distribuzione della ricchezza è cambiata ben poco. Sono lì a dimostrarlo le immense township, come Alexandra, Soweto e le altre decine di baraccopoli di milioni di abitanti neri e coloured. Un termine con cui qui vengono chiamati i mezzo-sangue, il misto di abitanti originari, khoisan e bianchi, di malesi, cioè di popolazioni provenienti dall’Asia e mescolatisi con neri e indiani. I coloured sono oggi i nuovi discriminati. Ci sono certamente i nuovi ricchi black e c’è soprattutto una classe di politici black ricca e super-corrotta capeggiata dal ladro per eccellenza: il presidente Jacob Zuma. 

 

Si dice che due rand (la moneta sudafricana che subisce una svalutazione che si va pericolosamente accelerando) su tre delle imposte pagate dai cittadini vengono stornati, rubati dalla corruzione politica. Zuma è uno zulu che appartiene al partito di Mandela, quell’African National Congress (ANC) che ha avuto migliaia di martiri e centinaia di migliaia di militanti e che ha messo in ginocchio i nazisti bianchi al governo, Botha, De Klerk e compagnia bella. Mandela l’aveva però annunciato che la caduta dell’apartheid sarebbe stata solo l’inizio “Now we are free to be free”. Oggi, a distanza di ventisei anni da quello storico momento, sono molti i giovani neri nati “liberi” che gli rimproverano di non avere fatto quello che si doveva fare, soprattutto levare ai bianchi le risorse che appartenevano al paese, nazionalizzare le miniere e la terra. Il Sudafrica di oggi continua a produrre buona parte dell’oro e dei diamanti che vanno in giro per il mondo, ma i profitti non ricadono sul paese. La questione della terra e della proprietà è più scottante che mai.

 

L’ANC si è trasformato in una democrazia cristiana che distribuisce assistenza. Si parla del sessanta per cento di neri impiegati in mestieri pubblici che non sono altro che un tipo di welfare, soldi dati alle township con una politica immobiliare pubblica di costruzione di nuove case unifamiliari. Una politica che ha migliorato (in dieci anni se ne sono costruite milioni) radicalmente le condizioni di chi ci abita, ma che li ha piantati ulteriormente in queste immense distese di lamiera e baracche che sono anche la continuazione di un apartheid sociale e non più razziale. Il partito al governo sta semplicemente consumando le risorse che ha trovato all’arrivo al potere, e adesso con l’acqua alla gola ha chiesto un prestito alla Banca Mondiale per continuare a pagare i milioni di assistiti e sotto-assistiti. Il paese è in bancarotta, si parla di catastrofe imminente. Le campagne non hanno acqua, perfino Capetown, la bellissima città ventosa tra l’Oceano Indiano e l’Atlantico, è in condizioni critiche, e non si tratta solo della siccità e dello slittamento della stagione delle piogge dovuta al cambiamento climatico. 

 

La fuga dei bianchi adesso è accompagnata dalla fuga dei neri e coloured. Visto che ci vogliono dai dieci ai diciotto mesi per ottenere un visto, già si sa che il 2018 sarà l’anno della più grande fuga dal paese, superando i sette milioni che già sono andati via negli ultimi venti anni. La gente fugge dalla “rabbia”, la rabbia nera di chi si aspettava che il paese diventasse un luogo vivibile e più giusto e invece si è visto ricacciare nella propria emarginazione. La rabbia dei neri che si sono trovati a contare ventimila morti nella repressione avvenuta subito dopo la caduta dell’apartheid, proprio per mano di quel De Klerk che ha avuto il Nobel per la pace con Mandela, e a causa della guerra politica tra l’ANC e l’Inkhata Freedom Party, il partito Zulù che non aveva accettato la vittoria dell’ANC. Si parla di ventimila mila tra morti e scomparsi nei dieci anni dopo la caduta dell’apartheid. I neri fuggono dall’insicurezza delle città, dal pericolo di essere oggetto di furia e aggressioni da parte di altri neri e coloured. Le loro township sono considerate le più pericolose. È una storia complessa, raccontata magistralmente in tono tragicomico in Born a CrimeNato come crimine da Trevor Noah, il divertentissimo anchorman che oggi vive negli USA e anima il Daily Show su Comedy Central. Fuggono i bianchi, anche quelli che si sono battuti con Mandela, sia quelli progressisti che vogliono cambiare il paese, sia quelli che si stanno prodigando per risanare l’economia e hanno inventato nuove produzioni sostenibili. Fuggono perché sono tartassati dalle imposte, mentre i figli hanno pochissimo accesso alle università. La questione del colore, rovesciata, ma poi mica tanto, continua ad essere determinante.

 

Quelli tra i black che ce l’hanno fatta vengono odiati dalla maggioranza black e apostrofati “coconut”, neri di fuori come il cocco ma bianchi dentro; i meticci, i coloured vengono chiamati “yellowbone”, ossa gialle, rispetto ai “blackbone”, le ossa nere dei black al 100%. Il colore della pelle è ancora il criterio per avere più o meno diritti ed è la causa principale della violenza interrazziale. In parlamento, una parlamentare bianca si è lamentata che in spiaggia ci fossero tante scimmie, intendendo i black. È stata subito espulsa dal parlamento e dal paese. Ma un parlamentare nero le ha risposto dicendo che i bianchi andrebbero tutti cacciati e che a parecchi di loro bisognerebbe tagliare la lingua. La questione della violenza è qualcosa che è difficile affrontare. Mandela è stato accusato di avere coperto gli omicidi organizzati dalla sua ex moglie, Winnie Mandela, con la tecnica atroce del necklace, del laccio intorno al collo. Omicidi che fanno parte del pre ma anche del post-aparthied. La violenza la si sente nell’aria soprattutto a Joburg, anche se vi dicono che in buona parte è normale per un paese che ha subito secoli di vera violenza bianca.

 

Anche i neri però vogliono andar via perché è come se le grandi masse black liberate non vedano di buon occhio chi emerge, chi si smarca dalla maggioranza e quindi automaticamente diventa parte di quella “negroland” di cui parla Mago Jefferson in Negroland, confessioni di una borghese afroamericana. Nessuno come Nadine Gordimer ha raccontato gli anni dopo la caduta dell’apartheid. Nello struggente Ora o mai più una giovane coppia mista, lei nera, lui bianco, entrambi militanti, decidono che il loro paese non è più un posto in cui vivere, proprio perché in una coppia mista le contraddizioni, i pregiudizi, le rabbie esterne e i problemi interni sono più pesanti. 

 

 

Perché sono venuto qui? Per un progetto di formazione degli studenti dell’Università di Slow Food. Questo comporta che essi incontrino presidi e persone che lavorano in altri paesi connessi alla stessa filosofia: sicurezza alimentare, sostenibilità ambientale e giustizia sociale. E attraversare Johannesburg tra farmer, butcher, macellai di carni allevate senza additivi pesanti, produttori di birra bianchi e neri, ma anche gardener a Soweto, chef neri e imprenditori di locali nella fascia più pericolosa tra le township, è stata un’esperienza formidabile. Un Sudafrica che cerca di attraversare il buio e di scrollarsi di dosso la corruzione politica, ma anche il fatalismo degli assistiti. Due magnifici personaggi, Caroline, una butcher, bianca, figlia e nipote di macellai, che ha deciso di salvare la competenza che esiste tra i neri riguardo alla carne – i black vanno pazzi per il “braj”, il bbq, che è il momento di vera socializzazione di tutto il paese – e allo stesso tempo è l’animatrice di Slow Food in Sudafrica. E poi c’è Calvin, un giovane nero di Soweto che ha lanciato un movimento per il recupero degli spazi abbandonati a Soweto e per la loro trasformazione in orti che diano da mangiare agli studenti delle scuole. In un paese in cui la Del Monte e le altre enormi multinazionali dell’agricoltura obbligano tutti a comprare i semi geneticamente modificati e in cui l’alimentazione è tutta ogm, con l’effetto di milioni di persone affette da obesità e da diabete. E poi siamo andati nelle zone rurali, soprattutto nel Limpopo a vedere l’altra faccia del paese, quello tutto nero, che è molto più rilassato e cordiale di Joburg (“risposta armata” viene scritto su ogni cancello chiuso), senza fili spinati e guardie armate.

 

La campagna è piena delle tradizioni delle tribù Tsonga, Xhosa, Ndebele, Zulu (in Sudafrica ci sono ventidue lingue africane e alcune di esse mantengono le tracce delle lingue degli antenati khoi-khoi e San prima che i bianchi li cacciassero e distruggessero il loro modo di vita rendendoli schiavi. Alcune lingue hanno gli schiocchi – x, q, ! –, che affascinano i linguisti, e sono legati alla incredibile cosmologia di antichi regni e di millenari nomadismi). In campagna abbiamo incontrato Themba, un giovane che anima il progetto “Diecimila orti” lanciato da Petrini qui qualche anno fa: un modo di mobilitare le donne, di metterle in cooperativa. Una bellissima mattina Themba ci ha portato dalle signore del sale, grandi madri che nei costumi Tsonga estraggono il sale dal letto di un fiume con una tecnica che sembra uscita fuori direttamente dal paleolitico e che è un presidio slow food Sale di Baleni. Con Themba abbiamo imparato molte cose andando in giro per mercati, partecipando ai “braj” e alle cene tribali dove il sistema alimentare locale ci veniva offerto come qualcosa da sperimentare direttamente nel suo contenuto simbolico e nutritivo: polenta “pap”, erbe selvatiche, larve di cicale, piatti di farina di arachidi e di zucca, manghi, e tutto ciò che tribù per tribù era cibo di festa o quotidiano. 

 

Alla domanda del perché sono qui veramente, devo però rispondere in altro modo. Sono qui perché ho deciso di voler capire cosa significa vivere in paesi in cui i neri non sono solo “ospiti” discendenti di schiavi o di colonizzati trapiantati nelle Americhe o in Europa. Volevo capire cosa significa essere neri come nativi, nero la cui casa è l’Africa. Cosa significa per un nero essere africano. Ho deciso di immergermi nelle realtà africane senza alcuna pretesa di fare cose utili, di mescolarmi o altro. No, vorrei soltanto stupirmi come mi è successo in Kenya qualche mese fa, dove sono stato approfittando di un altro progetto sull’alimentazione. Il cibo è una scusa, una chiave, un modo straordinario di entrare nel mondo africano, di infilarsi in esso senza fare troppo rumore. E lo stupore è arrivato, di fronte alla diversità, ma anche alla costanza, ai modi di pensare e di vivere, all’estetica africana, al quotidiano, che va dal modo di camminare delle donne al modo di danzare degli zulu che si lanciano all’indietro per cadere con le spalle a terra. È un mondo di sguardi, di risate, di scherzi, un mondo soave ma che può essere arrabbiato, serissimo. Quello che ho appena imparato è che non ne sappiamo  molto, e che più se ne sa, più profondo è lo stupore. È un omaggio a Michel Leiris, che queste cose le aveva provate nel suo lungo viaggio in Africa e le aveva annotate nel suo Afrique Fantôme. L’Africa come mondo che i bianchi possono capire e conoscere certamente, ma solo se si riescono a sbarazzare di qualunque pretesa di comandare, come è stato tragicamente nella storia degli ultimi secoli, ma anche di aiutare, come è stata l’illusione distruttiva degli aiuti allo sviluppo che hanno fatto tantissimo danno, forse più del neocolonialismo. E in cui il Sud Africa sta cadendo: in un mondo in cui “money” è la cosa più importante e la si vede come un “miracolo” che dovrebbe arrivare da fuori. 

 

A Gyani, in Limpopo, Themba ci accompagnava a vedere le decine di chiese nate come funghi in tutta la regione, chiese cristiane di qualunque tipo di setta che però sono accomunate da una stessa storia: un prete o un profeta che comincia a predicare invitando tutti a pregare per diventare ricchi. E il segno che il miracolo sta per arrivare è che il prete stesso è capace di comprarsi una Mercedes-Benz con i soldi dei fedeli. Il demonio, i demoni da cacciare con preghiere e rituali e un misto di stregoneria e medicine tradizionali devono lasciare il posto ai “money”, che sicuramente prima o poi pioveranno sui fedeli. È quella che gli antropologi sudafricani Comaroff, marito e moglie, chiamano nuovo capitalismo religioso. E non avviene solo qui, ma contemporaneamente in Russia, in America Latina e in Asia. E se il miracolo non arriva sarà sempre colpa di qualcuno.

 

Parte seconda

 

E ieri sfidando il vento a settanta chilometri orari sulla spiaggia di Clifton Beach a Capetown, un luogo che sembra strappato alla Costa Azzurra se non fosse per l’imponenza e la minacciosità dell’oceano e del kelp, delle immense alghe, pensavo che invece la caduta dell’apartheid si vede, eccome. Queste famiglie black con i loro bambini che affrontano la risacca, queste magnifiche fanciulle nere che si fanno i selfie in costume accanto alle palme, un matrimonio coloured celebrato sulla spiaggia. Deve essere davvero qualcosa per i quarantenni, per i cinquantenni che fino al ‘91 non potevano venire qui, non potevano frequentare i quartieri dei bianchi, i bar, i luoghi di ritrovo, la città. Adesso potersi muovere liberamente deve essere un piacere unico, da spiegare ai ventenni che non sanno cosa significava avere un pass che doveva essere timbrato all’uscita delle township e ritimbrato al rientro. Che non sanno che le famiglie dei coloured venivano rilocate in lontanissime periferie, agglomerati di baracche, e che spesso, visto che i figli non avevano lo stesso colore di pelle dei padri, venivano separate. Se uno pensa alla follia tutta afrikaaner e tutta olandese di queste leggi recentissime, degli anni ’60, vengono i brividi. Com’è possibile che un paese moderno che aveva abolito lo schiavismo abbia potuto concepire qualcosa che somiglia da vicino a immensi campi di concentramento? Nella logica delle township c’è una barbarie che a distanza di sessant’anni viene difficile da spiegare.

 

Barbarie british e afrikaneer messe insieme e spavaldamente, opposte alla condanna del resto del mondo, alle denunce delle Nazioni Unite. In realtà una complicità che vedeva Europa e Stati Uniti fare il doppio gioco. Rimane un mistero da spiegare però: com’è possibile che gli europei abbiano fatto un tale tragitto dentro la barbarie e a soli vent’anni di distanza dalla caduta del nazismo? Oggi è difficile perdonare tutto questo, anche se i giudizi del “Tribunale della riconciliazione” hanno cercato di far superare al paese questo orrendo passato prossimo. E se si pensa che i torturatori, gli assassini sono ancora a piede libero e che hanno raccontato con freddezza quello che fecero, allora si capisce la rabbia che cova ancora nel paese. Mandela è stato un grandissimo politico che aveva capito che la caduta dell’apartheid era legata alla capacità di gestire il negoziato, ma è stato anche un toccasana della coscienza europea. La sua non radicalità – però armata – ha permesso al paese di uscire dal Medioevo, ma sono per primi i bianchi a dovergli essere riconoscente per avere contribuito a voltare pagina. E un’altra cosa che si dimentica è che il governo nazista anglo-boero dell’apartheid è caduto anche grazie all’embargo e alla condanna del resto del mondo, per quanto ipocrita e parziale. Questo per ricordare che le pressioni internazionali contano molto.

 


Oggi a Capetown si capisce come potrebbe essere il Sud Africa del futuro: un posto bellissimo, con grandi e moderne infrastrutture, gestito bene, dove si può circolare per strada e frequentare la spiaggia. Però basta guardarsi intorno per vedere che per ora il prezzo di tutto questo è un’enorme spesa per la sicurezza, dove migliaia di guardie private sorvegliano locali e strade per consentire ai turisti di sentirsi in un posto normale. Capetown è l’opposto di Joburg da questo punto di vista, anche se Joburg è la capitale finanziaria e Capetown la vecchia capitale politica.

A Capetown ci sono le township, ci sono i coloured e ci sono gli homeless, ma probabilmente è il carattere piacione, il clima magnifico, il vento, i cieli veloci e la lentezza della città a rendere il tutto meno esasperato. Viene chiamata “Nine Months City”, perché ci vogliono almeno nove mesi per fare qualunque cosa.

 

In generale, entrare nella pelle di chi oggi, black o coloured, vive in Sudafrica significa provare il brivido, la vertigine di poter andare dovunque, di poter godere degli spazi e delle risorse di questo paese, per poi successivamente capire che c’è un apartheid molto più sottile che permane, che le township sono ancora lì, luogo di emarginazione per eccellenza, concepite come dormitori senza alcun luogo d’incontro, senza piazze, né servizi, né negozi. La grande politica del “township improvement” ha confermato e acuito la divisione spaziale. Anche se una classe media ha cominciato ad abitare i quartieri dei bianchi, anche se le spiagge oggi sono miste, veri quartieri misti fanno fatica a nascere e ci sono solo zone di confine in cui avviene una certa faticosa commistione. Un urbanista geniale e oggi molto famoso in Sudafrica, Edgard Pieterse, sostiene che il governo dovrebbe concentrarsi su queste aree di transizione, investire nella possibilità di convivenza. Le coppie miste neri e bianchi rimangono poche, mentre quelle tra le varie identità tribali nere sono da tempo uso comune. Il problema è che al fondo di tutto questo c’è un equivoco non chiarito. Solo un accesso effettivo alle risorse per bianchi, neri e coloured può formare una nuova classe dirigente mista, ma siamo ben lontani da questo, per ora. Quello a cui si assiste è l’emergere timido di un’imprenditoria dove i bianchi sono richiesti dai neri perché hanno più esperienza e accesso alle informazioni e dove i neri non vogliono la gestione delle imprese per non essere guardati dagli altri neri come quasi bianchi. Per aprire qualunque impresa però ci vogliono almeno i tre quarti di impiegati neri.

Oggi il mio barbiere su Long Street, “Widow Maker” (la sola scritta mi ha invogliato ad entrare, la bottega era piccola ma magnifica), mi spiegava che alla sicurezza ci tengono tutti e che sono gli stessi esercenti a pagarla. E mi ha rivelato qualcosa che avevo notato in questi giorni. Ci sono barboni, clochard che indossano il giubotto giallo dei guardiani e che in effetti sono pagati, pur ubriachi e ciondolanti, per farlo. Una strategia che funziona, per quanto chi li incontra non capisce mai se stiano chiedendoti qualcosa o indirizzandoti verso qualcosa. È l’aria di questa città caldissima e ventosissima, adesso prima di Natale, che rende tutti un po’ meno impauriti e spavaldi.

 

C’è un’atmosfera easy going che rende tutto godibile, come il bellissimo orto botanico al centro della città, il magnifico museo che ospita i grandi fotografi e la nuova arte etnica, i negozi che si concedono al turismo, ma anche alla qualità. E poi ci sono le librerie, fornitissime, affastellate dei libri di Coetzee e della Gordimer, ma anche di moltissimi altri autori antichi e di adesso. Della Gordimer è uscita una biografia mentre lei era in vita, No cold kitchen, di Donald Suresh Roberts, che lei ha contestato duramente. Le ha dato fastidio la descrizione del suo ruolo all’interno del governo di Mandela? L’essere stata troppo accondiscendente, avere coperto i casini che già da allora si profilavano nel governo? O invece a darle fastidio è stato l’aver pubblicato le lettere del marito a cui è rimasta accanto fino alla fine (di lui) pur avendo un affair da vent’anni con un uomo più giovane? D’altro canto la sensualità della sua scrittura, l’incredibile affezione per il desiderio, la caldissima maniera di raccontare le storie di sesso e di sentimenti, non fanno certo pensare a una donna rassegnata al “declino”. E i suoi ultimi libri, quelli scritti dopo che la biografia era già uscita, sono di una vivacità e di una sensualità sorprendente, come per esempio Ora o mai più o Beethoven era per un sedicesimo nero (c’è in questo volume un racconto magnifico su come lei si ri-incontrerà in un’altra vita con Edward Said, un uomo che ha molto amato, una grande dichiarazione di fede nella comunione dei santi – scrittori).

 

 

Il mio barbiere è per un sedicesimo siciliano, ma non si ricorda il cognome della nonna. E per il resto è molto mescolato, con altri bianchi, apparentemente. È simpatico, gioviale come potrebbe essere un californiano, ma senza alcuna affettazione californiana, come se la gente di qui avesse mantenuto uno spirito pionieristico. Finirò per innamorarmi di questa città, anche se Joburg mi fa pensare che molta parte della verità è altrove.

La cosa più forte dei giorni a Joburg è stata la visita allo chef Makalo e alla sua scuola di cucina per i ragazzi della vicina township di Midrand. È lui con la sua stazza da lottatore a condurci al Busy Corner. In pulmino ci descrive il crinale su cui corriamo che è sospeso tra la township di Midrand, tutta nera, ed Ebony Park, la township coloured in cui i neri non entrano per paura di essere derubati – a detta di Makalo. Quando arriviamo al Busy Corner, un enorme edificio con tetti a falda, grandi vetrate e tanto fumo che esce, l’effetto coprifuoco è sconcertante. Veniamo presi in carico dalla “sicurezza” black – questa volta in veste femminile, che ci scorta all’interno e ci fa accomodare in una zona leggermente discosta dalle altre. Intorno enormi barbecue, un bancone trasparente, con la scelta di tutta la carne possibile, e una folla di donne ed uomini black vestiti come se ci fosse una festa. E la festa c’è: l’Imbizo Shisaniama è un tipo speciale di “braj”, di barbecue, ed è una maniera di mangiare che significa essere neri a Joburg. Qui si mangia, si beve, si balla al ritmo del kweito, ma anche dell’hip hop e dell’elettronica. Siamo gli unici bianchi, oggetto di curiosità e di approcci tra lo sfottente e la sfida. Caroline la butcher, che ci ha organizzato le visite slow-food, ci racconterà che eravamo “custoditi” con particolare attenzione: qualche giorno prima era scoppiata una rissa e uno degli avventori era stato ucciso a coltellate. L’energia esplosiva si sentiva, sull’orlo di qualcosa, era sull’orlo che sedevamo, il limite tra due township tesissime. Quando usciamo “scortati” ci pregano di non allontanarci dal recinto, di non mettere nemmeno il naso fuori.

Joburg è il coprifuoco. Il mio barbiere mi dice che il Sudafrica è il primo mondo e il terzo mondo insieme: se fossi stato solo a Capetown non l’avrei mai capito.

 

Parte terza

 

Nel museum dell’Apartheid che si trova a Soweto, un capolavoro di come raccontare la storia di un paese e la storia della sua gente, si trova una ricostruzione ideale della cella che ha rinchiuso per una buona dozzina di anni a Robben Island Nelson Mandela (che tra una cosa e l’altra ne ha passati 27 in carcere). Si trova in un cortile esterno del museo, le mura rappresentate da una fitta intelaiatura di grate di ferro. C’è una panca e un’immagine, la riproduzione di una delle due foto che Mandela teneva in carcere. È l’immagine di una donna Xhosa, la tribù a cui Mandela apparteneva, che danza nuda. È una donna imponente e allo stesso tempo agile, con i grandi ma sodi seni al vento. È un’immagine che mette allegria, l’idea stessa della vita pulsante (l’altra foto era un ritratto di Winnie Mandela). Nella mostra dedicata a Mandela che si trova dentro al museo dell’Apartheid c’è un’osservazione che fa onore a tutto il museo. Si dice che Mandela, a differenza di figure come Gandhi a cui si ispirava – e che era cresciuto in Sudafrica e qui aveva elaborato la sua idea di lotta non-violenta e boicottaggio – non era un asceta. Quindi per lui stare chiuso per tanti anni in carcere deve essere stata una sofferenza indicibile. Ricordarsi che c’era la vita che lo aspettava doveva essere una specie di dovere nei confronti di sé stessi. Winnie era la seconda moglie, ma il suo rapporto con le donne era sempre stato di grande interesse – liberato si sposò per una terza volta – e così la sua curiosità per la musica, per la danza, per lo sport – era stato un pugile. Mandela aveva vissuto nelle township che erano allo stesso tempo un luogo di miseria ma anche di vitalità sorprendente – nel bene e nel male lo sono ancora, tutta l’innovazione musicale viene ancora da lì. Quindi l’immagine della donna nuda che balla è particolarmente significativa. E la mostra su Mandela si impegna a dimostrare che non era né un santo, né uno che aveva sempre ragione, un uomo normale, pieno di dubbi, tentennamenti e contraddizioni. Viene da pensare, mentre si gira tra queste sale, a personaggi simili ma di cui si è costruito il cenotafio in totale dispregio del loro lato autenticamente umano, Mao, Lenin, Castro. Per girare il Museo dell’Apartheid e la Mostra su Mandela ci vogliono tre ore piene, tra video, documenti, foto, ricostruzioni storiche e ricostruzioni di come si è formata l’opposizione nera, dal partito comunista all’ANC, all’African National Congress. E nonostante la presenza all’interno dell’ANC di alcuni bianchi, soprattutto dell’avvocato ebreo che sosteneva e difendeva gli arrestati, viene ribadito molto fortemente che all’interno del mondo “white” l’opposizione organizzata è stata sempre molto timida e incapace davvero di fare una qualunque differenza. I neri ce l’hanno fatta da soli, pagando di persona con migliaia di vittime e anni interminabili di torture e di carcere. A tutti viene ricordato che l’inizio della fine dell’apartheid è scoccato quando nel 1976 una manifestazione di giovani studenti di Soweto era scesa per strada per protestare contro l’abolizione dell’insegnamento in lingua locale, xhosa o zulu o ndebele e l’obbligo di insegnare in afrikaaner. La polizia aveva sparato ad altezza uomo, uccidendo un ragazzo di 15 anni, Hector Pieterson. Un fotografo presente Sam Nzima aveva colto la scena terribile di un altro giovane che teneva in braccio Hector morente e della sorella che urlava. La foto fece il giro del mondo e scosse la comunità internazionale rispetto alla follia boera e dei white south-afrikans. Tra l’altro il giovane che teneva in braccio, Mbuysha dovette scappare perché diventato lui stesso simbolo dell’anti-aparthied e l’ANC riuscì, pare, a farlo uscire dal paese. 

 

 

Andiamo in giro per Orlando West, questa parte di Soweto con Calvin che ci mostra gli orti che sta installando con un movimento di giovani negli spazi lasciati vuoti accanto alle scuole – oggi buona parte delle scuole di Soweto sono poco frequentate, i genitori neri preferiscono mandare i loro figli in scuole private, quelle pubbliche sono molto scarse nell’offerta di formazione. Con Calvin poi andiamo a casa di una famiglia con cui prepariamo uno schisa-nyama, la versione black del braj, del barbecue. Ed è un’occasione per farci raccontare qual è il cibo delle township: carne, salsicce, chakka-lakka, un’insalata marinata tagliata a pezzetti e piccantissima e pap, la polenta di farina di mais che è stato ed è lo “starch”, il cibo carboidrato base che riempie lo stomaco. Mentre siamo lì appare la birra tradizionale fermentata in casa in grandi bidoni di plastica, umqombothi. È una poltiglia compatta con un fondo liquido e acido che bisogna versare in bocca, passandoselo. Tradizionalmente è molto più che una birra, è un modo di interrogare gli antenati riguardo ai problemi domestici. È a loro che si offre questa bevanda sperando che ci aiutino e che poi ci lascino in pace. 

 

Ascoltando la padrona di casa sotto il tetto di lamiera rovente che ripara questa abitazione affollata – è stata rinnovata e ampliata con l’aiuto del fondo governativo, viene da pensare che le township che hanno una storia a volte di due secoli sono il modo con cui i bianchi hanno distrutto tra relocation forzate e gated communities l’enorme cultura nera che vi era in questo paese. Il patrimonio ricchissimo di lingue, di storia, di conoscenza del territorio, di medicina tradizionale, di allevamento ed agricoltura, di narrativa, di artigianato, di mitologia, tutto questo spazzato via dalla stupidità bianca e dalla convinzione che si potesse gestire un paese a a stramaggioranza nera con i campi di concentramento. Ma è un must del colonialismo, qui come in Kenya, la convinzione che bisogna ridurre i neri alla povertà culturale e alimentare estrema per piegarli. Oggi è di questo che soffre ancora il paese, per quanto le stesse township sono state e continuano ad essere un luogo di estrema creatività, come le storie di Sophietown, la township di Capetown rasa al suolo dai bianchi perché troppo vivace e oggi quelle di Gugulethu nella stessa Capetown e di Alexandra e di Soweto dimostrano. C’è un video molto bello prodotto dai nuovi gruppi musicali neri delle township che lo racconta, “Future Sound of Mzansi, 20 years into South Africa’s Democracy – welcome to the apartheid afterparty”. È il sound che viene fuori dalle township di Durban, Capetown e Joburg, un sound che nasce nel kweito che è un genere musicale lento e sincopato e poi si scatena nell’house e nell’elettronico al cui suono si balla fino all’alba. Buona parte di questi gruppi fanno la propria carriera come d-j nei parties e su YouTube – come racconta Trevor Noah nel suo “Born a crime”, anche lui ha fatto carriera come dj – e poi a volte raggiungono la scena londinese e internazionale. 

 

Una riflessione su questa maniera molto particolare di viaggiare attraverso “slow food” e le sue infinite connessioni in tutto il mondo, i presidi, i prodotti dell’arca, cioè quei prodotti che devono essere custoditi perché rappresentano un patrimonio di diversità alimentare, agricola, di allevamento, ambientale. Con gli studenti visitiamo birrerie artigianali, allevamenti di pecore “Pedi”, cioè una razza che appartiene all’etnia Pedi, dei farmers che producono formaggi a latte crudo, dei mercati rionali afrikaan e neri, le signore del Limpopo che fanno il sale su un fiume, le iniziative per i diecimila orti in zona Tsembha e così via. 

 

Il cibo, nelle sue componenti originarie, le risorse da cui proviene, e nelle sue trasformazioni culturali, gastronomia, sistemi alimentari, maniere di conservare, maniere di scambiare, è una finestra inedita, sì molto nuova per chi pensa di poter capire un posto. Perché col cibo arriva la vita quotidiana di un luogo e della sua gente, cioè il modo di entrare davvero dentro alla sua cultura. È una scusa, è un modo di partire da qualcosa di molto concreto per occuparsi poi del resto, ma è un modo efficacissimo. Lo vedo con gli studenti che mi accompagnano e che sono costretti a spalancarsi qui al mondo e alla sua complessità. Il Sud Africa è un posto particolarmente complesso, ma dalla birra domestica ai vermi – mopede – che si mangiano nel Limpopo è un modo di affacciarsi a una umanità inaspettata e di capire qual è la nostra responsabilità ma anche la nostra gioia partecipante a tutto questo. 

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