Andrea Dei Castaldi. Finistère

30 Novembre 2013

Goethe non era un neoclassicista frustrato. Giona Domizi avrebbe voluto urlarlo in faccia a quel grasso professore con i capelli unti appiccicati alla fronte. Avrebbe voluto urlare che l'università non è un luogo dove acquisire coscienza della propria individualità, ma solo dove parcheggiarsi per un po', illudendosi di essere speciali, fino a quando una pergamena dall'aria antiquata non suggella la fine degli anni in cui ci si può legittimamente sentire grandi in potenza. Ma Giona Domizi avrebbe voluto urlare più forte molte altre cose, che invece si teneva dentro, con il rischio di rimanerne soffocato. Davide, il fratello gemello, era morto durante l'inverno in un incidente stradale e a lui, il sopravvissuto, restava tutta la fatica di quelle cocciute funzioni vitali che proprio non volevano cessare di avanzare le loro quotidiane, onerose richieste. Finistère di Andrea Dei Castaldi è un libro che fa percepire la gravosità di essere vivi, ma anche la bellezza dei momenti in cui l'essere al mondo sembra la cosa giusta al momento giusto.

 

 

La sola cosa possibile. Momenti in cui, proprio nel dolore, si comprende il vero significato della parola “fratellanza”. Ed è così che gli incontri casuali, tra estranei, anche se non inaugurano un lungo e fruttuoso rapporto, mantengono intatto il loro valore qui e ora. Nell’unico momento che sfugge ai rimpianti e alle paure. C’è però un’aura di solitudine che allontana emotivamente il lettore e relega i personaggi ancora più a fondo nel loro ostinato isolamento. Giona è solo perché ha perso la sua complementare metà, quella estroversa e comunicativa, quella apparentemente più sicura, che portava avanti il gioco. Ma gli altri personaggi, con le loro storie parallele, non lo sono meno. Come Adele, che perde l'amato marito in mare o nonna Grazia, che sceglie di rinunciare all'amore più rassicurante, quello figliale.

 

In Finistère tutti perdono ciò che amano di più: o per disgrazia o per scelta o perché il proprio amore è macchiato di una colpa che neanche l’amore può assolvere. La coscienza è opaca e il guscio che avvolge i protagonisti è permeabile solo in alcuni rari momenti. Quasi infrangibile è il guscio di Elena, la donna amata da Davide, che sembra serbare il segreto della sua morte. Giona, per trovarla, arriva dove la Terra finisce, ma quando giunge alla meta scopre che nel corso del viaggio la meta è diventata un’altra cosa e che l’importanza della verità è spesso sopravvalutata. Il viaggio diventa così più autenticamente l'occasione per superare il senso di colpa e ritrovare la fiducia nel fatto stesso di essere al mondo.

 

Per acquisire, fuori dalla sterilità del mondo accademico, coscienza della propria individualità. Finistère è un bel romanzo, che si legge avidamente. Ed è bella anche la mission della neonata casa editrice Barta (Finistère è il loro primo titolo) che alla distinzione tra “letteratura colta” e “popolare” oppone la distinzione tra “bei libri e brutti libri; con tanti saluti anche alle distinzioni di genere”. In effetti, nonostante l'inizio un po' oscuro, Finistère non è un libro colto, ma non è neanche per tutti, almeno non per tutti allo stesso modo. E, alla fine, anche l’inizio criptico acquista il suo senso. Tutto si compie, anche se niente si risolve, ma proprio per questo l’impressione è che il viaggio sia stato solo l’inizio di una possibile ripartenza.

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