A. Lolli, "La guerra dei meme" / L'insostenibile ironia dei meme

1 Febbraio 2018

La situazione  ̶  affermava qualcuno  ̶  è grave, ma non seria.
È una frase che mi risuona in testa di continuo, ma quasi distrattamente, per fasi, pause e intermittenze. Un esempio: il presidente degli Stati Uniti ha gestito il teso rapporto con la Corea del Nord con un tweet ridicolmente minaccioso, nel quale affermava di avere un pulsante – un pulsante per il lancio di una testata nucleare – più grosso del rivale.

Ci siamo abituati; su questo brandello di realtà, sono poi stati fatti migliaia di meme e si è passato ad altro.


Donald Draws.

 

Non solo. KFC, la multinazionale di fast-food, ha colto il trend parodiando la tensione nucleare in una campagna di instant marketing con la quale vendere il proprio pollo fritto; nei panni di Kim-Jong-Un, Ronald McDonald. In Cina, intanto, si prepara il sistema di valutazione degli esseri umani, attraverso il quale assegnare loro un punteggio, proprio come visto in Black Mirror. È ironico. C’è questa patina acida di allucinazione collettiva sulle cose; i fatti sono gravi, ma nient’affatto seri. In un editoriale di fine anno in cui è accettabile usare toni più definitivi di quanto non si farebbe in un qualsiasi altro giorno, su Buzzfeed si leggeva che il 2017 è stato l’anno in cui Internet ha distrutto la nostra realtà condivisa.

Un modo abbastanza inutile ma curiosamente vero di definire una volta per tutte cosa sia questa stramaledetta realtà potrebbe essere che, beh, è il caotico, indistricabile, materiale attraverso cui vengono fatti i meme.
Le immaginette condivise online, coi saluti all’iconico duo farsa & tragedia, oggi sono qualcosa da prendere seriamente. Certo, è un gioco. Ma un gioco estremamente sofisticato (e serissimo, se è vero che i meme sono ormai cooptati nel marketing delle grandi aziende e nella comunicazione politica). Anche perché l’umorismo dei meme è soggetto a meccanismi di ricorsività ironica (i layers): posso dire una cosa ironicamente, ma posso anche dire ironicamente di dire una cosa ironicamente, e così all’infinito.

Per i tipi di Effequ, Alessandro Lolli ha pubblicato La guerra dei meme. Un bel saggio in cui indaga le origini, la semiotica e la cultura di questi manufatti digitali. Ma dato che la realtà stessa a volte sembra nient’altro che il canovaccio all’origine di diverse manifestazioni memetiche, Lolli non può fare a meno di scrivere, come riconosce Raffaele Alberto Ventura nella prefazione, un libro politico.

Il meme – sostiene – è quel fenomeno virale che non mira a riprodursi, ma a reinventarsi, ha dunque una semiotica peculiare. Mi spiega che esistono almeno due livelli per parlare di meme da un punto di vista semiotico: «Bisogna distinguere il meme dal viral, il classico contenuto virale, un video o una notizia. Il viral si riproduce sempre uguale, mentre il meme no. Nel meme c’è una parte fissa – il template o ‘cornice memetica’ – e una parte variabile, che viene continuamente rielaborata dagli utenti».
Ma questo è valido solo in parte. «Da un lato è vero che la maggior parte dei meme sono compositi, ma ci sono una serie di meme, come la trollface, che come i viral si riproducono sempre uguali. La definizione più precisa è che il viral ha senso in sé, mentre il meme ha senso per sé».


Anche nel caso della trollface parliamo di meme perché è un' affermazione di risposta a qualcuno. «Non condividi una trollface perché ti fa ridere quel disegnino, ma come un’affermazione. Quest’affermazione però è già codificata e dunque ha un range di senso che può variare entro certi parametri: il suo senso dipende dal contesto. In quel caso la parte variabile del meme è la sfera discorsiva generale: è la persona a cui stai rispondendo. Mentre la parte invariabile è la reaction face».
Questo li rende oggetti semiotici in cui il referente è irrilevante o perduto. Ma qual è, gli chiedo, il legame tra i livelli di ironia e il significato che possono trasmettere?
«Dico che il referente sia perduto perché spesso quando c’è un’immagine, oggetto dei meme, non stiamo veramente parlando di quella questione. Per esempio, hanno fatto i meme sulla testata di Spada. Ma sfruttano quella storia per fare delle battute che non hanno nulla a che vedere con la questione del fascismo. Non è satira, sfruttano un evento straordinario per fare umorismo».
 

(via Le colonne dell'Avanti)


Per i meme il mondo sembra più che altro un pretesto, e non è irrilevante, motivo per cui mi fa notare che si fanno allo stesso modo con le stock photo. «Sui layers invece è più sottile la cosa. La differenza che provo a porre tra il meme pre-ironico e il meme riflessivo è che c’è tutta una categoria di meme (i più utilizzati, perché i più intuitivi) che hanno una cornice che ne indirizza l’uso. Come le barzellette sui carabinieri. C’è un elemento codificato all’interno del quale si può fare un range di battute: il personaggio dei carabinieri simboleggia la stupidità e fai tutta una serie di battute intorno alle persone stupide. Però, con i meme c’è un elemento nuovo: quella stessa cornice diventa un personaggio. La sovverti, la contraddici, la fai interagire con altre cornici. Non è solamente un’indicazione prescrittiva ma diventa un elemento del gioco stesso e a questo punto ci sono i meme riflessivi, che poi possono essere ironici, post-ironici, meta-ironici».

Di per sé sono strumento comunicativo neutro, e anzi più che parlare del mondo, ne sfruttano i discorsi. Ma è anche vero che da come vengono usati gli strumenti si originano pratiche, usi, culture. Nel caso dei meme si è parlato moltissimo del legame con l’alt-right. L’avanguardia politica di Breitbart e Steve Bannon, al centro della vittoria di Donald Trump.

Donald Trump come Pepe the Frog.

 

Livelli di ironia o meno, la cultura online dei “maschi beta” di 4chan (parte della sottocultura nerd), scontrandosi con i guardiani del politically correct in una sorta di guerra culturale, ha finito per produrre i caratteri di una destra caratterizzata da un’autodenigrazione ironica. La strategia delle sinistre delle identity politics, nella cultura del chan, è usata dai maschi bianchi che, minoranza sconfitta dalla modernità, dovrebbero difendersi dallo strapotere sessuale delle donne e dal declino della mascolinità occidentale.

Quest'accozzaglia di gruppi reazionari, eterogenei ma uniti dalla lotta contro il mainstream – reale o percepito – del politicamente corretto, a furia di decostruire tutto ha generato una cultura apertamente filonazista, ironica, accettabile. Richard Spencer concludendo un comizio con Hail, Trump ha prontamente dichiarato che lui e tutto il suo pubblico erano ironici. Secondo Angela Nagle, l'alt-right differisce dalla vecchia destra statunitense per la sua capacità di assumere le estetiche, la trasgressione e l’anticoformismo delle controculture: «In un momento storico in cui la destra sembrava essere morta a causa della sua impopolarità (“uncoolness”), questa strategia di far sembrare la sinistra puritana e priva di ogni umorismo ha rappresentato una rivoluzione culturale non indifferente».
Lolli accusava Bispensiero, un memer nostrano (la cui pagina Facebook oggi è chiusa), di rappresentare la versione italiana dell’alt-right. Bispensiero si inseriva nei discorsi di stretta attualità, ma usava i diversi livelli di ironia per far collidere le narrazioni e contronarrazioni diverse. Ciononostante, Lolli scorgeva una tendenza di destra. Ma come si può fare un discorso politico al di sotto dei livelli di ironia?
«Bispensiero è paradigmatico perché è proprio quello che è accaduto con l’alt-right, in un contesto più ampio. Nel momento in cui ti fa un finto manifesto dell’Arci o di Casapound, non capisci più da che parte sta. Puoi ridere per tutta una serie di motivi, da destra a sinistra. Ma non si capisce cosa vuoi veicolare o mettere in discussione. Con questo livello massivo di ironia entra in crisi la possibilità stessa di affermare qualcosa. Ora: il discorso di sinistra, libertario, è sempre un discorso che deve darsi contro la realtà, contro l’ordine delle cose, ma quando è in crisi la possibilità stessa di dire qualcosa tu mi hai levato questa possibilità».

 

(via Layzo)

 

«Se non si può più articolare un dissenso, o un’altra visione del mondo perché viene ridicolizzata o resa indecifrabile, quello che ritroviamo sotto è il buon senso comune. Dopo che hai fatto il giro di tutti i livelli d’ironia, e non puoi decostruire niente, torni indietro alla lettura più semplice di tutte. Per esempio, sulla Boldrini fa chiaramente una satira sulla sinistra: c’è lei che dà la mano alle cose e queste diventano più politicamente corrette. Quando Bispensiero sceglie un oggetto ben definito, guarda caso prende in giro la sinistra istituzionale».
Lo stesso fervore all’origine di Occupy Wall Street – con la retorica sul ruolo progressista dei media digitali – sembra aver cambiato segno. Lo testimoniano la parabola politica di Assange, o certe figure dell’alt-right come Andrew Anglin, prima vegano e antirazzista, poi nazista; o Andrew Auernheimer, hacker e troll prima vicino a Occupy Wall Street, (forse) di origine ebraica e poi con una svastica tatuata sul cuore

Lolli identifica un collegamento tra 4chan, Anonymous e l’alt-right: «Nel libro ho individuato le tesi di due studiose, Gabriella Coleman e Angela Nagle. Entrambe riconoscono come Anonymous sia nato da 4chan. All’inizio era pura alt-right: c’era un immaginario maschile, di frustrazione generica dell’uomo comune. Poi è vero che dopo si è legato a Occupy Wall Street ed è diventato una cosa più grossa, anche perché hanno fatto entrismo hacktivisti di un’altra generazione. Coleman crede che Anonymous sia cresciuto oltre l’infantilismo di 4chan, mentre Nagle vede un’identità quasi completa con l’alt-right. Anche nel suo periodo più a sinistra, a nome di Anonymous venivano fatti raid contro poveri disgraziati. Secondo Nagle, la sottocultura del chan ha sempre fatto da basso continuo sotto tutte le sue creature politiche. Che da lì sia nata l’alt-right è quasi fisiologico. Sono le uscite più antagoniste, semmai, a essere anomale». Nagle evidenzia come l’alt-right abbia fatto suo quel genere di trasgressione che è associata alla sinistra. «Per lei si tratta di un accidente storico, cosa che io non sottoscriverei mai», precisa Lolli. «Sostiene che tutta la trasgressione non è né di destra, né di sinistra, ma quello che è successo dagli anni Sessanta in poi ce l’ha fatta identificare con la sinistra tout court. Oggi ci siamo resi conto che quella stessa postura può essere usata anche a destra».

Nella Guerra dei meme si parla di una confusione tra le istanze che tradizionalmente vengono associate alla destra e alla sinistra, ora più fluide, anche alla base di un discorso sulla sottocultura nerd e il genere. «I nerd», mi chiarisce l'autore, «fanno proprio l’adagio delle femministe: partono da sé, dalla loro autobiografia di adolescenti sfigati. Da qui sono usciti con una teoria politica che identificava come nemico non solo il coatto che li bullizzava e aveva successo con le donne, ma anche le donne stesse, ancora più colpevoli perché stanno col nemico. L’unica via d'uscita è quella di diventare a loro volta maschi alpha. Da qui nasce tutto il discorso della manosphere: dai maestri del rimorchio a tutte quelle persone che insegnano a diventare un duro in un mondo di duri». 

La sottocultura nerd è sempre più spesso oggetto di analisi. In un articolo apparso su Not, Jacopo Nacci dialogava esplicitamente con il libro di Lolli sul tema. Gli chiedo di spiegarmi perché ci sia una confusione sull’oggetto del loro risentimento, con conseguenza anche politiche. «Quell’articolo sostiene che il nerd è incapace di allegoria: è tutto dentro il mondo immaginario e lo prende seriamente. Ma nel momento in cui chiedi quali sono i significati trasmessi da Dragonball o dal Signore degli Anelli, ha prima di tutto il terrore della censura: ha paura che tu gli voglia chiudere il suo mondo immaginario perché ritieni, per esempio, che sia politicamente scorretto. Però questo è come se sterilizzasse ogni tentativo di politicizzazione vera di quei mondi, compresi i significati libertari che riusciamo a trovare nelle narrazioni nerd. Intendiamoci: non è che io creda che i nerd siano dannati. Nel libro cito Caparezza, che nel suo primissimo album era un individualista che sparava contro tutti (e forse un po’ più contro le donne). Poi però è riuscito benissimo a legare l’autonarrazione nerd a un sentimento di fratellanza di tutti gli oppressi: è questa la via da imboccare, secondo me, di fronte a cose come l’alt-right».

Per Ayesha Saddiqi “I bianchi si comportano come se i nerd fossero una razza”: una provocazione. Ma, da destra, porsi come una minoranza perseguitata ha funzionato. L’alt-right è la prima sottocultura statunitense ad aver visto diventare presidente il candidato che supportava. Proprio loro avanzano il sospetto che il meme possa essere intrinsecamente di destra: uno degli slogan dell’alt-right è che The left can’t meme

 

Lolli ne parla attraverso Jesi e Barthes: «Per l'alt-right il meme è incompatibile con l’etica di sinistra e quindi come forma d’arte è di destra. Jesi e Barthes hanno discusso del mito come meccanismo linguistico. E qui siamo di fronte al mito barthesiano. Per Barthes il mito è un linguaggio semiologico secondo, in cui c’è un intero senso costruito sotto la rappresentazione. Ma il senso sottostante non viene conosciuto da chi fruisce quella rappresentazione, che così diventa mitica. La narrazione nella sua costruzione diviene di natura non leggibile. È ingannevole e persuasiva. Il linguaggio del meme si fonda sull’ironia, che ha come caratteristica peculiare l’ambiguità. Ambiguità che mette in crisi la significazione univoca. Il meme è sì un sistema semiologico secondo, o terzo, perché sono multipli i riferimenti, dato che è sempre composto da un senso già dato. Ma c’è una differenza tra il mito di Barthes e il meme, perché il meme presuppone che il fruitore sappia di tutti questi significati per ridere, mentre il mito funziona laddove ti nasconde un senso non rivelato. Però ci sono meme che hanno una storia talmente confusa e stratificata che non si può più elaborare coscientemente la catena dei significati. Dunque, funzionano come il mito. Pepe the Frog, per fare un esempio».

 

Pepe the Frog, 2000-2016


Lolli scrive, infatti, che Pepe è contemporaneamente il re dei meme e la nuova svastica. Ma Jesi invece? «Jesi mi serve soprattutto per il concetto di macchina mitologica. È un dispositivo all’interno del discorso mitico per cui si allude sempre a un mito genuino. Il mito genuino si suppone sempre conosciuto da un gruppo esoterico. Ma questo mito genuino è una truffa: non c’è un vero significato primigenio. Questo dispositivo funziona solo fintanto che ti fa credere che ci sia dentro questo significato. Esattamente come l’alt-right ha posto Pepe come simbolo che allude al nazismo: “Noi sappiamo che la figura di Pepe non è nazista, ma ve lo facciamo credere e ne ridiamo perché voi non lo saprete mai”. Però su chi sia Pepe, cosa significhi, non c’è una risposta. Questo è proprio il meccanismo di discorso esoterico che Jesi descrive con la macchina mitologica. Il vero senso di Pepe è solo un espediente retorico prodotto dalla macchina mitologica: è un vuoto al centro del discorso che si continua a fingere pieno. Sbagliano alcuni che parlano di mito tecnicizzato e mito genuino: non c’è nessun mito genuino, quello era il trucco che Jesi supera in Cultura di destra».

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