In memoria di Marco Pantani

4 Agosto 2014

Finalmente! Dopo dieci anni, in cui abbiamo ammirato la tenacia incrollabile con la quale Tonina Pantani ha gridato che no, suo figlio non si era suicidato; dopo che Philippe Brunel, giornalista dell’Equipe e raffinato scrittore, aveva smontato pezzo per pezzo quell’inchiesta così frettolosa, e aveva dimostrato, nel suo Vie et mort de Marco Pantani (pubblicato in Italia da Rizzoli nel 2008 col titolo Gli ultimi giorni di Marco Pantani, aperto da una bellissima prefazione di Gianni Mura), che troppi segni non erano stati presi in considerazione dalla magistratura; dopo che nel 2012 avevo scritto e messo in scena Pantani, con il mio Teatro delle Albe, pubblicato da Luca Sossella Editore, e dopo aver portato lo spettacolo in giro in tutta Italia e non solo; finalmente uno spiraglio di luce. Finalmente un colpo di scena. Si riapre il caso: la Procura di Rimini ha riaperto una nuova inchiesta sulla morte del grande campione, la stessa che all’epoca aveva condotto le indagini con una fretta sospetta, arrivando a definire l’accaduto un semplice incidente, causato dall’overdose di cocaina. Caso riaperto e ipotesi di omicidio volontario a carico di ignoti.

Prima di tutto, onore ai genitori, Tonina e Paolo: in questi anni ho spesso sentito battute ironiche e acide contro quella coppia che non si rassegnava, soprattutto contro l’irruenza di Tonina, questa Ecuba in veste di piadinara romagnola: frasi che però nessuno si arrischiava a pronunciare dopo aver assistito al nostro “rito della memoria”, dove a Tonina abbiamo dato il rilievo che merita. La sua furia è sempre stata una pura ricerca di verità, e accanto a lei la figura sofferente e silenziosa di Paolo. L’ironia e la crudeltà nascono spesso dall’ignoranza: è facile, a distanza, non sapendo, basandosi su due titoli di giornale, ferire le persone e i loro sentimenti con gratuite cattiverie da bar. Ce ne siamo accorti confrontandoci con il pubblico in tutta la penisola, da Milano a Cagliari, da Napoli a Bolzano, in tutte le città della Romagna: i più entravano in teatro con una facile verità in tasca, quella del “dopato d’Italia” che muore “drogato e solo come un barbone” in un residence di Rimini (dove una “malattia” è automatica conseguenza dell’altra), gli stessi spettatori uscivano da teatro con la consapevolezza che quella storia era una vicenda ben più complessa, una storia oscura, del tutto italiana, come le vicende di Ustica e di Bologna (di cui ricorre proprio oggi il tragico anniversario), come la morte di Pasolini, vicende in cui occorre aspettare decenni perché la verità sbandierata dai media e dalle istituzioni si sgretoli pian piano, facendo intravedere un’altra storia. Come un affresco su un muro antico che copra un altro, precedente, misterioso disegno.

Finalmente la svolta tanto attesa: “prego Dio”, mi disse una volta Tonina, “di morire dopo che avrò visto un po’ di giustizia per mio figlio”. Bene, sta cominciando a vederla. La svolta tanto attesa è maturata negli ultimi mesi; l’avvocato Antonio de Rensis, per conto della famiglia, ha accumulato una serie impressionante di contraddizioni e anomalie, studiando i faldoni sia delle indagini sia quelli relativi al processo, e su queste anomalie i quotidiani nazionali e le televisioni sono oggi prodighi di particolari e ce li presentano come “ clamorose novità”. Ma sono le stesse di cui Tonina aveva già parlato in tante interviste! Le stesse che Brunel aveva già denunciato e approfondito nel 2008! Sono le stesse che noi abbiamo sottolineato nel nostro spettacolo, in un centinaio di repliche e davanti a migliaia di spettatori! Che non furono mai prese le impronte digitali nella stanza; che c’erano degli indumenti di Pantani che lui non si era portato dietro da Milano in quei cinque giorni al Residence, dove era arrivato senza valigia, senza niente; che c’erano degli avanzi di cibo di un ristorante cinese, un cibo che lui, asserragliato in quella stanza da cui non era mai uscito, non aveva ordinato alla reception; che aveva chiesto aiuto alla reception poche ore prima di morire, e per ben due volte, angosciato, “che chiamassero i carabinieri”, che c’era gente che lo disturbava; e mi fermo qui, ma ce ne sono ancora altre di anomalie e di buchi neri, “c’è qualcosa che non mi torna”, ripete spesso l’Inquieto, una figura di giornalista senza nome che nel nostro Pantani in parte è Brunel, in parte il sottoscritto, in parte tutti coloro che resistono inquieti, inappagati davanti alle verità ufficiali. Che non accettano la leggenda nera costruita attorno a uno degli atleti più grandi del nostro sport.

Che cosa è veramente accaduto il 14 febbraio 2004, giorno di San Valentino, al residence Le Rose di Rimini? Ecco, i giochi sono finalmente riaperti. Marco Pantani, nell’ultimo periodo della sua vita, chiedeva spesso all’amica Elisa: “cosa resterà di me? La mia memoria, dopo la mia morte: cosa resterà?”. Mi ha sempre commosso l’ansia di questo ragazzo di poco più di trent’anni torturato dalla persistenza della “memoria” in un’epoca come la nostra, incapace di memoria, incapace di custodirla, che brucia tutto nei proverbiali quindici minuti alla Warhol. Pantani in quel momento alludeva non tanto alla sua morte biologica, quanto a quella sportiva, cui era stato condannato da un sistema mediatico portato alla lapidazione, e prima ancora da pesantissime responsabilità delle istituzioni del ciclismo. La sua intera carriera era stata rovinata e messa in dubbio da un solo esame, quello del 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, esame che gli rubò un Giro d’Italia già vinto, esame che poi si rivelò “inattendibile”: era quell’onta che il campione non aveva potuto sopportare, lui che in tutta la sua vicenda ciclistica non era mai risultato positivo ad alcun controllo antidoping. Quel suo corpo patiens, sofferente e in volo sulla montagna, un capro espiatorio “imperfetto”, direbbe René Girard, perché non ha mai accettato la condanna ingiusta del coro, quel suo profilo di italiano antico, continuano ad attraversare l’immaginario della Nazione: a partire da oggi, anche i magistrati tenteranno di fare il loro dovere, indagando sul fango che ha oscurato la sua memoria. E mi sembra un doppio segno di buon augurio, che questo avvenga nei giorni della bellissima vittoria del siciliano Vincenzo Nibali al Tour, sedici anni dopo l’impresa del romagnolo, e che anche a Pantani egli abbia dedicato la sua vittoria. “Cosa resterà di me? La mia memoria, dopo la mia morte: cosa resterà?”.

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