Conversazione con Massimiliano Gioni / Diventare curatore: Cultura, Pubblico, Network

16 Gennaio 2017

43 anni, italiano di nascita e newyorkese di adozione, attualmente è direttore artistico della Fondazione Nicola Trussardi di Milano e Artistic Director del New Museum di New York. Sua è la curatela della Biennale d’arte contemporanea itinerante Manifesta (2004) così come delle Biennali di Berlino (2006), di Gwangju (2010) e di Venezia (2013). Brillante, eclettico, perfezionista, concepisce e realizza progetti espositivi pressoché ineccepibili. Si tratta dell’enfant prodige, ormai diventato adulto, Massimiliano Gioni.

Se volessimo rintracciare gli elementi-guida del suo operare da curatore, potremmo forse individuarli in Cultura, Pubblico, Network. 

 

Cultura perché Gioni è uno storico dell’arte coltissimo che intesse le sue mostre di molteplici riferimenti ad artisti, scrittori, filosofi, musicisti, registi, architetti. Si pensi al Palazzo Enciclopedico, progetto curatoriale per la 55a Biennale di Venezia del 2013 ispirato al museo immaginario che l’artista Marino Auriti ideò nel 1955 per ospitare tutto il sapere dell’umanità. E si pensi anche alla mostra La Grande Madre, inaugurata nel 2015 a Palazzo Reale di Milano, che faceva riferimento a testi quali Nato di donna di Adrienne Rich, Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi e Secondo sesso di Simone de Beauvoir. 

Ma l’arricchimento intellettuale indotto dalle esposizioni curate da Gioni si associa sempre al desiderio che l’arte si avvicini maggiormente al grande pubblico. Da qui la scelta, fatta per la Fondazione Nicola Trussardi, di proporre mostre che utilizzino la città come museo gratuito. 

 

Cultura + Pubblico = Network. L’arte per Gioni corrisponde a un network (o crocevia) di input derivanti dalla cultura che l’ha generata e dall’esperienza di chi la fruisce. 

Anziché affrontare i progetti da lui curati, in questa occasione si preferisce chiedergli di svelarci ciò che è meno noto, ovvero il percorso attraverso cui il giovane Massimiliano, nato e cresciuto a Busto Arsizio (Milano), si è avvicinato alla pratica curatoriale, divenendo in poco tempo il Gioni dell’arte contemporanea. Nessun’altra domanda, dunque, e una sola risposta; o meglio, un unico stream of consciousness derivato da una conversazione con me e qui di seguito trascritta.

 

La Grande Madre, mostra promossa da Comune di Milano | Cultura, ideata e prodotta dalla Fondazione Nicola Trussardi insieme a Palazzo Reale, Palazzo Reale, Milano 26 agosto – 15 novembre 2015. Photo Marco De Scalzi. Courtesy Fondazione Nicola Trussardi, Milano.

 

La ricostruzione delle vicende del passato è sempre svolta a posteriori: non possiamo quindi sapere quanto sia accurata e realista, o sia piuttosto una proiezione di memorie personali, più o meno selettive. 

Nella mia famiglia non c’era nessun particolare interesse nei confronti dell’arte contemporanea – mia madre faceva la maestra, mio padre lavorava in una fabbrica di inchiostro –, ma quando andavamo in vacanza capitava di visitare musei, chiese e monumenti.

Il mio avvicinamento all’arte contemporanea è stato fortuito. 

In terza media, come argomento della tesina da presentare all’esame, scelgo la Guerra del Vietnam, credo a seguito di alcuni film che avevo visto in quel periodo, primo su tutti credo Il cacciatore di Michael Cimino che mi ricordo avevo visto in visione accompagnata dai genitori… Andando in biblioteca per svolgere quella ricerca incappo nella traduzione italiana dell’antologia di Lucy Lippard sulla Pop Art, volume che mi colpisce moltissimo essendo ricco di illustrazioni di cui però all’epoca non so nulla (in copertina era pubblicato Odol di Stuart Devis e all’interno immagini di opere di Warhol, Lichtestein, Rosenquist…). 

 

Dopo l’esame di terza media mi iscrivo al liceo classico. Durante il ginnasio, grazie ad amici, mi avvicino alla musica alternativa e a un’idea non solo di musica ma anche di comportamenti non conformisti che includono un interesse per il cinema d’autore, per un certo tipo di letteratura d’avanguardia, e non ultimo per l’arte. Numerose band musicali di quel periodo fanno infatti chiaro riferimento all’arte: ascoltare i Talking Heads, ad esempio, significa sentir parlare di Andy Warhol. Mi ricordo inoltre che il primo quadro di Gerhard Richter che ho visto è stato quello pubblicato sulla copertina di Daydream Nation (1988) dei Sonic Youth.

In quegli anni c’è anche la cultura dei fumetti d’autore, e dunque delle riviste come “Frigidaire”, “Corto Maltese”, “Linus”, grazie alle quali si può sviluppare una sensibilità nei confronti dell’arte: in una delle pagine di apertura di Pentothal, ad esempio, Andrea Pazienza cita il Manifesto del Signor Antipyrine di Tristan Tzara. Pur non conoscendoli, già allora vengo così a sapere dell’esistenza del Futurismo, del Dadaismo, del Surrealismo. 

 

Da qui la mia frequentazione della biblioteca per cercare libri come I manifesti del Surrealismo nell’edizione di Einaudi, oppure l’antologia sul Futurismo e l’antologia sul Dadaismo che mi ricordo ancora edite rispettivamente da Garzanti ed Einaudi. Abitando in provincia, non c’era occasione per vedere mostre e quadri dal vero, e per questo i libri, i fumetti e la musica in un certo senso erano ancora più importanti.

Sempre durante il ginnasio, attorno ai quindici anni, inizio a guardare “Flash Art” perché arrivava dal giornalaio in Piazza Garibaldi a Busto Arsizio. Con alcuni amici vado spesso anche al Carù di Gallarate, un negozio di dischi, libri, riviste alternative per acquistare dischi in società, creando una sorta di biblioteca condivisa: duplichiamo ogni disco acquistato in modo che ciascuno di noi abbia la sua copia e a turno tenga il vinile originale. Con quei miei amici, una volta a settimana, vedo inoltre film classici del cinema d’autore e del cinema sperimentale. 

 

Michael Elmgreen & Ingar Dragset, Short Cut, 2003, tecnica mista, Fiat Uno, roulotte, 250 x 850 x 300 cm, commissionato e prodotto da Fondazione Nicola Trussardi. Veduta dell’installazione: Ottagono, Galleria Vittorio Emanuele, Milano 7 maggio – 4 giugno 2003. Photo Jens Ziehe. Courtesy Michael Elmgreen & Ingar Dragset; Galleria Massimo De Carlo, Milano.

 

Da qui nasce l’idea di vedere i film di Warhol che però non si trovavano in nessun negozio. Ne vediamo uno a casa, prendendolo a noleggio, credo Chelsea Girls ma desiderando vederne altri, provo a chiedere aiuto al mio insegnante di storia dell’arte che mi suggerisce di rivolgermi alla Cineteca di Milano. Alla Cineteca di Milano vedo, tra i molti, L’âge d’or di Buñuel e Entr’acte di Picabia, ma non i film di Warhol che avrei visto solo qualche anno dopo.

Successivamente, credo per prossimità fisica – la cineteca era in via Manin accanto a via Palestro – inizio ad andare al PAC e a vedere le mostre.

Ulteriori momenti per me formativi importanti sono anche il viaggio a Parigi regalato da mia zia per andare a vedere il Musée d’Orsay, e la visita alla mostra di Warhol a Palazzo Grassi. All’epoca poi iniziavo a comprare un sacco di libri e cataloghi in tanti remainders e librerie: mi ricordo che vicino alla Borsa del Fumetto a Milano c’erano molte librerie dove iniziavo a spulciare cataloghi d’arte moderna e contemporanea. 

 

Terminata la prima liceo vinco una borsa di studio e vado a vivere per due anni in Canada, a Vancouver Island, un’isola non lontana da Vancouver che all’epoca a confronto di Milano mi sembrava una metropoli molto internazionale. La scuola canadese che frequento, a differenza delle scuole italiane, prevede un’esposizione a una cultura cosmopolita (ci sono persone provenienti da tutto il mondo) e un’idea di cultura che include anche il contemporaneo: è normale visitare mostre nelle gallerie o andare al cinema, e nella biblioteca della scuola si possono consultare riviste come “Art in America”, “Artforum” e anche il libro di Lucy Lippard Six Years: The Dematerialization of the Art Object da cui, mi ricordo, rimango molto colpito essendo una sorta di mostra su carta, un regesto di informazioni e fotografie.

La mia scuola canadese prevede che ogni studente, a metà tra il primo e il secondo anno, scelga le materie da approfondire e presenti una tesina: io decido di farla sull’arte. In quel momento si verifica una coincidenza interessante: mio papà mi propone di incontrare il proprietario dell’azienda di inchiostri per cui lavora, Alessandro Grassi, un collezionista soprattutto di Transavanguardia. Lo incontro, vedo la sua collezione e Grassi mi suggerisce di conoscere Emilio Mazzoli.

 

Maurizio Cattelan, Untitled, 2004, tecnica mista, life size. Veduta dell’installazione: Piazza XXIV Maggio, Milano
 5 maggio – 6 giugno 2004. Photo Attilio Maranzano. Courtesy Fondazione Nicola Trussardi, Milano.

 

Lo chiama e io vado a Modena per incontrarlo, ma Mazzoli arriva in galleria con due ore di ritardo e, sentendosi in colpa per avermi fatto aspettare, mi regala molti dei suoi libri a tiratura limitata dedicati agli artisti della Transavanguardia, parte di una collana diretta da Bonito Oliva. A seguito di questo incontro, decido che la mia tesina per la scuola canadese sarà sulla Transavanguardia e, nello specifico, sulla citazione nella Transavanguardia. In quel momento capisco che l’arte contemporanea è la mia passione. 

 

Terminata la scuola canadese, torno in Italia per frequentare l’università e scelgo di iscrivermi al DAMS di Bologna perché ha la cattedra di storia dell’arte più antica in Italia, perché permette di studiare quella materia in una visione più filosofica e perché penso ci sia un’apertura maggiore al contemporaneo. A Bologna c’era anche un tessuto di gallerie private e una storia importante legata all’arte contemporanea italiana, dall’informale all’arte povera e oltre: al principio degli anni Novanta erano anche gli anni della galleria Neon e di tanti altri artisti attivi in città. E poi c’era la galleria di arte moderna e Villa delle Rose ed era facile vedere mostre anche di qualità. 

 

Il mio piano è quello di studiare Storia dell’arte a Bologna, diventare professore di Storia dell’arte antica e occuparmi autonomamente di arte contemporanea facendo il critico, cioè scrivendo, interpretando, raccontando, sicuro però di non potermi mantenere solo con la critica. L’idea di fare il curatore arriverà molto, molto più tardi: negli anni Novanta non sono nemmeno a conoscenza della parola “curatore” in quanto la figura di riferimento di allora è il critico militante, alla stregua di Bonito Oliva e Germano Celant o dell’americana Lucy Lippard i cui libri mi avevano sempre colpito.

 

Urs Fischer, House of Bread, 2004, pane, legno, polistirolo, lampade, 533 x 472 x 366 cm. Veduta dell’installazione: Istituto dei Ciechi, Milano 3 maggio – 1 giugno 2005
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Conosco gli scritti di Bonito Oliva e Celant sfogliando “Flash art” e le riviste d’arte. Ricordo che il libro Arte povera, che avevo visto in Canada per la prima volta, lo compro su una bancarella a Bologna, mentre un altro libro per me importante in quegli anni è Arte di Frontiera (1984) di Francesca Alinovi. 

Durante l’università visito le mostre per poi magari scrivere una recensione solo per me, nella speranza di lavorare prima o poi per “Flash Art”. Pian piano inizio a pensare che il mio obiettivo è scrivere proprio su “Flash Art”, ma che nel frattempo devo fare altri lavori per mantenermi. Grazie a una coincidenza fortuita, un mio caro amico comincia a lavorare per varie case editrici di Milano, per poi diventare redattore per la casa editrice Ubulibri: è attraverso di lui che inizio a lavorare per molte case editrici, a imparare come si realizzano i libri, a fare traduzioni per una collana di architettura, ma al contempo, per potermi mantenere, scrivo tesi di laurea su arte e architettura per altri studenti e divento traduttore degli “Armony”, i romanzi rosa. Di questi libri ne riuscivo a tradurre fino a tre al mese con gravi effetti collaterali sulla mia evoluzione emotiva e linguistica. 

 

Paola Pivi, Interesting, 2006, animali bianchi, life size, prodotto da Fondazione Nicola Trussardi, Milano. Special Thanks to Galerie Emmanuel Perrotin, Parigi. Veduta espositiva: Vecchi Magazzini, Stazione di Porta Genova, Milano 14 novembre – 10 dicembre 2006. Photo Hugo Glendinning.

 

Nel 1993 visito la Biennale di Venezia curata da Achille Bonito Oliva che mi colpisce molto perché, anche grazie alla mia assidua lettura di “Flash Art”, è la prima grande mostra che vedo e di cui inizio a capire le premesse e le conseguenze in maniera più completa. Era una mostra gigante e che avrebbe consacrato un’intera nuova generazione di artisti e curatori.

Più o meno intorno al 1996 credo, insieme a un amico, Fabio Paracchini, decido di fondare una rivista: “TRAX – Cultura, arte, musica, spettacolo”. L’idea commercialmente suicida è quella di diffondere gratuitamente online contenuti intelligenti sull’arte e la letteratura e di presentare, in assoluta controtendenza, testi, immagini e materiali da condividere. Ottenuti i primi segnali di approvazione e incoraggiamento, contatto alcuni giovani curatori come Hans-Ulrich Obrist a cui chiedo di poter tradurre una sua intervista. Pubblichiamo inoltre la prima recensione in Italia di Infinite West di David Foster Wallace di cui pubblichiamo anche un brevissimo racconto. Per noi scrivono sul teatro Oliviero Ponte Di Pino, sulla musica Michele Porzio, di letteratura Edoardo Nesi e tutto questo gratis, naturalmente… Attraverso la rivista inizio anche a conoscere persone legate all’arte contemporanea e vicine alla mia generazione. 

 

Alcuni partecipanti all’esposizione di Tino Sehgal per la Fondazione Nicola Trussardi, Villa Reale, Milano 11 novembre – 4 dicembre 2008. Photo Marco De Scalzi.

 

Il critico e curatore Gianni Romano è tra le prime persone che conosco, perché legge e si appassiona a “Trax”: mi incoraggia a lavorare, e, scrivendo lui su “Flash Art”, parla di me a Giancarlo Politi, l’editore di “Flash Art”. Nel 1997 – credo – divento così redattore di “Flash Art”. A quel punto pensavo che forse sarei riuscito a mantenermi con l’editoria, e che non sarebbe stato più necessario insegnare storia dell’arte alle superiori, e che avrei fatto il critico a tempo pieno, mantenendomi però con due o tre lavori in contemporanea per varie case editrici. 

In quel momento succede però qualcosa nel mondo contemporaneo dell’arte che probabilmente si era sviluppato a partire dall’edizione di Aperto del 1993 curata da Helena Kontova. Bonito Oliva, direttore della Biennale di Venezia del 1993, aveva deciso di affiancare alla mostra alcune “sottomostre” e aveva affidato la sezione giovani – allora nota come Aperto – a Helena Kontova, la quale aveva a sua volta invitato 10-15 curatori internazionali fra cui Francesco Bonami, Jeffrey Deitch, Nicolas Bourriaud e Matthew Slotover. In un certo senso si potrebbe dire che in quel momento era nata la figura del curatore e quando inizio a lavorare a “Flash Art” è il momento in cui la generazione di giovani critici di Aperto sta diventando la nuova leva di una forma di fare critica che non si esprime più nel saggio o nel libro, ma che si esprime nelle mostre e che si muove su un panorama internazionale. A lanciare il termine di curatore al di fuori del solo mondo di specialisti, sarà però nel 1998 la pubblicazione del volume Cream da parte di Phaidon. 

 

Peter Fischli & David Weiss, Parts of a Film with Rat and Bear, 2008, video, 54’, Italia e Giappone, still da video, camera Pio Corradi, musica Stephan Wittwer, prodotto con il supporto della Fondazione Nicola Trussardi. Palazzo Litta, Milano 30 gennaio – 16 marzo 2008. © Peter Fischli e David Weiss. Courtesy Peter Fischli e David Weiss; Sprüth Magers, Berlino/Londra; Galerie Eva Presenhuber, Zurigo; Matthew Marks Gallery, New York.

 

Grazie a questi fatti, esperienze e letture inizio a capire che esiste una figura, l’organizzatore di mostre, diversa dalla figura del critico; capisco anche che, retrospettivamente, gli stessi Bonito Oliva, Celant, Lucy Lippard in realtà sono curatori perché hanno scritto ma al contempo ideato le esposizioni, così come, in fondo, in un certo senso gli stessi André Breton e Tristan Tzara erano stati critici, curatori, organizzatori e aizzatori di idee e mostre. È intorno a questo periodo che inizio a pensare che fare il curatore è una forma di “critica d’azione”: organizzare una mostra per esprimere un’idea e supportare l’artista nella produzione e realizzazione di essa, è un fare più propositivo e fattivo rispetto al giudizio discriminatorio fra bello e brutto che corrisponde invece alla funzione del critico. 

 

Intanto, lavorando a “Flash Art”, i miei orizzonti e contatti si espandono: inizio così a pensare di andare a fare l’editor della rivista a New York. Questa diventa una sorta di mia nuova ambizione. 

Nello stesso periodo Francesco Bonami diventa uno dei curatori internazionali di riferimento e attraverso “Flash Art”, di cui era stato editor in America, riesco a conoscerlo chiedendogli di tradurre alcuni suoi testi: da lì inizia un’amicizia che dura fino a oggi e all’epoca Francesco mi chiede di aiutarlo in vari progetti ai quali sta lavorando, ed è con lui che faccio molta gavetta. 

Poco prima avevo conosciuto Maurizio Cattelan perché avevo chiesto di intervistarlo. Durante quell’incontro Maurizio, che in quello stesso giorno avrebbe dovuto fare un’altra intervista alla radio, mi chiede di farmi intervistare al suo posto, come suo alter ego. Io accetto perché di quel gesto mi affascina il fatto che scompagini tutte le regole tradizionali della critica: da un lato corrisponde all’annullamento della distanza critica da sempre considerata un attributo necessario al critico, dall’altro corrisponde a una celebrazione dell’idea del critico militante, cioè portavoce dell’artista. Iniziata quasi per gioco, la mia collaborazione con Maurizio sarebbe continuata per anni.

 

Quando ci conosciamo, Maurizio sta lavorando a molti altri progetti che in un certo senso sono curatoriali: la sua rivista “Permanent Food” ad esempio è un progetto nel quale mi coinvolge da subito. E poi intorno a quel periodo inizia anche a lavorare alla 6a Biennale dei Caraibi, una biennale senz’arte: oltre a fargli da alter ego, inizio a collaborare con lui a questo suo progetto e in parallelo collaboro con Francesco Bonami e con Gianni Romano su vari progetti. Maurizio Cattelan, Francesco Bonami e Gianni Romano sono le tre persone con cui comincio a fare pratica curatoriale lavorando come loro assistente o collaboratore, e grazie alle quali mi rendo conto che quel modo di operare nell’arte mi piace molto.

Tra la fine del 1999 e l’inizio del 2000 vado negli Stati Uniti a lavorare per “Flash Art” sia come redattore sia come critico. Ritrovandomi a scrivere in inglese, mi rendo conto di non poter competere nella scrittura con i madrelingua ed è forse anche per questa ragione che mi rendo conto che curare forse è più facile per me che scrivere. Forse è anche solo una questione di carattere: sono più portato al lavoro di équipe e di organizzazione e magari meno alla scrittura solitaria. 

Mi rendo anche conto che a New York ci sono molte possibilità per realizzare esposizioni, tanto che tra il 1999 e il 2002 c’è un incremento progressivo delle mie collaborazioni grazie alle quali faccio gavetta – molte di queste esperienze mi vedono infatti in qualità di tuttofare – e imparo a organizzare le mostre. Nel 1999 Francesco mi chiede di collaborare al Premio Sandretto, mentre per una collettiva organizzata dalla rivista “Art Press” in Francia faccio il rappresentante dall’Italia, selezionando alcuni artisti da esporre. Tra il 1999 e il 2002 più o meno lavoro a varie mostre, soprattutto come assistente di Francesco Bonami.

 

Paul McCarthy, Pig Island, 2003 – 2010, tecnica mista, 11 x 10 x 6 m. Veduta dell’installazione: Palazzo Citterio, Milano 20 maggio – 4 giugno 2010. Photo Marco De Scalzi. Courtesy l’artista, Fondazione Nicola Trussardi, Hauser & Wirth.

 

Nel 2002 succedono poi due fatti importanti. La biennale itinerante di Manifesta, che ogni due anni seleziona giovani curatori per scegliere il curatore dell’edizione successiva, mi invita a partecipare alla selezione (credo perché i nomi dei giovani curatori venivano indicati dagli ex curatori della rassegna tra cui c’erano Bonami e Obrist). Superando sia la selezione basata sul curriculum sia il successivo colloquio, divento uno dei curatori della quinta edizione di Manifesta.

Nello stesso 2002 Beatrice Trussardi, volendo cambiare la natura della Fondazione creata da suo padre, decide di affidarla a me perché le suggerisco l’idea di creare un nuovo tipo di istituzione nomade nella città. Dal 2003 ne divento direttore e parallelamente Bonami, nominato direttore artistico della Biennale di Venezia di quell’anno, mi chiede di curare la sezione dedicata alla giovane arte italiana.

È dal 2002 che ho quindi iniziato a lavorare a progetti curatoriali miei, ma sono riuscito a vivere del mio lavoro per la prima volta, credo, solo nel 2003. Dal 1997, anno in cui sono entrato nel mondo del lavoro, fino al 2003 ho invece avuto sempre bisogno di fare altri lavori – redattore, traduttore, assistente – per potermi sostenere. Quando sono venuto a vivere a New York il mio stipendio non era sufficiente per quasi nulla e ho vissuto ospite a casa della critica RoseLee Goldberg per circa tre anni, dove ero una sorta di ragazzo alla pari. 

 

Per fare il curatore è fondamentale questa capacità di adattamento e determinazione. Quando ho iniziato io, ma forse ancora oggi, era importante anche quello che Arbasino chiamava il “viaggio a Chiasso”, cioè il desiderio di andare all’estero a informarsi il più possibile. Io sono andato presto a vivere da solo all’estero e ogni volta che viaggiavo andavo sempre a vedere musei, mostre e librerie. Altro elemento fondamentale è la voracità di conoscenza. Ho sempre voluto essere molto informato, avere accesso a nuove idee, immagini, strumenti. In viaggio, se dovevo scegliere tra mangiare e comprare una rivista, saltavo un pasto e compravo la rivista! Questo non lo dico con eroismo, ma è semplicemente la verità. Alighiero Boetti diceva: “Avere fame di vento”, per descrivere una certa sfrenata curiosità. Io ho sempre avuto fame di libri, riviste e immagini.

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