Francesca Melandri: l'Italia di oggi / Sangue giusto

9 Settembre 2018

La storia, non sarà inutile ripeterlo, si studia sui libri di storia, non sui romanzi. Però alla conoscenza storica i romanzi possono offrire molto. Detto all’ingrosso, possono accendere (o ravvivare) l’interesse, l’attenzione, la sensibilità per la storia. La concretezza vissuta di un destino umano particolare può attirare lo sguardo sullo svolgimento di processi generali: sulla connessione fra presente e passato, sullo spessore cronologico dei fatti contingenti, sui limiti della nostra comprensione di quanto accade attorno a noi, sulla rete di rapporti fra l’attualità e i possibili futuri. Insomma: se alla letteratura non compete il rigore della storiografia, la narrazione romanzesca può tuttavia far molto perché la coscienza storica attecchisca nell’animo dei lettori. E naturalmente può accadere che un romanzo susciti discussioni sui temi storici di cui parla: cosa sempre auspicabile e opportuna, specie in un Paese dalla memoria corta come il nostro. Questo non è accaduto nel caso dell’ultimo libro di Francesca Melandri, Sangue giusto (Rizzoli, pp. 528, € 20), uscito un anno fa, incluso fra i dodici candidati al Premio Strega ma non nella cinquina dei finalisti. Peccato: l’occasione sarebbe stata preziosa. 

 

Ecco in sintesi la trama. Ilaria, romana quarantenne, rincasa una sera dell’estate del 2010 di umore pessimo. La macchina, parcheggiata sul Lungotevere, le è stata portata via dal carro attrezzi dei vigili, perché il giorno seguente è previsto il passaggio del corteo del colonnello Muhammar Gheddafi, in visita ufficiale a Roma. Ma le sorprese dall’Africa non sono finite. Sul pianerottolo l’attende un visitatore inatteso: un giovane etiope che dice di chiamarsi Shimeta Ietmgeta Attilaprofeti, e di essere il figlio di suo fratello – un fratello di Addis Abeba di cui Ilaria ignorava l’esistenza – morto anni prima. Ilaria, come si può immaginare, è sconcertata, disorientata e anche un po’ incredula; ma un evento simile le era già accaduto più di vent’anni addietro, quando aveva appreso dal padre, Attilio Profeti detto Attila (così avrebbe voluto chiamarlo il nonno Ernani, verdiano di ferro), che oltre ai due fratelli maggiori, Federico e Emilio, aveva un fratello più piccolo – un fratellastro – al quale egli aveva dato il proprio nome. Alla rivelazione era seguiti il divorzio dalla moglie e il nuovo matrimonio con la madre di Attilio junior, più giovane di lui di un quarto di secolo. Nel 2010 Attilio ha 95 anni e ha perso lucidità: non è quindi da lui che Ilaria può attendersi lumi. Ma nel corso del romanzo la vicenda a poco a poco si chiarisce. Volontario durante la guerra di Abissinia, Attilio Profeti aveva avuto una relazione con una giovane divorziata di nome Abeba, che dopo la separazione e il ritorno di lui in Italia aveva dato alla luce un bambino. Attilio viene a sapere della sua esistenza soltanto in seguito, e non lo incontrerà mai; tuttavia negli anni Ottanta, saputo da un ex commilitone rimasto a Addis Abeba che il figlio era finito nelle prigioni del dittatore Menghistu, era tornato in Etiopia come membro di una delegazione governativa, e con abili espedienti era riuscito a ottenere la sua scarcerazione. 

 

 

Il romanzo corre su due linee, entrambe retrospettive. Da un lato gli avvenimenti che riguardano il giovane migrante: l’allucinante viaggio dall’Etiopia all’Italia attraverso il deserto, l’inferno della Libia, la traversata del Mediterraneo, le traversie infinite nella burocrazia italiana, fra detenzioni, attese, dinieghi. Dall’altro l’avventurosa vita di Attilio Profeti, bello e fascinoso, e soprattutto provvisto di una sfacciata fortuna, che s’intreccia con la storia d’Italia, dal ventennio fascista alla fine della cosiddetta prima Repubblica. Camicia nera, funzionario del regime, collaboratore di Lidio Cipriani (uno dei firmatari del Manifesto della Razza del 1938), Attilio supera indenne la guerra civile, fa carriera negli apparati ministeriali, prospera nel sottobosco governativo assicurando a sé e alla famiglia (alle famiglie, anzi) una certa agiatezza, viene risparmiato dalla bufera di Tangentopoli perché dopo tutto è rimasto un pesce piccolo: da pensionato, tranquillo e longevo, sopravvive a quasi tutti i propri coetanei e a non pochi esponenti di classi più giovani. Se la vita è una gara, questa è la Gara: e Attilio è convinto di poterla vincere.     

 

Non sarà così; ma non farò al lettore il torto di raccontare tutti i dettagli di un romanzo che oltre a un intreccio mediamente complesso, ricostruito dal narratore onnisciente in forma di flashback, può vantare anche un paio di notevoli colpi di scena nel finale. Aggiungerò solo che la quasi-protagonista, Ilaria, donna di sinistra, arrovellata e velleitaria quanto basta, intrattiene un rapporto controverso con il coetaneo Piero, figlio del leader democristiano di cui il padre era stato a suo tempo braccio destro, il quale, dopo l’avvento di Berlusconi, ha a sua volta intrapreso la carriera politica entrando in Parlamento nelle liste di Forza Italia. Tra le figure di contorno, ha poi un certo rilievo quella del già citato commilitone di Attilio, il beneventano Carboni, che, a differenza della maggior parte degli italiani in cerca di fortuna nelle colonie dell’effimero Impero, non solo sposa un’etiope, ma le rimane fedele, mette su famiglia con lei, e dopo qualche decennio, quando dittatura e carestia rendono il paese invivibile, la porta (sempre grazie ad Attilio) in Italia. Quanto al titolo Sangue giusto, esso deriva da un’approssimativa traduzione della locuzione ius sanguinis, di cui Shimeta, durante il viaggio, chiede il significato. La sua speranza: avere il sangue giusto per rimanere in Italia (nessun riferimento esplicito, nel romanzo, all’espressione speculare ius soli, di cui molto si è discusso nell’ultima fase della passata legislatura, e che il voto del 4 marzo ha inabissato).

 

Sangue giusto parla dell’Italia di oggi: l’Italia dei centri di accoglienza e di quelli di identificazione e di espulsione, dei richiedenti asilo e dei clandestini, dell’irrequieta Roma multietnica fra la Stazione Termini e piazza Vittorio; l’Italia dell’amicizia fra Berlusconi e Gheddafi, e delle infinite, imperscrutabili ripercussioni che gli accordi con la Libia possono avere sul destino di masse anonime di migranti. Ma parla anche, e in verità soprattutto, dell’Italia di ieri, che gli italiani si sono affrettati a dimenticare, e della quale invece gli africani serbano giustamente memoria: l’Italia delle guerre di conquista, delle stragi e delle battaglie vinte con l’iprite, della rivalità fra Graziani e Badoglio, delle leggi razziali: e dei tanti risvolti della convivenza fra dominatori e dominati, come il «madamato», che sui documenti hanno un aspetto, e nell’esperienza vissuta delle singole persone un altro. Ma vorrei precisare, a scanso di equivoci, che Sangue giusto non è un romanzo «a tesi», né un libro manicheo. Attilio Profeti non è un personaggio simpatico, ovviamente, ma a conti fatti non è il peggiore che si possa incontrare; e se le cose, viste da vicino, hanno sempre qualcosa di più ripugnante e orribile di quello che ci si aspetta finché ci si tiene a distanza di sicurezza, spesso celano anche risvolti quanto meno contraddittorî, e non tutte le sorprese sono negative. 

 

Francesca Melandri è capace di raccontare (non a caso ha una lunga esperienza come sceneggiatrice) e si è documentata con apprezzabile scrupolo, specialmente sulla storia dell’Africa Orientale Italiana; per questo, forse, nell’architettura generale del romanzo ha finito per privilegiare gli anni Trenta e Quaranta del secolo XX, a scapito del XXI. Ed è capace di creare personaggi: se Shimeta resta a conti fatti (e giocoforza) poco più che una silhouette, la dinamica dei rapporti familiari in Italia è tratteggiata con sicura introspezione psicologica. Si veda ad esempio la frase con cui alla figlia allora sedicenne, sicura che il padre abbia un’amante, Attilio annuncia l’esistenza del fratellastro: «Voi non siete in tre, ma in quattro». Nella notizia (in sé sconvolgente) s’insinua un’indiretta dismissione di responsabilità che dà la misura della mediocrità e della vigliaccheria maschile. Ma sul versante socioculturale andrà ricordata anche la scena in cui Attilio espone a Abeba le tesi del Manifesto della razza, e la giovane le trasferisce con imperturbabile disinvoltura ai rapporti fra gli amhara e i galla (alias oromo), i due principali gruppi etnici dell’Etiopia.

 

Sangue giusto inscena vicende complesse e dolorose, su uno sfondo storico dove le atrocità, passate e presenti, non mancano. Ma a lettura conclusa, più che i dettagli cruenti rimangono nella mente soprattutto alcune piccole grandi questioni, solo in apparenza astratte. Ad esempio, il nesso fra identità e nome. Per un normale cittadino europeo si tratta di una relazione scontata, pacifica, non problematica; per un migrante – sia egli o no italiano per un quarto, come si dichiara Shimeta – chiamarsi in un modo piuttosto che in un altro può essere questione di vita o di morte. Capita, a volte, guardando (di solito in fotografia o in un video) gli occhi di chi scende dai barconi, di chiedersi quale sia il suo nome, il nome di quella persona. Ebbene, il romanzo della Melandri suggerisce di porsi anche un’altra domanda: quel nome, lo può usare? O per sopravvivere e arrivare fin qui ha dovuto cercarsi un’identità diversa? Che tipo di rapporto con sé stesso ha chi viene trattato in modo diverso – a volte radicalmente, tragicamente diverso – a seconda non di ciò che fa o ha fatto, ma a seconda di ciò che è?

 

Un’ultima osservazione riguarda il rapporto fra Ilaria e Piero, la donna (almeno nelle intenzioni) di sinistra e l’uomo (almeno nelle scelte pratiche) di destra. Per quasi tutto il libro il trasporto erotico prevale, senza lasciare spazio ad altro; ma nel finale qualcosa cambia. In questo tratto anti-manzoniano – il desiderio dei sensi come intermediario e fomite di valori positivi, e non solo come mezzo di appagamento egoistico – si annida un germe di fiducia e un pegno di umanità che non va sottovalutato. La vita, non solo in senso biologico, è mescolanza. Dunque, nessun sangue è giusto, e ogni sangue lo è: l’unica cosa davvero inaccettabile è tracciare linee divisorie fra sangue giusto e sangue non giusto. I lutti che ne possono discendere sono stati, e sono, letteralmente, senza fine.

 

Francesca Melandri, Sangue giusto, Rizzoli 2017, pp. 528, € 20.

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