La deposizione / L’intramontabile cronaca nera

Il romanzo La deposizione di Pascale Robert-Diard (Einaudi, Torino, 2017) riconferma, se fosse ancora necessario, quale serbatoio inesauribile di riflessioni siano le storie criminali.

Esse hanno affascinato i ‘creatori’, cioè coloro che hanno impiegato la loro creatività per costruire intrecci, mostrare i modi per svelarli, delineare i caratteri dei protagonisti, per colorare di varie sfumature di giallo lo sfondo delle trame. La lista è inesauribile, tra i professionisti e gli occasionali, tra i dichiarati e gli insospettabili, tra gli eccellenti e i mediocri.

 

Esistono poi gli ‘osservatori’, cioè coloro che traggono spunto da fatti reali per reinventarli o li hanno riprodotti narrandoli. La loro squadra è nutrita di numero e ricca di qualità, basti ricordare Buzzati, Moravia, Gide, Giono, Carrère, Capote, per risalire Dickens e Cechov.

Pascale Robert-Diard, giornalista di “Le Monde” per i fatti giudiziari, rientra in quest’ultimo ambito. Il suo non è un romanzo che elabora qualche frammento di realtà, ma è tutta realtà. È una storia vera, vissuta, animata da protagonisti in carne ed ossa, reperibili tra le cronache di giornali degli ultimi venti anni. Una storia atipica, di un omicidio senza cadavere, di un fatto di sangue senza sangue, ma non per questo destinato a sconfiggere gli investigatori.

 

Nel 1977 Agnès Le Roux, ricca ereditiera di Nizza di 29 anni, scomparve e il suo corpo non fu trovato. Dal padre aveva ereditato una quota del casinò locale, che a tutti i costi un certo Frantoni, ambiguo proprietario di altri casinò, ferocemente contrastato dalla madre della ragazza, voleva comprare. Con un improvviso gesto, Agnès decise di vendere le quote a Frantoni, collocando i tre milioni di franchi ricavati su un conto bancario intestato anche a Maurice Agnelet, noto avvocato, sposato con figli e suo amante. Risultò però che pochi giorni prima della scomparsa della ragazza, Agnelet aveva spostato le somme su un conto intestato soltanto a lui.

L’avvocato fu il primo sospettato, venne inquisito e assolto grazie all’ alibi di un’altra amante, pure lei ricca ereditiera. Nel 1983 fu arrestato,ma per la fragilità degli indizi l’accusa fu archiviata. Il processo riprese nel 1999 sulla base di elementi raccolti dalla madre della scomparsa, che aveva dedicato tempo e denaro per raccogliere prove contro l’antico amante della figlia. Dalle indagini emerse che quell’alibi che aveva consentito a Agnelet di sconfiggere le accuse, era falso. Il processo si avviò nel 2004 e l’accusato, sorretto dalla famiglia unita, fu assolto, poi condannato in appello a 20 anni, condanna annullata dalla Corte Europea che impose un nuovo processo. Si arriva così al 2014 e qui si verifica un colpo di scena: il figlio Guillaume chiede inaspettatamente di testimoniare, precisando che aveva saputo dalla madre e dal padre che questi era colpevole. L’avvocato, ormai ottantenne e nonostante l’impegno tenace fin dalle prime fasi del difensore, il collega Saint-Pierre, viene condannato a 20 anni.

 

Bank Security Camera / Distributed by United Press International / Bank Robber Aiming at Security Camera, Cleveland, Ohio, March 8, 1975 / Gelatin silver print Image:67/8×413/16in / (17.4×12.2cm);Sheet:71/2×57/8in.(19.1×15cm) / The Metropolitan Museum of Art, Twentieth Century Photography Fund, 2015 (2015.278)

 

La vicenda ha incendiato le curiosità francesi tanto da alimentare film (André Téchiné, L’homme qui aimait trop del 2014) e resoconti narrativi (Marcel Henry, Agnelet, Odile Jacob, 2008), sempre riportando come nel nostro scritto nomi reali e episodi effettivi.

Perché tanto interesse, ripreso e riproposto? Intanto la figura del protagonista, avvocato non limpido e avvolgente nei rapporti con l’altro sesso. Poi la durata del processo, iniziato con la scomparsa della vittima nel 1977 e culminata con il verdetto di condanna del 2014, periodo che non umilia la durata dei processi italiani. Infine lo sviluppo processuale, virato verso la condanna a 20 anni per la deposizione accusatoria di un figlio Guillame, che si ribella e fornisce una versione per sé liberatoria (il padre: finché non trovano il corpo sono tranquillo). La vera protagonista è la famiglia, disgregata nei suoi elementi ma legata negli anni da un segreto orribile, dalle frasi pronunciate nel corso degli anni dall’avvocato che depongono per la sua responsabilità. E anche questo legame si romperà quando un figlio riferirà questo segreto ai giudici che lo tramuteranno in condanna. Il segreto diviene complice e costruisce un rapporto stregato tra padre e figlio.

 

La lettura del romanzo consente inoltre una riflessione generale. La cronaca nera, e quindi il processo penale, è un buco della serratura che permette di vedere quanto rischia altrimenti di rimanere in ombra. Fotografa mondi come il ritorno dalla guerra nella vicenda di Bruneri e Canella, città e province come nei resoconti di Truman Capote. Descrive uomini talora incomprensibili come il figlio nell’Avversario di Carrère, talora immersi nella follia come il Pierre Riviere di Foucault. Approfondisce drammi familiari, come quello di Rina Fort, vite eccentriche come quella della Bellentani, ambienti equivoci laterali alla politica come quello di Wilma Montesi, universi giovanili come quello d Marta Russo.

 

Il rituale del processo consente di percepire oltre la maschera che ci protegge dal mondo, ma nel contempo influenza gli attori della scena irrigidendoli in ruoli prefissati. È la grande tragedia umana scatenata da un cortocircuito che lacera lo schermo rasserenante della quotidianità. Le verità sembrano acquisite ma sono contingenti, non ne esiste una definitiva, anche se lo Stato, nel tentativo di fornire certezze, pone una data di scadenza finale alla ricerca della verità, e quindi al processo.È come la vita, sempre fluida, cangiante, densa di risvolti, dagli squarci inaspettati anche se spesso covati nel silenzio. Questa è una delle numerose ragioni per cui l’interesse per la cronaca nera non conosce declino, come per il processo penale che ne costituisce la rappresentazione.

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