Gabriele Basilico à bord de mer

14 Febbraio 2013

Chissà se Gabriele Basilico amava andare per mare.
E chissà perché, in questo momento, dopo che da pochi minuti ho saputo della morte di Gabriele, mi scopro dentro questa domanda assurda come un tormentone assurdo.

 

 

Forse perché subito mi ha assalito il film, tra le tante, delle sue immagini, che amo molto, di Bords de mer, di porti, di navi che fanno dialogare le loro forme con le architetture delle città che le accolgono.
Ha detto più volte che poteva trascorrere ore ad incantarsi di queste meravigliose relazioni.
O forse perché tra i luoghi comuni della morte c’è quello di immaginarla come un salpare verso il riposante nulla del mare infinito.

 

 

Sono siciliano, con la morte ho rapporti intensi, quotidiani. Specialmente adesso che pochi mesi mi separano dai settant’anni e la morte, nella sempre più grande fatica del corpo, non è più una parola astratta, ma quasi una persona che ti vive accanto, che in certi momenti ti sembra di poterla toccare con la mano. Non mi fa paura. Ben altre cose mi fanno paura.

 

Ma una cosa è pensare la propria morte, giocarci, qualche volta, per esorcizzarla, per pensarla, per ridere di te stesso e del mondo. Non avrebbe senso ridere se non ci fosse la morte.
Altra cosa, completamente diversa, è affrontare lo choc della morte di un amico, di una persona che hai stimato e stimi, con la quale hai condiviso pezzi di vita, cibo, risate, con la quale hai confrontato idee e passioni.

 

E’ sempre uno choc la morte di un amico, un’incomprensibile sorpresa, anche se lo sapevi malato e stanco e malato e stanco lo avevi incontrato da pochi giorni. Uno scandalo inaccettabile. Ci eravamo promessi di vederci presto, di mangiare insieme, di passare insieme una serata. La morte rende tutto questo impossibile. E’ questo lo scandalo.

 

Ed eccomi qui a scrivere di lui  morto, invece.
Che senso ha?
Forse nessuno, forse è soltanto una maniera di mettere distanza dall’emozione, di controllarla, di cercare di circoscriverla nella forma delle parole.

 

Gabriele Basilico è stato un grande fotografo. Ma non sono le sue fotografie che mi mancheranno. Quelle ci sono, rimangono, le potremo continuare e riguardare nei suoi molti libri. Avevamo in comune anche la passione per i libri.

 

Mi mancherà la persona.
Ma la regola del gioco, quando la persona non c’è più, è di parlare di quello che Gabriele è stato come fotografo, delle importanti fotografie che ha fatto.
E’ anche questa una forma derisoria di consolazione.

 

Un fotografo che parla delle immagini di un altro fotografo inevitabilmente parla delle proprie. Con quelle dell’altro si confronta e si specchia, cerca di comprendere se stesso e l’altro in ciò che unisce e in ciò che separa.

 

In apparenza è difficile pensare a due fotografi più diversi di me e Gabriele. Tuttavia molte volte abbiamo riconosciuto nella diversità dei temi trattati e degli approcci stilistici, la profonda identità etica e culturale nella maniera di concepire la fotografia. Il documento, la testimonianza, la traccia: sola base per un fotografo che crede nel proprio strumento, nel proprio linguaggio, sulla quale costruire visione, fantasia, emozione.

 

 

Raramente si vedono persone nelle fotografie di Gabriele. E le mie ne brulicano.
E però – ne avevo scritto proprio a proposito delle sue immagini di Bord de mer, di paesaggio, verso le quali si era mosso rispetto alle prime severe costatazioni di oggetti architettonici – le sue immagini apparentemente vuote,  di fatto sono assordanti di vita, vi brulica la presenza culturale degli uomini che nel tempo quei paesaggi hanno contribuito a costruire, a disegnare, nei quali hanno vissuto.

 

Non si tratta di sacrificare ancora una volta all'ovvio luogo comune per cui le immagini di un fotografo, di un fotografo di questa qualità, sono sempre, in una certa maniera, un autoritratto.
Voglio dire che guardando queste fotografie non è tanto sui luoghi mostrati che si accende la fantasia, ma su Gabriele Basilico stesso che questi luoghi ha raccontato, sognato, inventato.
Queste foto di Gabriele, che soprattutto amo, provocano emozioni fatte di intelligenza e di sensibilità, di sensuale intelligenza.

 

 

Ricordo la sua sorpresa, ma una sorpresa che mi sembrò grata, per questo mio parlare di sensualità a proposito di immagini nelle quali tutti vedevano  algido sguardo surrealista.
Ha ragione Carlo Bertelli a negare la facile rispondenza tra la metafisica dechirichiana degli spazi immobili e l'apparente silenzio delle fotografie di Basilico.

 

È come se Basilico nello spostarsi dalla fotografia più propriamente architettonica a quella di paesaggio avesse avuto come una rivelazione anche di un profondo, fortemente evocativo paesaggio interiore. E che questo paesaggio, paesaggio del mondo e paesaggio di sé, lo abbia fotografato con un abbandono, una felicità, una sensualità, che mi sembra appunto la parola chiave, quasi da confessione autobiografica. Fino ad ottenere risultati che rivaleggiano con lo sguardo innocente, né sentimentale né intellettualistico, di alcuni pionieri della primissima fotografia di paesaggio dell'800.

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