Come è possibile l'indifferenza? / Empatia

11 Novembre 2016

Quello che più di tutto risulta difficile da accettare delle posizioni di Giacomo Rizzolatti contenute nel libro-intervista con Antonio Gnoli, appena pubblicato da Rizzoli, è l’accreditamento dell’empatia come fenomeno positivo. 

Se “c’è un meccanismo biologico” – i neuroni specchio – “che ci rende sociali, che ci porta a considerare l’altro come noi stessi”; se “c’è una conoscenza empatica degli altri”, è almeno improprio tendere a mostrare l’empatia come una pratica solidale e positiva.

 

Chi ha seguito con attenzione le scoperte del gruppo di neuroscienziati dell’Università di Parma negli ultimi venti anni ha elementi per sorprendersi e porsi domande impegnative. Una questione preliminare e dirimente è: ma specchiarsi nell’altro vuol dire comprenderlo in parte e sapere quello che fa e come si sente, o diventare solidale, disponibile e buono con lui? Sentire quello che l’altro sente e sapere quello che fa grazie alla cognizione incarnata (embodied cognition) appartiene a un campo diverso dal mettersi nei suoi panni, dall’assecondare l’altro, dall’essere d’accordo o solidale con l’altro. 

 

Allora che cos’è una scienza dell’empatia? Quando si sostiene che c’è un meccanismo biologico che ci rende sociali è necessario considerare le molteplici manifestazioni della socialità umana. Di esse, una parte sembra riconducibile, a seconda delle diverse culture e in base alla evoluzione dei tempi storici, a manifestazioni che, almeno in una certa misura, favoriscono l’emancipazione, il bene individuale e sociale, la libertà e il riconoscimento reciproco. Altre manifestazioni sociali però mostrano di negare la libertà, di essere problematiche per lo sviluppo individuale e sociale, di essere violente e spesso distruttive, pur essendo basate sull’empatia, e cioè sulla risonanza incarnata con gli altri (embodied simulation), che in quei casi è finalizzata a sentire l’altro per comprendere come escluderlo, come negarlo, come infliggergli sofferenza, come torturarlo, come eliminarlo. In tutti questi casi l’efficacia dell’empatia risulta direttamente proporzionale al suo uso antagonistico e non certo solidaristico. 

 

In te mi specchio. 

 

C’è piuttosto da dire che la questione da comprendere e cercare di spiegare, ora che sappiamo di essere una specie naturalmente empatica, è come mai sia possibile per noi negare e distruggere gli altri, dal momento che sentiamo quello che sentono e sappiamo quello che fanno. Caratterizzati da risonanza incarnata, prima ancora di volerlo e di deciderlo, noi viviamo, di fatto, quello che gli altri vivono. Lo stesso costrutto di empatia cambia decisamente di fondamento, di senso e significato, nel mentre si ridefinisce che cosa significa essere umani. Da una prospettiva dualistica e normativa, dove la separazione mente-corpo e uomo-natura era ed è la base della considerazione di noi stessi, stiamo riconoscendo di essere menti incarnate, situate ed estese nei contesti, e parte del tutto. La relazione con gli altri e il mondo, allora, non è un accessorio o qualcosa di attivabile o disattivabile mediante una disposizione a “mettersi nei panni dell’altro”, a immedesimarsi nei suoi vissuti emozionali e nei suoi sentimenti. Seguendo il percorso di ricerca di Luigi Pagliarani, alla luce dei recenti avanzamenti delle neuroscienze cognitive e della psicoanalisi, i processi empatici e exopatici, la risonanza e la distanza, possono essere considerati come parte della relazione fondante noi stessi, “luogo” di tutti i problemi e di tutte le possibilità. La domanda principale da affrontare riguarda, quindi, i vincoli dell’approssimazione e, più in particolare, come mai sono possibili la distanza, l’indifferenza, la negazione e la distruttività, essendo noi naturalmente empatici. 

 

L’indifferenza è, probabilmente, una delle più evidenti violazioni dell’empatia. Se l’indifferenza è possibile, vuol dire che noi possiamo sospendere l’empatia, almeno parzialmente o provvisoriamente. Il problema della presenza è co-fondare un fine con l’altro, perseguire il telos almeno in parte comune nella contingenza relazionale, come condizione del riconoscimento. Non si dà la possibilità di essere o senza un telos, a cui tendiamo naturalmente (chè un telos, un telos magari non riconosciuto si istituirebbe comunque), o con un telos del tutto già dato e non fondato nella reciprocità. La relazione appare fatta di coinvolgimento e distanza; di empatia e exopatia, di accoglienza e violazione. Certo, non è difficile accorgersi come la distanza, l’exopatia, la violazione, assumano immediatamente una connotazione morale che non solo si propone come di ordine negativo, ma si frappone come ostacolo a un’analisi della complessità delle relazioni tra esseri umani. Ciò vale ancora di più a proposito di fenomeni come la negazione, la distruttività e la banalità del male, basati spesso su processi di de-umanizzazione delle vittime. Anche l’analisi di questi ultimi fenomeni è spesso condotta come se essi fossero il contrario dell’empatia. Gli studi più approfonditi mostrano, invece, essere in atto in quei casi una particolare funzione dell’empatia, tra intensa via per sentire quello che sente l’altro e sua violazione, sospensione o amplificazione perversa dei suoi effetti. La rimozione del dolore studiata da Stanley Cohen costituisce un importante approfondimento degli “stati di negazione” (Cohen, 2001).

 

Stati di negazione. 

 

Unitamente a una recente analisi dei processi che portano dall’empatia al diniego, questi studi evidenziano la complessità delle funzioni dell’empatia. Basandosi su anni di ricerche condotte per lo più sulle fonti arabe, Meir Litvak e Ester Webman hanno inteso monitorare l'evoluzione della percezione dell'Olocausto e la loro comparsa in parallelo al conflitto arabo-israeliano del 1948. In seguito alla creazione dello Stato di Israele, gli atteggiamenti arabi verso l'Olocausto divennero tutt'uno con un ampio atteggiamento anti-sionista e con sentimenti anti-semiti. La loro è la prima indagine completa sulla negazione dell'Olocausto nel mondo arabo, e si basa su anni di minuziosa ricerca storica delle fonti per lo più di lingua araba. La banalizzazione della sofferenza altrui evidenziata da Hanna Arendt; l’obbedienza nelle pratiche di offesa che infliggono dolore in base agli studi di Stanley Milgram; o la cattiveria gratuita verso l’altro e il piacere di fare del male come ha mostrato Philip Zimbardo, e come è accaduto ad esempio ad Abu Ghraib dall’aprile 2004, con le torture e gli abusi ai danni di soldati iracheni detenuti, denotano con ancora maggiore evidenza la complessità dei processi empatici, della loro possibile provvisoria sospensione e della loro eccitazione per la propria soddisfazione, trattando con indifferenza l’altro. 

 

L’aspetto trascurato da una visione positiva dell’empatia riguarda la rilevanza e la funzione che essa svolge nelle relazioni di negazione o aggressive con intenti ed esiti distruttivi come, ad esempio, la tortura o le azioni di emarginazione, esclusione e offesa. Tanto più si è in grado di esprimere efficacemente quei comportamenti, quanto più si sente quello che sente l’altro. Il secondo aspetto poco considerato attiene all’importanza della sospensione, almeno provvisoria e relativa del legame empatico, essendo la distanza una condizione essenziale per la conoscenza, per la creatività e per l’innovazione. Rilevante è chiedersi come sia possibile quella sospensione, per quanto provvisoria, e quali siano le condizioni della sua manifestazione. Da quelle condizioni dipendono molte cose, che vanno dalla possibilità di creare l’inedito sospendendo almeno in parte il consueto, fino all’utilizzo controfattuale e antagonistico dell’empatia. Ogni relazione contiene, con molte probabilità, molteplici registri e tonalità. L’approssimazione ne è una caratteristica costitutiva. Per incontrarsi e, almeno in una certa misura riconoscersi, è necessario approssimarsi. È parola degna di molta attenzione la parola “approssimarsi”. Significa allo stesso tempo “avvicinarsi”, ma anche semplificare selezionando gli estremi, avvicinare le differenze, avvicinamento a un dato che non è possibile determinare con esattezza. Approssimazione è, quindi, anche mancanza di esattezza, difficoltà a far coincidere esattamente le cose. Ogni incontro è, allo stesso tempo, anche violazione dell’autonomia, da un equilibrio e un ordine che ognuno ha prima, a quello che accade nell’emergenza imprevedibile della relazione. In questo senso non è possibile trascurare le affinità tra violazione e violenza, ma soprattutto l’ambiguità profonda che accomuna e distingue ogni approssimazione, la connessa violazione implicita e gli esiti che possono essere, a seconda delle modalità di elaborazione, distruttivi, ma anche di cooperazione e di fusione, come accade nell’accoppiamento amoroso. In ogni caso la risonanza incarnata, la naturale disposizione di noi animali umani e di molti altri animali con un grosso cervello caratterizzati da embodied simulation, come ha dimostrato Vittorio Gallese (Embodied simulation: From neurons to phenomenal experience, Phenomenology and the Cognitive Sciences (2005) 4: 23–48), sostiene le manifestazioni esperienziali e fenomenologiche delle relazioni, di cui l’empatia è un aspetto costitutivo.

 

Le stesse strutture neurali coinvolte nella modellazione inconscia dell’azione del nostro corpo nello spazio, contribuiscono anche alla nostra consapevolezza del corpo vissuto e degli oggetti del mondo. La ricerca neuroscientifica mostra anche che ci sono dei meccanismi neurali che mediano tra l'esperienza personale multi-livello con cui noi costruiamo il nostro corpo vissuto, e le implicite certezze con cui simultaneamente comprendiamo gli altri. Tale conoscenza incarnata e personale ci permette di capire le azioni eseguite da altri, e di decodificare direttamente le emozioni e le sensazioni che sperimentano, attraverso la sintonizzazione intenzionale, evidenziata ancora da Vittorio Gallese. Un meccanismo funzionale comune è alla base sia della consapevolezza del corpo che della comprensione sociale: la simulazione incarnata e il sistema multiplo di condivisione. Tali risultati sono, peraltro, coerenti con alcune delle prospettive offerte dalla fenomenologia. L’empatia, come costrutto e manifestazione esperienziale può emergere da questi fondamenti che ne sono condizione necessaria, seppur non sufficiente, dipendendo, come dipende, per i suoi effetti, dall’incertezza e imprevedibilità delle relazioni nei contesti della vita.

 

Cosa si prova ad essere un altro?

 

Il costrutto di empatia ha sperimentato un processo di exopatia. Ai cultori della sua accezione romantica, che sono molti, rischia perfino di divenire antipatico, nella sua attuale versione. Del resto aveva raggiunto un livello di abuso che rischiava di suscitare apatia. L’exopatia, o presa di distanza, è condizione necessaria per ogni forma di conoscenza. Noi non sapremo mai cosa si prova ad essere un altro, nel senso di essere lui o lei: possiamo approssimarci, e quell’approssimazione contiene, allo stesso tempo, condivisione e negazione, attrazione e paura. L’incontro con l’altro, così come quello con il reale, è sempre in parte traumatico, soprattutto perché propone qualcosa di diverso dalla ripetizione dello “Stesso”, come ha sostenuto Jaques Lacan. La natura dell’incontro, probabilmente non è distinta dalla ricerca, ma dal trovare; o ancora più probabilmente dall’essere trovati. Il punto soggettivo in cui si è giunti con la propria formazione, la propria capacità di individuarsi e fare un lavoro sufficientemente buono con se stessi, il tyche lacaniano, entra in contatto con l’altro e prova, almeno in parte, a essere l’altro. Si trova trovando l’altro, ma in quanto è coinvolto e distaccato allo stesso tempo. Non siamo mai svincolati da noi stessi e l’empatia non risolve l’ambiguità costitutiva della relazione con l’altro; ne rappresenta una possibilità. Quando giunge a livelli di agglutinamento e glaciazione delle unicità soggettive genera implosioni e regressioni patologiche sul piano individuale e sociale, e tendenzialmente totalitarie sul piano politico e nell’espressione e nella pratica della libertà.   

Persone di culture diverse hanno diversi costrutti di sé, degli altri e dell’interdipendenza interpersonale. Questi costrutti possono influenzare, e in molti casi determinare, la natura dell'esperienza individuale, compresa la cognizione, le emozioni e la motivazione. Molte culture asiatiche hanno concezioni diverse di individualità che insistono sulla relazionalità fondamentale degli individui gli uni con gli altri. L'enfasi è sulla partecipazione al sentire degli altri, in raccordo e armoniosa interdipendenza con loro. La cultura occidentale non dà la stessa importanza, né valorizza tale connessione implicita e palese tra gli individui. Al contrario, gli individui cercano di mantenere la loro indipendenza dagli altri per esprimere se stessi scoprendo e manifestando i loro caratteri interni ritenuti unici.

 

Le condizioni contestuali e culturali paiono essere ancora più potenti di quanto si potesse immaginare. Sia le teorie psicologiche riguardanti la propriocezione, sia gli esiti degli studi di antropologia sembrano consonanti nel definire nel dettaglio la differenza tra un orientamento che sostiene la costruzione di sé come indipendente e un orientamento che presta maggiore attenzione agli aspetti interdipendenti. Ciascuno di questi costrutti divergenti dovrebbe avere una serie di conseguenze specifiche per la cognizione, le emozioni e la motivazione; con esiti particolarmente rilevanti sui modi di sperimentare e vivere la risonanza e l’empatia. Degno di nota è ripensare all’importante influenza degli aspetti culturali, rispetto a una concezione che riteneva cultural-free la cognizione, le emozioni e la motivazione. Del resto, come ci hanno mostrato George Devereux e l’etnopsichiatria, il suo allievo Tobie Nathan e l’etnopsicoanalisi, l’espressione dei processi empatici varia al variare delle culture.

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