Viktor Stoichita, Effetto Sherlock / Voyeur in lotta

21 Marzo 2017

“Siamo diventati una razza di guardoni”, dice con buon senso da “Reader’s Digest” l’infermiera Stella a Jeff, fotografo à la page immobilizzato da settimane a casa per un brutto incidente stradale. “La gente farebbe meglio a guardare un po’ dentro casa propria”, insiste caparbia. Ma Jeff, apparentemente, non la sta a sentire. Del resto, il suo ostinato voyeurismo non funziona poi così bene, zeppo com’è di ostacoli d’ogni sorta, schermi, muri, lampade che si spengono, tende che si chiudono, perfino specchi che riflettono oltre misura. Riuscirà, come sanno i fortunati che hanno visto e rivisto La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock, a risolvere l’inaspettato caso di omicidio coniugale che si svolge dinnanzi al suo teleobiettivo perennemente puntato sulle finestre di fronte. Ma con quanti intralci! E tutti, per giunta, di natura eminentemente visiva. Se siamo, forse, un popolo di impenitenti spie pruriginose, come sostiene Stella, non abbiamo per nulla vita facile. La cosiddetta civiltà delle immagini non la passa così liscia come si dice: ogni visione ha filo da torcere.

 

Hitchcock, Rear window (1954). 


Il fatto è che, come spiega lo storico dell’arte Viktor Stoichita in Effetto Sherlock (Il Saggiatore, pp. 243), mai come oggi, e in effetti da più d’un secolo, lo sguardo dell’uomo sul mondo è stato tanto tematizzato e tanto ostruito. Sembra che le arti – pittura, letteratura, fotografia, cinema, e per certi versi anche il circo, l’illusionismo, per non dire dell’ottica e delle sue invenzioni tecnologiche – non abbiano parlato d’altro, delle molte e variegate difficoltà, cioè, che ogni atto visivo, in quanto tale e in quanto metafora della conoscenza, si trova quotidianamente ad affrontare. La messa in scena dello sguardo, ricorda Stoichita (che in questo riprende una bella tradizione di studi storicoartistici ed iconologici, letterari, filosofici e psicanalitici: Gombrich, Shapiro, Marin, Calabrese, Lacan, Derrida, Hamon, Crary…), è motivo tradizionale della pittura classica, al punto che Leon Battista Alberti, si sa, definiva il quadro come una finestra aperta sul mondo. E tale sguardo, sulla tela, non è mai innocente: inscrive lo spettatore nella rappresentazione, indicandogli dove guardare e cosa considerare degno di nota, e al tempo stesso sottolinea la posizione prospettica dell’artista, occhio che scruta prima ancora che pennello che dipinge. Nasce già allora la questione della legittimità dell’osservare, e prima ancora della sua possibilità tanto fisica quanto antropologica. Occorrerà comunque attendere il secondo Ottocento, epoca d’oro dell’arte sedicente realista, per rendere palesemente complessa l’operazione mimetica e, suo inevitabile presupposto, la validità testimoniale dello sguardo sul mondo, la problematicità insista in ogni atto di visione, mai spontaneo, mai puro, e dunque perennemente in lotta con chi fa di tutto per rendergli difficile l’esistenza: tendine, fumi, schermi, specchiere, porte, inferriate, ringhiere, pareti e paratie, ventagli etc., tutti dispositivi opponibili ai loro antagonisti giurati come, per esempio, buchi della serratura, fessure, abbaini, oblò, occhiali, monocoli e cannocchiali, microscopi, fino all’immenso teleobiettivo del povero Jeff, usato non per animare reportage ma per spiare i vicini di casa (“buco della serratura portatile”, lo definisce per l’appunto Stella nel corso del film). Il motivo dello sguardo ostruito diviene centrale nella rappresentazione artistica, teorizzato più da scrittori (Baudelaire, Zola) che non da estetologi, da pittori (Manet, Caillebotte) più che da critici di mestiere, e, nel Novecento, da altri pittori (Magritte, Duchamps, Hopper) nonché da registi, ora ritenuti ‘popolari’ come Hitchcock, ora tacciati di ‘intellettualismo’ come Antonioni. 

 

Il libro si apre con una lunga analisi de “La ferrovia” di Eduard Manet, un quadro dove non c’è rappresentata alcuna strada ferrata ma piuttosto una ragazzina che, di spalle rispetto allo spettatore, guarda attraverso una fitta cancellata (traduzione plastica dei binari?), cercando di scorgerla al di là del fitto fumo, si suppone, d’una locomotiva. Qui il titolo è immediatamente topico: pone provocatoriamente una tensione fra ciò che predica e ciò che non c’è – o, meglio, che non si vede. Ma il viso schiacciato della ragazzina sul gelido metallo, e lo sguardo complice della mamma verso di noi, dicono molto di più: siamo proprio noi, forse, che non riusciamo a vedere, perché non siamo in grado di cogliere sino in fondo il dramma scopico che il quadro rappresenta, nonché, per certi versi, la sua soluzione: dietro ogni promessa di trasparenza c’è un’opacità costitutiva – che solo Wikileaks (volo solo parzialmente pindarico) si ostina ingenuamente a denegare. Un’opacità che dona del sano buon senso, molto simile a quello dell’infermiera di Jeff, a ogni ingenua utopia che, totalizzando il visibile, pretende di saper tutto. Non c’è visione se non come conquista di una lotta andata a buon fine contro chi cerca di ottunderla; non c’è conoscenza senza un dubbio che, frenandone il cammino, la corrobori.

 

Manet, Le chemin de fer (1872-73). 

 

Il dialogo fra Degas e Manet ricostruito pazientemente da Stoichita, tutto svolto con le risorse della pittura, è in questo illuminante. Da una parte il pittore che sta fuori il quadro, l’oggettivante Degas, che rappresenta il mondo come una scena a sé, frutto di una visione insistente e nascosta ma per nulla problematica. Dall’altra l’artista che si mette in gioco inserendosi in vario modo nella tela (ora come autoritratto di scorcio ora come firma inscritta nella rappresentazione), il soggettivante Manet, che restituisce il mondo come esito di un atto percettivo che del mondo stesso fa parte (situato, direbbero oggi i migliori cognitivisti): guardare verso la realtà è, spesso, essere guardati da essa. In questo, il vero voyeur è proprio Degas, che vede senza essere visto, cancellandosi come autore di un’opera che pure ha prodotto; mentre Manet, mettendo a nudo il procedimento pittorico, mostra il suo sguardo all’opera, un’opera che va inserita in un flusso comunicativo potenzialmente reversibile. E la cosa va avanti fino a che i due non cominciano a farsi ironicamente il verso: Degas dipinge una donna con un binocolo in mano e che le copre il viso (à la Manet); Manet dipinge la moglie di profilo, al centro della tela, mentre suona il piano (à la Degas).

 

Degas, Femme à sa toilette essuyant son pied gauche (1886).

 

Manet, Le tub (1878-79). 

 

Alfred Hitchcock, profondo conoscitore di questo genere di questioni pittoriche, e gran lettore di polizieschi, riesce magistralmente a trasferirle sullo schermo cinematografico, adattandole a un medium a prima vista meno preoccupante, ma in effetti assai più duttile al lavorio sullo sguardo, sia esso del personaggio o dello spettatore. Laddove Jeff, in Rear window, conduce una frenetica attività scopica che sembra una perfetta trasposizione del pensiero pittorico di Manet, il suo amico detective, che all’inizio lo crede un visionario (cosa ben diversa dal guardone), porta un nome rivelatore. Si chiama Doyle, come l’inventore del primo detective della storia, Sherlock Holmes, che è in grado di mescolare, facendone un’unica cosa, visione e cognizione, sguardo indagatore e logiche abduttive. Da qui l’effetto Sherlock che dà il titolo al libro, fenomeno epistemologico oltre che visivo, pronto a oltrepassare la narrativa poliziesca da cui pure è nato. Se il protagonista del Mastino dei Baskerville è l’eroe euforico di un positivismo ancora trionfante, i personaggi di Hitchcock, per risolvere il caso, devono fare squadra: Jeff, costretto in sedia a rotelle, osserva e interpreta, la fidanzata très à la mode e l’infermiera vanno in spericolata esplorazione, mentre Doyle interviene, determinante, al momento opportuno. Per ottenere l’effetto Sherlock, occorre un lavoro collettivo.

 

Agisce invece in perfetta solitudine il protagonista di Blow up di Michelangelo Antonioni, anch’egli fotografo di professione e detective improvvisato, al quale Stoichita dedica l’ultimo grosso capitolo del libro. In questo film il fotografo, alla ricerca di una verità che sfidi l’apparenza, esamina l’immagine sino a che questa non lo colpisce (la dicotomia barthesiana studium/punctum, ricorda Stoichita, viene proprio da qui). Ma la ricerca accanita si rivolta su se stessa: alla fine non vi sono che macchie di chiaroscuro (la fotografia enormemente ingrandita è troppo sgranata) e il probabile assassinio nel parco resta senza soluzione definitiva. Anche qui il nome dell’eroe è rivelatore: il giovane fotografo londinese si chiama Thomas, proprio come quel Tommaso che non voleva credere sino a che non vedeva. Difatti, esattamente come quest’ultimo, il suo sguardo, al momento clou dell’investigazione, diviene tattile: occorre toccare l’immagine per vedere meglio, per provare a capire qualcosa. Più che agnosticismo, sostiene Stoichita, assistiamo in Antonioni a una specie di traduzione cinematografica del principio di indeterminazione di Heisenberg. 

 

Antonioni, Blow up (1966).

 

Tutto comunque si concentra su un punto. A un certo momento fra le chiazze della foto ingrandita si scorge una sigaretta accesa: è il probabile assassino nel palazzo di fronte. Una vaga speranza di successo, un vanishing point, un punto di fuga: qualcosa comunque da cui si origina un’immagine, e con essa una nuova storia.

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