“Dopo l’amore” di Joachim Lafosse / Il costo dei sentimenti

3 Febbraio 2017

È un film straordinario Dopo l’amore. Un film che racconta una storia come tante, per niente speciale o sorprendente, chiuso fra le quattro mura di un’abitazione. Ma lo fa in un modo talmente unico, diretto, intimo e sincero da lasciare la sensazione che stia parlando di noi, del nostro tempo, del nostro mondo. Della nostra vita.

 

Dopo quindici anni di matrimonio Marie e Boris si stanno lasciando. Anzi a dire il vero si sono già lasciati, ma a causa delle ristrettezze economiche nessuno dei due può abbandonare il tetto coniugale e sono così costretti a vivere da separati in casa. Hanno due figliolette, Jade e Margaux, forse troppo piccole per comprendere appieno la situazione, ma troppo affezionate ai genitori per poter accettare che la separazione diventi definitiva. Non c’è niente di nuovo in questa vicenda, il cinema ce ne ha descritte tante di storie così. Ma la fine di un amore, la dissoluzione di una famiglia e il distacco dagli affetti, sono drammi talmente enormi e inafferrabili che spesso è quasi impossibile ridurli nelle due ore di un racconto cinematografico riuscendo a essere efficaci. Eppure Lafosse – che appena quarantenne, al suo settimo film, sembra aver raggiunto una maturità artistica assoluta – ci riesce. Riesce a entrare nei personaggi, e a rimanerci dentro con una naturalezza e un rigore stupefacenti. Ottenendo un vero e proprio “mélo della camera chiusa” all’interno del quale nulla è mai di troppo: non c’è un’inquadratura sprecata, non un piano superfluo, non una sequenza in eccesso. Dà l’illusione che il racconto proceda non come una narrazione prestabilita, ma come un flusso di emozioni all’interno del quale ogni elemento, anche spaziale, entra a far parte del gioco. 

 

 

La macchina da presa ricorda quella di Kechiche, e anche se sarebbe riduttivo accostare un autore tanto personale, consapevole e coerente come Lafosse a chiunque altro, non si può non ripensare a la Vita di Adele, guardando Dopo l’amore. Simili le geometrie, il senso della spazialità, le coordinate del racconto e simile anche l’attenzione per il dettaglio e per una costruzione narrativa che guarda a tutto ciò che in apparenza sembra banale e trascurabile. Ovvero i momenti quotidiani, i gesti consueti e abitudini come preparare la cena, mettere a letto i figli, prepararsi per la partita di calcetto o lavarsi i denti prima di dormire. In questo cinema che assomiglia così tanto alla vita, gli snodi della trama non sono mai illustrati da situazioni clamorose, topiche o eccezionali, ma da piccoli gesti consueti e ordinari. Perché è così che funziona la vita in fondo. Eppure Dopo l’amore sembra radicalizzare lo sguardo di Kechiche riempiendolo e completandolo con una sensibilità e una risolutezza enunciativa ancora maggiori. Rimanendoci attaccato – fisicamente – ai suoi personaggi, il regista belga, ce li fa sentire respirare, ansimare e soffocare lentamente. E la leggerezza della regia in uno spazio nel quale, come si diceva, i luoghi somigliano alle emozioni e in cui tutto sembra essere imprigionato, rende percettibile con grande essenzialità il manifestarsi di una “tempesta perfetta” capace di seppellire tutto, anche un grande amore.

 

Già, l’amore. Il titolo internazionale – diverso dall’originale L’economie du couple – di cui quello italiano è la traduzione letterale, mette l’amore nel titolo, rischiando però di fuorviare lo spettatore. Perché il film non descrive nessun dopo, nessuna posteriorità e nessun sentimento finito. La cosa forse più straziante, infatti, è che qui l’amore non è esaurito: è ancora lì, vive nella casa dei protagonisti e si agita, respira e lotta con loro. Non manca l’amore fra Boris e Marie, nemmeno quello carnale, e non manca l’amore per le due splendide figliolette da parte dei genitori, come testimonia quella meravigliosa, commovente e dolcissima scena in cui i quattro, tenendosi per mano, ballano nel salotto di casa sulle note di un bruttissimo brano disco-dance. 

 

 

No, quello che il film racconta è la fine di un rapporto in cui l’amore c’entra solo in maniera marginale. Perché le relazioni, spesso, non hanno a che fare con l’amore, o almeno non direttamente. Un rapporto è fatto di compromessi, responsabilità, progetti, scadenze da rispettare, problemi da risolvere, scelte da fare e tutta una serie infinita di azioni e di comportamenti che si mettono di mezzo e possono portare a innumerevoli e impensabili conseguenze. Quando è la vita a mettersi di traverso – sembra suggerire Lafosse – nonostante i nostri sforzi, gli affanni e i sacrifici, le cose vanno all’aria lo stesso. Senza particolari colpe, negligenze o manchevolezze. E non solo in una relazione di coppia, ma in qualsiasi tipo di rapporto umano. Perché elevando a metafora una situazione piuttosto tipica, il film parla a tutti, mostrando la disumanità del lato materiale della vita, quello che si dà per scontato, che si trascura e con il quale prima o poi ci troviamo a dover fare i conti.

 

L’economia di cui parla il titolo originale è proprio il riflesso di questa materialità. Marie e Boris passano tutto il film a fare i conti, a dare un valore alle cose, a cercare di stabilire quanto vale la casa, a quantificare in termini di capitale il tempo e il lavoro che ognuno di loro ha investito per ristrutturare, mettere in ordine e rendere abitabile l’immobile. Mettendo bene in evidenza la differenza fra quella che è la casa come edificio e come luogo in cui si dimora (o fra house e home). I litigi continui che ne nascono, sono lo specchio dell’impossibilità di dare valore economico e strumentale ai sentimenti, come è ovvio, ma anche dell’incapacità (giusta e sacrosanta) di guardare la nostra vita attraverso i beni materiali. E proprio perché il valore dell’amore per la famiglia è inestimabile e quello che si fa in suo nome non ha prezzo, il dolore di dover valutare il costo dei sentimenti diventa ancora più marcato. Ed è il modo in cui la realtà ci fa prendere atto della concretezza e della tangibilità della nostra vita. Di come il denaro, le carte bollate, i contratti e i documenti, non solo facciano parte della nostra esistenza, ma ne regolino lo scorrere in maniera fatale e ineluttabile.

 

In fondo è proprio con la stipula di un contratto (quello di divorzio) che il film si chiude. Ma la sequenza finale – insieme a quella che la precede – è anche l’unica del film a svolgersi al di fuori dall’abitazione dei protagonisti. Come se nonostante tutto Lafosse fornisse ai personaggi (e agli spettatori) una via d’uscita, come se chiedesse loro di provare a liberarsi in qualche modo di tutta quella realtà che li consuma e li atterrisce. Fuori. Dove a volte – solo a volte – la vita fa un po’ meno paura.

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