Federico Caffè. Un economista dalla cultura enciclopedica

15 Aprile 2017

Lo stile. La sera Federico Caffè prendeva l’autobus per tornare a casa. Saliva dalla porta anteriore, a una fermata che c’è ancora, davanti al bar che continua ad accogliere studenti e professori della facoltà di Economia della Sapienza. Con alcuni amici prendevamo lo stesso autobus. La soggezione e il timore reverenziale nei confronti di Caffè erano tali da farci salire dalla porta posteriore dell’autobus. Quando l’autista urlava ai passeggeri “Venite avanti” o “Avanti c’è posto”, rimanevamo abbarbicati alla parte posteriore dell’autobus. Preferivamo auto-condannarci agli insulti dell’autista, espressi nel caratteristico vernacolo romano: tale era la paura di dover incrociare, noi poco più che ventenni, lo sguardo del Maestro settantenne, in piedi a pochi metri di distanza. Che Federico Caffè prendesse lo stesso nostro autobus ci sembrava un evento soprannaturale. Come oggi, per calciatori dilettanti, prendere l’autobus con Cristiano Ronaldo.

 

La gita a Chiasso. Federico Caffè è stato un divulgatore senza pari in Italia del pensiero economico straniero. La sua avventura scientifica si svolse in anni in cui la conoscenza dell’inglese era limitata, così come l’accesso a riviste e libri di altri paesi. Caffè si è impegnato nella traduzione e nell’introduzione di lavori di grandi economisti. È stato un programma illuminista. Il catalogo, solo per i principali volumi curati, è questo: (i) 1954, Saggi sulla moderna economia del benessere, Einaudi. (ii) 1962, Economisti moderni, Garzanti (nuova edizione Laterza nel 1971). (iii) 1968, Il pensiero economico contemporaneo. Moneta, interesse e benessere, Franco Angeli. (iv) 1969, Il pensiero economico contemporaneo. Lo sviluppo economico, Franco Angeli. (v) 1969, Il pensiero economico contemporaneo. L’impiego delle risorse, Franco Angeli. (vi) 1975, Autocritica dell’economista, Laterza. (vii) 1978, Lezioni Nobel di Economia, Bollati Boringhieri. (viii) 1979, L’economia della piena occupazione, Rosenberg & Sellier.

La lista, molto incompleta, degli economisti tradotti, fatti tradurre e studiati da Caffè comprende Pigou, Hotelling, Kaldor, Hicks, Scitovsky, Little, Bergson, Arrow, Samuelson, Baumol, Chamberlin, Rothschild, Keynes, Lange, Morgenstern, Frisch, Schumpeter, Zeuthen, Johnson, Shackle, Bhagwati, Hahn, Matthews, Dorfman, Simon, Leontief, Phelps Brown, Worswick, Kalecki, Tinbergen, Friedman.

Alberto Arbasino ha scritto “che non si deploreranno mai abbastanza l’isolamento, il provincialismo, l’ignoranza e l’inciviltà dei venti anni fascisti”. Ha però accusato gli intellettuali italiani di non essersi comprati una grammatica straniera e di non aver fatto una gita a Chiasso a procurarsi un po’ di libri importanti. Sarebbe bastato“arrivare fino alla stanga della dogana di ponte Chiasso, due ore di bicicletta da Milano, e pregare un contrabbandiere di fare un salto alla più vicina drogheria Bernasconi e acquistare, insieme a un Toblerone e a un paio di pacchetti di Muratti con filtro”, i libri – indisponibili in Italia ma disponibili in Svizzera – di, tra gli altri, Wittgenstein, Husserl, Marx, Ayer, Bachelard, Forster, Leavis.

Caffè scelse una strada simile. La sua Chiasso fu il Regno Unito. Grazie a un soggiorno scientifico a Londra nel 1947-48 e sfruttando una curiosità senza limiti, contrabbandò in Italia la migliore cultura economica anglosassone.

 

Leggere gli economisti italiani. All’interno dell’ideale illuministico della grande biblioteca universale Caffè inseriva gli economisti italiani. Curò le edizioni critiche di Francesco Ferrara, Francesco Saverio Nitti e Luigi Einaudi. Consigliò la lettura di Gustavo Del Vecchio, Guglielmo Masci, Marco Fanno, Umberto Ricci e, naturalmente, Pareto e Pantaleoni. Sottolineava che in Italia c’era stato un pensiero economico “alto”, di livello internazionale, soprattutto legato ai contributi di Ferrara ed Einaudi. Non cadde mai nell’errore di contrapporre al tipico provincialismo italiano l’errore opposto dell’esterofilia acritica. Un esempio per tutti: le idee di Hayek sulla “strada verso la servitù” e sull’offerta competitiva di moneta da parte di banche private d’emissione erano state anticipate cento anni prima da Ferrara.

 

Istruzione e tolleranza. Umberto Eco ha avuto parole severe sui social media e su Internet. Ha denunciato la presenza, su qualsiasi argomento dello scibile, di una moltitudine di siti di pessima qualità, accanto a pochi siti ben documentati. Caffè è stato una guida per orientarsi nella letteratura economica, per non perdersi in direzioni di ricerca sbagliate. Anche grazie a lui capimmo che per la teoria delle decisioni poteva essere utile partire da Simon; per la teoria e la politica monetaria si poteva iniziare da Keynes, Hicks e Johnson; per la natura e la funzione del tasso d’interesse si poteva esordire con Shackle; per la teoria pura del commerciointernazionale da Bhagwati; per la teoria del prezzo e l’oligopolio da Rothschild; per la teoria dello sviluppo economico da Hahn e Matthews; per la teoria dell’inflazione da Bronfenbrenner e Holzman.

Molto spesso gli economisti consigliati da Caffè – da Ferrara a Einaudi, da Hayek a Pareto – erano di orientamento liberale; assegnavano allo Stato, in forme diverse, un ruolo molto limitato. Caffè pensava che il progresso della scienza economica si affermasse attraverso il riconoscimento del contributo di impostazioni diverse. Era consapevole del rischio di ottenere “un vestito di Arlecchino” ma si augurava di conseguire “una tuta da lavoro”. Condivideva l’idea di Samuelson che in economia l’eclettismo non è tanto quello che si desideri, quanto una necessità.

 

Una spaventosa erudizione costruttiva. Federico Caffè è stato un erudito, un economista dalla cultura enciclopedica, mai fine a sé stessa. Ha coltivato gli interessi più disparati; è stato un amante della letteratura, della musica sinfonica, in particolare di Gustav Mahler, e della lirica. Aveva una lingua elegante, che andava dritta al nucleo delle questioni. Nei suoi articoli la domanda di ricerca e le conclusioni sono nitide, mai ambigue. Nelle recensioni di volumi usava il metodo dell’“attaccapanni”, mutuato da Einaudi: prendere a pretesto il libro da recensire, e appenderlo subito all'attaccapanni, per parlare dei temi che gli stavano a cuore. Alla fine le recensioni di Caffè sono piccole introduzioni ai temi più disparati: al ritorno allo studio delle crisi finanziarie avvenuto negli anni Ottanta del Novecento; alla storia e alle cause della Grande Depressione; al dibattito sulle origini e sulle cure dell’inflazione.

 

 

Plausi e botte. Come ha ricordato Pierluigi Ciocca, Caffè usava spesso il metodo “plausi e botte” (l’espressione è ripresa dal titolo di una raccolta di scritti di Giovanni Boine). Partiva con un apprezzamento di un volume o di un autore, per poi criticarlo. Emblematica è l’introduzione alle Lezioni di politica sociale di Luigi Einaudi. Caffè esordisce con il plauso, l’esaltazione dell’economista dalla prosa perfetta e a favore della parità delle condizioni di partenza. Poi, però arrivano le botte. Einaudi ha attribuito la creazione dei monopoli all’azione dello Stato, mentre Caffè gli rimprovera di dimenticare le concentrazioni industriali e finanziarie private; Einaudi vede inoltre il mercato come servo della domanda, mentre nella realtà è vero il contrario. Discutendo di economia americana, Caffè ricorda che Ropke, l’economista tedesco protagonista del modello dell’economia sociale di mercato, criticò Roosevelt per la scelta di abbandonare nel 1933 il dollaro aureo: Caffè commenta che Ropke non si era reso conto di quello che era successo (la Grande Depressione). Nella recensione del libro di Baran e Sweezy, Il capitale monopolistico, Caffè, dopo l’elogio iniziale, parla di “generalizzazioni discutibili”, di “omissioni ingiustificate”, di un approccio viziato dal considerare insanabili le contraddizioni del capitalismo. È ancora da scrivere, e sarebbe divertente farlo, “una storia delle stroncature di Federico Caffè”.

 

I fili conduttori. Isaiah Berlin, partendo dal frammento di Archiloco "La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande", ha suddiviso gli intellettuali in due categorie. Da una parte c'è la volpe, il pensatore che persegue molti fini e il cui pensiero si muove su più piani, seguendo una traiettoria non unitaria. Dall'altra parte c'è il riccio, che fa riferimento a un principio ispiratore, a una visione centrale. Federico Caffè, come lo stesso Berlin, è stato una volpe. È stato in gran parte un pensatore non sistematico, come altri intellettuali italiani, da Giacomo Leopardi ad Antonio Gramsci. Ci sono però temi che costituiscono dei fili rossi del suo impegno scientifico. Eccone una selezione (molto monca per ragioni di spazio).

 

a) L’economia del benessere è la ricerca dei principi da utilizzare come guida nelle decisioni di politica economica. Il meccanismo di mercatonon assicura una razionale scelta sociale. Secondo Caffè l’economia del benessere è lo strumento per determinare gli standard minimi delle condizioni di vita e studiare i metodi utilizzabili – nella produzione e nella distribuzione – per assicurare quegli standard a tutti i cittadini. Gli standard sono obiettivi di politica economica e comportano un giudizio di valore. Sono considerazioni, espresse negli anni Cinquanta, vicine alle posizioni successive di Amartya Sen e John Rawls. Quest’ultimo basa la sua idea di giustizia come equità nella capacità dei cittadini di disporre di beni primari, vale a dire di quei beni fondamentali per lo sviluppo personale e la libertà degli individui. Alberto Baffigi ha sottolineato la corrispondenza tra gli “standard minimi” di Caffè e i “beni primari” di Rawls.

 

b) Caffè si è impegnato a fondo nella diffusione dell’opera di Keynes, nei cui confronti esisteva in Italia una diffidenza negli anni del secondo dopoguerra. Condivideva l’ideale keynesiano di riformare il capitalismo – un suo articolo si chiama “La solitudine del riformista” – non di eliminarlo. Da non marxista, da liberalsocialista, Caffè sottolineava che il capitalismo può dare luogo a un equilibrio di sottoccupazione. La politica economica può affidare all’azione pubblica l’intervento per assicurare il pieno utilizzo delle potenzialità produttive di un’economia. Caffè vedeva il messaggio di Keynes nella capacità di trasmettere una speranza di miglioramento delle condizioni di vita, affidandone la responsabilità alle azioni degli uomini.

 

c) Difese la costruzione dello Stato sociale, non dello Stato assistenziale che garantisce i ceti medi. L’obiettivo fondamentale deve essere la riduzione della disoccupazione. La concezione del Welfare di Caffè era stata influenzata dall’esperienza laburista inglese dopo la fine della seconda guerra mondiale: ne condivideva la passione, l’ottimismo, descritti da Ken Loach in The Spirit of 1945. Nella difesa di un ragionato intervento pubblico, fu severo, diversamente da Marcello de Cecco, verso il sistema italiano delle partecipazioni statali: l’iniziativa pubblica attraverso lo strumento della società per azioni di tipo privatistico gli sembrò un’ambiguità del corporativismo fascista. Non ci doveva essere commistione tra l’iniziativa privata e l’impresa pubblica.

d) Caffè ha ribadito che la concorrenza perfetta è un modello semplificato, lontano dalla realtà concreta. In natura un mercato concorrenziale non esiste: lasciato da solo il mercato tende verso l’oligopolio. Un mercato concorrenziale è una costruzione dell’uomo. Come è evidente dalle lettura di Adam Smith, la richiesta di un intervento dello Stato per tutelare la concorrenza e controllare i monopoli è contemporanea al sorgere della scienza economica. Lamentò l’assenza di una legislazione antitrust in Italia, malgrado le riflessioni nella Commissione costituente e nella Commissione sui limiti posti alla concorrenza operante nei primi anni Sessanta. Caffè era esplicito: le grandi imprese si sono battute contro l’introduzione di regole antimonopolistiche. Non fece in tempo a vedere la legge italiana a tutela della concorrenza, arrivata nel 1990.

e) Fu attento nel sottolineare i rischi di elevati tassi di interesse reali, di quella che definiva “un’economia usuraia”. Denunciò non solo le conseguenze negative di un’inflazione elevata ma anche la catena di eventi negativi che può scaturire dalla combinazione di debiti elevati e deflazione. Si tratta di considerazioni attuali, dato che nel triennio 2014-2016 l’area dell’euro ha corso dei rischi deflazionistici, contrastati dalla politica monetaria.

 

Il libro di una vita. Generazioni di studenti hanno imparato la politica economica grazie alle lezioni di Federico Caffè. L’edizione finale è stato il distillato di una smania ininterrotta di migliorare il prodotto iniziale, apparso prima in edizioni di case editrici romane, poi in due volumi per Boringhieri, alla fine in un unico volume, ancora per Boringhieri. È stata un’operazione culturale simile, per certi versi, a L’opera aperta di Umberto Eco e a Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino, riscritto tre volte. Solo che, a differenza di Fratelli d’Italia, Caffè ha lavorato per sottrazione, tagliando le lezioni, eliminando i pezzi non più attuali e aggiornando le vecchie versioni, con l’obiettivo di arrivare al distillato migliore per gli studenti. L’edizione finale è insuperabile. Sembra ispirata al metodo dichiarato da Italo Calvino nelle Lezioni americane: “Scrivere è togliere peso”.

 

Il carattere. Era capace di ironie pungenti. La tradizione orale romana ricorda un seminario di due giovani economisti. Il primo interveniva sull'equilibrio economico generale, un tema che ha fatto impazzire generazioni di studiosi da Smith a Walras, arrivando ai premi Nobel Arrow e Debreu (per semplificare). Il secondo economista interveniva sulle caratteristiche di un distretto industriale in una provincia italiana, un tema indubbiamente più circoscritto dell'equilibrio economico generale. Alla fine Caffè chiosò così “Ho molto apprezzato il primo intervento e ho trovato chiarissima la presentazione delle condizioni che devono valere per l'esistenza, l'unicità e la stabilità dell'equilibrio. Ho invece molti dubbi su come effettivamente funzioni la produzione di mattonelle in quel comune italiano...”.

Federico Caffè riconosceva l'ira come un tratto peculiare del suo carattere. Era capace di forti furori, non astratti, al contrario molto concreti. Erano sfoghi improvvisi, come temporali estivi, che arrivavano e sparivano velocemente. L'ira era seguita da un ritorno alla mitezza, il tratto principale di un carattere timido, introverso, dominato dall'understatement, modesto ma orgoglioso.

 

Il rapporto con gli studenti. Il suo tratto distintivo è stata la disponibilità assoluta al dialogo con gli studenti.È stato prodigo di consigli non solo durante gli anni universitari ma anche per le successive scelte di carriera degli allievi. La sua dedizione all'università era assoluta. Arrivo alle 8 e uscita dopo le 19. Riconosceva di avere ritmi da metalmeccanico. Quando la responsabile della biblioteca dell’Istituto di Politica Economica si assentava per malattia, Caffè la sostituiva per assicurare la fruizione dei libri agli studenti. Mostrava agli amici gli scaffali con le 1.200 tesi di laurea assegnate, che paragonava al catalogo di Don Giovanni. Con un gruppo di amici sfruttammo il suo senso dell’umorismo anglosassone donandogli, in occasione del pensionamento, la vignetta di Giannelli riprodotta.

 

 

Polemiche di ieri e di oggi. Questo ricordo sta diventando un santino, che Caffè non apprezzerebbe. Era un uomo che amava il confronto serrato tra le opinioni. Ebbe scontri duri. Con Tarantelli sul referendum sulla scala mobile. Con Padoa-Schioppa sull'idea di Europa. Con lo stesso Padoa-Schioppa e Modigliani sull'opportunità di scelte protezionistiche. Con “Il Manifesto” sull'atteggiamento da tenere in occasione della guerra Argentina-Regno Unito per il controllo delle isole Falklands. Per evitare il santino – che è la caratteristica in Italia degli scritti in ricordo delle persone che non ci sono più –e facendo seguire ai “plausi” le “botte”, va detto che Caffè sottovalutò l'importanza dei fallimenti dell'intervento pubblico in economia. Fu insuperato nell'analisi dei fallimenti dei mercati ma sottovalutò i pericoli di una spesa pubblica fuori controllo, con i rischi conseguenti di un aumento del rapporto tra debito pubblico e PIL (anche se va ricordato che alla metà degli anni Ottanta il rapporto era ancora intorno all’85 per cento). Era anche troppo fiducioso nell’economia dei controlli diretti (che comunque stiamo in parte recuperando con quelli che oggi chiamiamo in gergo controlli macroprudenziali).Ebbe una visione a priori negativa della finanza e della borsa. Fu troppo negativo nei confronti dell’esperienza dell’IRI.

Caffè concluse la sua attività scientifica in una fase di trasformazione dell’economia, nella quale i ricci stavano prevalendo sulle volpi. La tendenza alla specializzazione stava avanzando in tutte le scienze. Ne era consapevole perché conosceva La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Kuhn. Un nuovo paradigma, molto scettico sul ruolo dell’intervento pubblico, stava diventando egemone nella macroeconomia: Caffè lo contrastò. Dopo la crisi finanziaria globale del 2007-09 molti economisti hanno affermato che negli ultimi trenta anni la macroeconomia è andata indietro. Caffè avrebbe, con l’abituale understatement, condiviso questa valutazione.

 

L'ultima lezione. Caffè è stato uno degli economisti italiani più importanti degli anni che vanno dal 1950 al 1986. Quando ci ha lasciati, era un uomo depresso, per motivi tristissimi. Alle questioni personali si univa un senso di sconfitta ideologica. Nella sua ultima lezione, riconosceva che una massima di Keynes– “Prima o poi le idee hanno la prevalenza sugli interessi precostituiti” – si era rivelata errata. Purtroppo, gli interessi possono prevalere sulle idee.

In un romanzo del 2015, Lasciate in pace Marcello, lo scrittore Piergiorgio Patellini descrive l’incontro in un convento, alla metà degli anni Novanta, tra il giovane protagonista e un frate laico, Federico. Nella postfazione Patellini dichiara di essersi ispirato alle vicende di Caffè. L’ipotesi della scelta eremita è stata confermata, sulla base dell’amicizia con Caffè, da Bruno Amoroso, in Memorie di un intruso(2016).

Aveva in qualche senso già prefigurato la scelta dell’esilio in un articolo del 1980, “La solitudine del maratoneta”. Protestando contro quello che definiva il moderatismo opportunistico della politica economica italiana, dichiarava che “rifugiarsi nella più eburnea delle torri di avorio appare preferibile all’occuparsi dei problemi correnti della politica economica del nostro paese”. Come ha scritto Giorgio Ruffolo, Caffè era un riformista estremista. Gli anni Ottanta furono caratterizzati da una riscoperta del mercato inteso come puro laissez faire, con la diffusione di tesi che negavano ogni ruolo per l’intervento pubblico. Il “ritorno al mercato” costituiva per lui una “pavida fuga dalle responsabilità”. Si sentì isolato.

Scomparve dalla sua abitazione nella notte tra il 14 e il 15 aprile del 1987. Molti di noi pensarono che non fosse giusto cercarlo. Bisognava lasciarlo in pace. La realtà gli era diventatainsopportabile. Confidammo che avesse trovato un posto dove godersi il suo Mahler, il Das Lied von der Erde, l’adagetto della quinta sinfonia e il finale della nona. Abbiamo sempre sperato che sia andata così.

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