Bruno Munari. Il mio passato futurista

20 Dicembre 2012

La relazione di Bruno Munari con il futurismo è uno degli aspetti più controversi della produzione di quello che può essere considerato il più importante artista italiano del Novecento. È un periodo poco studiato da storici e critici per quell’insistito cordone sanitario che è stato spesso e volentieri eretto dalla cultura italiana attorno ai prodotti artistici emersi durante il ventennio e associabili in senso lato con il regime. Munari stesso è in qualche modo complice di questa menomazione storiografica. Come ha sottolineato Jeffrey Schnapp, nelle sue varie liste autodefinitorie e autobiografiche Munari mette come incipit simbolico della propria carriera d’artista la prima “macchina inutile” del 1930. Un gesto in qualche modo giustificabile, vista l’importanza di quella proposta artistica, ma che cancella gli anni di preparazione e i presupposti estetici di molta della sperimentazione munariana negli anni a venire, congedati da Munari con una ironica alzata di spalle, come come quando confesserà a Gillo Dorfles di avere avuto, appunto, un “passato futurista”.

 

Il problema critico non è comunque quello di documentare il grado di aderenza di Munari ai programmi futuristi o il livello di coinvolgimento con i vari progetti collaborativi del secondo futurismo (del resto la documentazione è disponibile), ma piuttosto rintracciare quei fili di continuità con quell’esperienza artistica per ricomporre il percorso di sperimentazione artistica di Munari. Ed è quello che si è proposta di fare la mostra Bruno Munari: My Futurist Past, all’Estorick Collection di Londra, la prima mostra di Munari in Gran Bretagna e la prima all’estero dopo la sua morte, curata da Miroslava Hajek e Luca Zaffarano, con la collaborazione del Massimo e Sonia Cirulli Archive e del Dipartimento di Italiano dell’Università di Cambridge.

 

 

In qualche modo l’incontro tra Munari e il futurismo era il più ovvio e scontato, se si guardano i dati biografici immediati. Quando nel 1926, a diciannove anni, Munari si trasferì da Badia Polesine, dov’era cresciuto, a Milano, fu un fatto quasi inevitabile che si unisse al gruppo dei futuristi (oltre a Marinetti, Buzzi, Prampolini, Farfa, Fillia, etc). Il futurismo era una dei gruppi più dinamici in Italia, con un attivismo auto-promozionale non comune. La consonanza di interessi di base era inoltre evidente: Munari non poteva non essere interessato a un movimento che metteva al centro della propria sperimentazione artistica metodi e tecniche espressive molto diverse tra di loro (dall’arte plastica alla fotografia, dalla performance all’architettura), con i legami naturali che si stabilirono in quegli anni con l’industria culturale, attraverso il design, la grafica, la pubblicità. C’era inoltre un sostanziale istinto democratico e anti-elitario nel fare arte, rintracciabile soprattutto nel primo futurismo, che diventerà la forma dell’impegno intellettuale di Munari nella sua attività di divulgatore (si veda l’emblematico Arte come mestiere).

 

Il rapporto di Munari con il futurismo va inoltre compreso e inquadrato all’interno dei suoi interessi per le avanguardie in senso ampio. È solo la circostanza storica che fosse il futurismo la desinenza italiana di questo complessivo movimento di sperimentazione formale radicale che ha interessato l’Europa in quegli anni che ha fatto sì che Munari aderisse ad alcuni presupposti estetici (più che ideologici) di quel gruppo. Come è evidente dalle sue opere del primo periodo della sua produzione, Munari prendeva ispirazione e prestiti non solo dal futurismo, ma anche dal surrealismo, dal dadaismo, dal costruttivismo e dall’astrattismo — quest’ultimo il filone artistico dove convergerà gran parte dell’interesse munariano. In una con intervista con Arturo Quintavalle, Munari sottolineava che per lui all’epoca era importante sperimentare tutto, provare quanto più possibile dal punto di vista espressivo e formale.

 

Era ovviamente una fase preparatoria della sua carriera, dove Munari cercava di individuare una cifra e un linguaggio propri, una propria distinta voce nel panorama artistico nazionale (che avrebbe trovato, all’inizio degli anni ’30, con le “macchine inutili”). A questo proposito è significativa la sede della prima personale di Munari in Italia: la Galleria il Milione a Milano, fondata nel 1930 da Gino Ghiringhelli e diretta da Edoardo Persico, all’epoca direttore di Casabella, punto di incontro di molti artisti che diventeranno figure di riferimento per l’astrattismo italiano come Lucio Fontana, Atanasio Soldati, Mauro Reggiani o Luigi Veronesi. Nel Bollettino della Galleria Persico aveva serializzato alcuni testi fondamentali dell’astrattismo internazionale come Punkt und Linie zu Fläche (1926) di Kandinsky o i Tagebücher (1920) di Paul Klee; erano inoltre disponibili riviste come Cahiers d'Art (1926-), Cercle et Carré (1930), Abstraction - Création (1932), che hanno permesso a Munari di familiarizzare con i movimenti artistici d’oltralpe.Presso la Galleria erano consultabili anche i Bauhausbücher (14 volumi pubblicati tra il 1925 e il 1931), dove probabilmente Munari ha potuto studiare i lavori di Moholy-Nagy e Herbert Bayer. Da non dimenticare come fosse sempre grazie a Persico che i lavori di Gropius, Le Corbusier, Frank Lloyd Wright cominciarono a essere conosciuti e discussi anche in Italia, e non a caso Il Milione diventò ben presto il punto di incontro per gli esponenti del razionalismo architettonico milanese come Giuseppe Terragni, Alberto Sartoris, Luigi Figini e Gino Pollini. Da questo punto di vista Munari si trovava casualmente ma opportunamente nel contesto meno provinciale e più informato dell’Italia dell’epoca e evidentemente ne approfittò.

 

 

La posizione di Munari rispetto al futurismo era inoltre alquanto eccentrica. Nonostante avesse firmato alcuni manifesti negli anni ’30 (il Manifesto tecnico dell’areoplastica futurista, ad esempio), Riccardo Castegnedi, che è stato assistente e socio di Munari in quel periodo, ricordava la completa mancanza di vis polemica di quest’ultimo e come commentasse con distacco ironico gli isterismi performativi dei suoi amici futuristi. Non va dimenticato inoltre come Munari operasse in una fase “regressiva” del movimento, dopo il cosiddetto “ritorno all’ordine” e la perdita di quella carica di sperimentazione a 360 gradi degli anni eroici del movimento. Inoltre, Munari si rendeva perfettamente conto che il linguaggio proprio dell’avanguardia si trovava di fronte un inevitabile esaurimento storico: il gesto avanguardistico, intrinsecamente effimero e performativo, diventava inevitabilmente trito e ineffettivo se ripetuto troppe volte. I valori del modernismo radicale di inizio secolo erano ormai luogo comune negli anni ’30.

 

Il problema che si poneva Munari come altri era cosa fare con il lascito delle avanguardie. Come superarlo senza perder di vista le molte idee ancora fruibili o le proposte che erano rimaste allo stato programmatico senza mai materializzarsi concretamente. Potremmo dire che Munari si poneva in una sorta di punto di flesso nella traiettoria dello sviluppo formale di quell’eredità risolvendola con un approccio che in qualche modo potrebbe essere definito come “postmoderno”.  Come ha scritto Eco nella sua Postille a Il Nome della rosa (1983): “arriva il momento che l’avanguardia (il moderno) non può più andare oltre, perché ha ormai prodotto un metalinguaggio che parla dei suoi impossibili testi (l’arte concettuale). La risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente”.

 

La sperimentazione visiva di Munari sembra di fatto sintetizzare questo sviluppo dell’arte moderna concettualizzato da Eco. Da una parte supera l’antagonismo nihilistico dell’avanguardia attraverso un riuso parodico e ironico di temi e immagini; dall’altra isola alcune idee formali sviluppandole in una direzione tutta personale, filtrata inoltre dalle esperienze artistiche di altri movimenti sperimentali e d’avanguardia europei. In questo modo riesce a evitare gli esaurimenti individuati da Eco muovendosi attraverso una costellazione di soluzioni artistiche composite e fornendone una sintesi personale.

 

 

Munari va oltre la dimensione del moderno che vuole il nuovo come valore assoluto, e riutilizza vecchie idee e suggestioni, trasformandole, arricchendole, riciclandole attraverso nuovi media e varie forme espressive (dall’arte visiva al design, dalla fotografia alla video arte, dalla grafica pubblicitaria all’arte performativa), anche a seconda delle tecnologie e dei nuovi materiali disponibili. “Le buone idee non muoiono mai” sembra dirci Munari, e questo lo mette in pratica non esibendo minime variazioni sull’identico, secondo il principio commerciale dell’immediata riconoscibilità dell’artista vedette (contro cui si scaglia ironicamente in Design e comunicazione visiva), ma attraverso continui spostamenti laterali e reinvenzioni di alcuni elementi strutturali di base.

 

In riferimento alla prima mossa “postmoderna” di Munari, è chiaro come elementi parodici, ironici, siano presenti sin dai primissimi lavori degli anni venti — molti dei quali sono radiografati dalla mostra londinese —, al punto da sollecitare le reprimenda di Brunas (Bruna Somenzi) che nel 1932 sulla rivista Futurismo, farà presente a Munari che “Il futurismo è cosa troppo seria e non ammette lo scherzo e acide inutile passatista ironia. Coordinate le vostre idee genialissime ed esponetele con intelligente serenità. Siate ottimo ‘scolaro’ educato trascurando critiche e presunzione da ‘maestro’”.

 

Già nel 1927, a vent’anni, in un collage dal titolo rRrR (Rumore di areoplano), si può notare l’allusione parodica alle sperimentazioni onomatopeiche di Marinetti (si pensi a Zang Tumb Tuuum, 1914), a partire dalla firma stessa adottata da Munari: “BUM”. Il rumore dell’aeroplano è reso con una serie di “r” scritte ad inchiostro in maiuscolo o in corsivo e che sembrano prese da un abbecedario per le scuole elementari. Allo stesso modo l’aeroplano sembra disegnato da un bambino: le ruote sono quelle di una bicicletta, vi è la mancanza di qualsiasi tentativo di prospettiva, non vi è alcun dinamismo compositivo, come tutto il filone dell’aeropittura futurista, dei vari Tullio Crali o Fedele Azari, avrebbe richiesto.

 

 

La stessa ironica distanza è visibile anche in alcuni disegni e fotomontaggi della metà degli anni ’30, tutti esposti alla mostra dell’Estorick: La gioia poetica del volo, Odore di areoplano, Ci porremmo dunque in cerca di una femmina d’areoplano — quest’ultimo una interessante desinenza, sempre in chiave parodica, del tema futurista, precursore dell’immaginario cyborg, dell’ “identificazione dell’uomo con il motore” (L’uomo moltiplicato e il regno della macchina, 1910), che Munari declina in forma pseudo-mitologica, con delle donne-sirene o donne-centauro,  con coda di aeroplano. Lo stesso tipo di immaginario si ritrova anche in Poeta incompreso (1933), un’altra sottile parodia del vocabolario espressivo futurista.

 

Adottando l’atteggiamento di critica ai valori estetici passatisti — in questo caso la decostruzione di una poesia del 1825 di Giunio Bazzoni, minore romantico di inizio Ottocento — Munari gioca con l’immagine convenzionale del poeta “incompreso”, che in questo caso risulta “mal compreso”. L’incomprensione riguarda proprio il termine “aereo”, un aggettivo che nel poema di Bazzoni si riferisce alla luna come astro, ma che 50 anni dopo verrà a definire anche l’aeroplano. Nella composizione di Munari la luna diventa il rotore di un aereo, mentre il poeta, “acefalizzato”, è visto come una macchina organica che semplicemente “escreta” la composizione poetica.

 

 

Un altro esempio sono un paio di “mappe cosmiche” del 1930, probabilmente ispirate da lavori analoghi di Enrico Prampolini, dove si nota inoltre l’incorporazione di alcuni elementi surrealisti. Se si nota l’interesse estetico da parte di Munari di comporre delle cartografie immaginarie, giocando con gli elementi convenzionali della rappresentazione geografica, d’altro canto Munari inserisce un principio di destabilizzazione parodica nei toponimi. Il paese di Pero, alla periferia di Milano, viene accentato in Però, suggerendo l’inserimento di tutta una serie di congiunzioni come “tuttavia”, “malgrado”, “semmai”, “invece”. A dispetto della dimensione cosmica di queste mappe immaginarie, in un’altra tavola Munari aggiunge una dizione che sa di sberleffo: “ora di Brera registrata dal cronometro Zenit di casa”.

 

A parte questi elementi sottilmente sovversivi, risulta comunque evidente nell’opera di Munari il desiderio di sviluppare le idee più potenzialmente produttive della prima stagione futurista, molte delle quali, come detto, erano rimaste a livello puramente programmatico. Se l’ironica presa di distanza dalla magniloquenza retorica che spesso accompagnava l’auto-esegesi di forme artistiche come le “mappe cosmiche” denota un lo spirito indipendente di Munari, guardando alle tavole di ABC Dadà (1944), dove Munari costruisce un abbecedario, accostando una varietà di oggetti domestici e poemetti dadaisti (che sembrano anticipare il Piccolo sillabario illustrato di Italo Calvino), non si può non notare il debito con quell’arte “polimaterica” che Prampolini aveva cominciato a teorizzare e praticare fin dal 1915.

 

 

Il caso più esemplare di debito intrattenuto da Munari con l’esperienza futurista è il manifesto firmato da Giacomo Balla e Fortunato Depero, Ricostruzione futurista dell’universo (1915), considerato uno dei primi testi teorici dell’arte astratta in Italy (ma in relatà molto più di questo). Come hanno suggerito Aldo Tanchis e Alessandro Colizzi, in quel manifesto si ritrova in nuce molta dell’arte munariana, per esempio nell’uso di materiali poveri: “Fili metallici, di cotone, lana, seta d’ogni spessore, colorati. Vetri colorati, carte veline, celluloidi, reti metalliche, trasparenti d’ogni genere, coloratissimi, tessuti, specchi, lamine metalliche, stagnole colorate, e tutte le sostanze sgargiantissime. Congegni meccanici, elettrotecnici, musicali e rumoristi; liquidi chimicamente luminosi di colorazione variabile; molle; leve; tubi, ecc.”

 

I “complessi plastici dinamici” teorizzati da Balla e Depero anticipano le varie macchine inutili costruite da Munari nei decenni successivi, allo stesso modo in cui la “fontana giroplastica umoristica” verrà ripensata, rivisitata e riproposta da Munari in diverse occasioni come alla Biennale di Venezia del 1954, alla Fiera di Milano nel 1955, o a Tokyo nel 1965. Un altro elemento di continuità col manifesto di Balla e Depero è il comune interesse per i giocattoli e per una pedagogia rivolta ad amplificare le potenzialità creative dei bambini, un’idea che Munari svilupperà sia con i suoi laboratori pedagogici, diventati famosi in tutto il mondo, sia con una serie di giocattoli, come la Scatola di Architettura MC N. 1 (1945), o come Gatto Meo (1949) e Zizi the Monkey (1953), disegnati per Pirelli.

 

Un altro centro di interesse che accomuna l’esperienza futurista al lavoro di Munari riguarda la rappresentazione del dinamismo in arte. La mostra dell’Estorick documenta in maniera molto precisa la transizione graduale di Munari dal futurismo all’astrattismo, attraverso una prima fase di studio e di preparazione e una successiva di risoluzione formale dei problemi posti dall’esperienza futurista. Come racconterà anni più tardi a Miroslava Hajek: “Sono uscito da quell’esperienza [del Futurismo] perché mi ero accorto che lavorando secondo i modi del Futurismo si usavano tecniche statiche per far vedere cose dinamiche. Per cui quello che i futuristi hanno fatto — mi sembrava allora — era fermare un momento del dinamismo”.

 

In realtà, è interessante vedere come in questa fase di transizione verso l’astrattismo Munari avesse proposto una propria versione di questa presunta “immobilizzazione” del dinamismo futurista. In L’uomo che cammina (1930), per esempio, è evidente come Munari stesse dissezionando la famosa scultura di Boccioni Forme uniche della continuità nello spazio (1913), riducendone il dinamismo intrinseco alla sua struttura geometrica e volumetrica di base. Lo stesso si può dire di A passo di corsa (1932), dove il riferimento ovvio è alle opere di Giacomo Balla Dinamismo di un cane al guinzaglio (1912) e Ragazza che corre sul balcone (1913). Anche in questo caso il dinamismo di un uomo in corsa viene ricondotto a una forma geometrica essenziale. In Uomo in movimento (1931), la stilizzazione geometrica del corpo umano è portata al grado massimo, tanto che ogni elemento residuo di dinamismo è ormai stato convertito in un essenzialismo rappresentativo di carattere geometrico, attraverso una combinazione di un tema futurista con risposte formali prese a prestito dall’astrattismo.

 

 

Saranno comunque le “macchine inutili” l’opera con cui Munari darà una risposta originale al problema del dinamismo in arte, attraverso una sintesi formale che si propone come novità assoluta nel panorama dell’arte italiana di quel periodo. Si tratta, infatti, dei primi mobiles nella storia dell’arte europea, forse debitori di alcune intuizioni di Man Ray (ad esempio Obstruction, 1920)ma che precedevano di qualche anno le ben più famose opere di Alexander Calder. Anche in questo caso, le “macchine inutili” si presentano sin dal titolo come una reinterpretazione ironica della tecnolatria futurista, molto più dada in spirito. Le macchine di Munari non hanno nulla della grandiosità aggressiva delle macchine marinettiane, ma sorridono attraverso un silenzioso minimalismo zen, fatto di carta colorata, pezzi di legno, fili di seta. Allo stesso tempo riescono a introdurre un vero elemento dinamico nella composizione, proponendosi come il primo esempio di arte cinetica in Italia e andando oltre al naturale esaurimento delle possibilità espressive dell’astrattismo pittorico.

 

Come scriverà in Arte come mestiere: “Nel 1933 si dipingevano in Italia i primi quadri astratti che altro non erano che forme geometriche o spazi colorati senza alcun riferimento con la cosiddetta natura esteriore. Spesso questi quadri astratti erano delle nature morte di forme geometriche  dipinte in modo verista. […] personalmente pensavo che, invece di dipingere dei quadrati e dei triangoli o altre forme geometriche dentro l’atmosfera, ancora verista (si pensi a Kandinsky) di un quadro, sarebbe stato forse interessante liberare le forme astratte dalla staticità del dipinto e sospenderle in aria, collegate fra loro in modo che vivessero con noi nel nostro ambiente, sensibili alla atmosfera vera della realtà”.

 

Con queste opere Munari esplorava il continuum spazio-temporale, aggiungendo una ulteriore dimensione, il tempo, alle forme artistiche tradizionali, producendo dei lavori intrinsecamente dinamici e superando il futurismo sul suo stesso “terreno”. Un’ulteriore variazione di questa idea la si troverà poi in Concavo-convesso (1937), una specie di nastro di Moebius costruito con una rete metallica quadrata sospesa al soffitto e illuminata da alcuni punti di luce che componevano delle proiezioni astratte e cangianti sulle pareti della stanza. Si tratta di uno dei primi esempi di arte ambientale o environment in Italia, anticipando la sperimentazione di alcune tendenze artistiche successive come il Neo-dadaismo, l’Arte programmata, l’Arte procesiuale, l’Arte povera o il Minimalismo.

 

Alla fine, seguendo il suo proverbiale “da cosa nasce cosa”, Munari riesce ad andare oltre l’iconoclastismo della retorica futurista, e a costruire il futuro dell’arte (e un futuro per l’arte), pensando in maniera diversa, creativamente moltiplicata, il (proprio) passato.

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