L'orrore del suicidio / A proposito della morte di Dj Fabo

12 Marzo 2017

Colpisce quanto sia stato diverso il modo di congedarsi dal mondo di Lucio Magri e di Fabiano Antoniani, DJ Fabo. Magri ha passato la vita in politica, ovvero ha trovato sempre il volto politico di tutto quel che accadeva; a 79 anni, dopo aver perso sua moglie, ha deciso di andare in Svizzera a sottoporsi al suicidio assistito. Ma non lo è andato a gridare ai quattro venti, ha mantenuto pudicamente questa sua scelta in una dimensione intimista. Invece, DJ Fabo ha passato la vita a occuparsi di musica e motocross, progettava di andare a vivere in India; finché un incidente d’auto non lo ha reso cieco e tetraplegico. Quando ha deciso per il suicidio assistito, ha sentito il bisogno di lanciare un messaggio politico: era una vergogna che dovesse andare a Zurigo per togliersi la vita, che non lo potesse fare nel suo paese. Un messaggio che ha creato un putiferio politico. In effetti, la legge sul testamento biologico sta ferma da anni in Parlamento; una legge, si badi, che riguarda il testamento biologico e che non permette il suicidio assistito: insomma, anche se fosse stata approvata DJ Fabo avrebbe dovuto andare in Svizzera. Pochi paesi europei permettono il suicidio assistito: oltre la Svizzera, la Spagna, la Germania e la Svezia.

Che Fabiano, un uomo di 40 anni, prima di suicidarsi lanci una sfida politica dimostra che, a differenza di Magri, egli pensava comunque alla vita. Anche se alla vita degli altri. Ogni tanto qualche spiritualista lagnoso dice “Bisognerebbe pensare di più alla morte!” Ma non si può pensare alla morte, si può pensare solo – se si vuol pensare ancora – alla vita. Non si può pensare il non-pensiero. Ci si può certo immaginare morti, ma allora si immagina come gli altri vivi ci vedranno morti. La sola morte pensabile è quella dell’altro. 

 

Nel 2013 uscì il film Miele di Valeria Golino, tratto dal romanzo di Mauro Covacich A nome tuo. Miele è il nome che prende una ragazza il cui lavoro consiste nel fornire suicidio assistito a malati gravi, cosa in Italia illegale. La protagonista è bellissima, triste, sobria: miele è la metafora di ciò che lei porta a ciascun malato terminale. Rimproveriamo all’Italia di non aver dato a Fabiano il miele che lui richiedeva.  

 

 

Il peccato elementare

 

Se è permesso il suicidio, tutto è permesso.

Se qualcosa non è permesso, il suicidio non è permesso.

Questo getta luce sull’essenza dell’etica. Infatti, il suicidio è, per così dire, il peccato elementare.

Ludwig Wittgenstein

 

In effetti, si è approfittato del grido di dolore di DJ Fabio per fustigare i parlamentari che non approvano la legge sull’interruzione delle cure mediche per malati terminali. In realtà la legge è ferma per l’opposizione strenua dei parlamentari cattolici, la cui presenza è sostanzialmente trasversale alla maggioranza e all’opposizione; anche il PD ha i suoi teo-dem. Come strenua fu l’opposizione cattolica al divorzio, all’aborto, ai diritti degli omosessuali, alle unioni civili, ecc., insomma ad alcuni punti cruciali di ciò che i cattolici chiamano bioetica, e i laici biopolitica. Oggi che la dottrina sociale della Chiesa, grazie a papa Francesco, coincide per lo più con i temi della sinistra, il vero conflitto tra credenti (in particolare cristiani) e non-credenti investe quasi esclusivamente la sfera biopolitica: il corpo, il sesso e la morte.

Chi è laico, non credente, forse non misura a sufficienza quanto sia repellente il suicidio per un cristiano. 

Sin dai primordi la morale cristiana ha condannato severamente il suicidio. Non erano ammessi nemmeno i suicidi dei martiri cristiani per sfuggire alle persecuzioni, né quelli delle donne stuprate, come la Lucrezia romana, per affermare la loro onestà. Furono poi i concili di Braga (563) e di Auxerre (578) a condannare ufficialmente come peccato gravissimum ogni suicidio. E questo in contrasto con la morale pagana, in particolare con quella stoica, per la quale il suicidio era invece il supremo atto di libertà e dignità.

Nel mondo cristiano il suicidio era non meno grave dell’omicidio, anzi, per molti versi ancor più peccaminoso. All’omicida resta sempre tempo per pentirsi – magari sul letto di morte – ed essere quindi perdonato da Dio. Il suicida invece è destinato sicuramente alle pene eterne perché sembra rendere impossibile questa eventualità. Concludendo la propria esistenza con un peccato colossale, il suicida, privandosi della possibilità di pentirsi in seguito, in modo quanto mai inquietante spossessa Dio dell’infinitezza del Suo potere: quello di perdonare anche il peggior peccatore. Si andò fino al punto da sostenere che il peccato maggiore di Giuda non era stato l’aver tradito Gesù, dato che avrebbe potuto essere perdonato persino per questo, ma l’essersi impiccato.

L’orrore per i suicidî si esprimeva in forme talvolta raccapriccianti. Nell’Europa medievale valeva già il principio del crimen estinguitur mortalitate, che la morte del reo estingue il suo reato – ma non per i suicidi. Questi andavano puniti anche dopo la loro morte,

 

il suicida veniva spesso condannato all’impiccagione, a “morire, per così dire, una seconda volta”, come ha scritto, nel 1721, Montesquieu. In Francia, durante il Medioevo, se a togliersi la vita era un uomo, il suo cadavere veniva “impiccato” […] Spesso tuttavia non ci si limitava ad appenderlo con un capestro a un patibolo, ma lo si sospendeva a una forca, cioè a un palo con due punte. Talvolta si usavano delle forme di esecuzione ancora più degradanti: i corpi venivano legati e lasciati penzolare, a testa in giù, dalla cima di alberi… (Barbagli 2009, p. 47)

 

Nella Sardegna medievale “sul luogo stesso di sua morte il cadavere del suicida era appeso a una forca e lasciato ludibrio ai venti e pasto agli uccelli di rapina”(Besta 1908-9, p. 219). Nel XIII e XIV secolo, in alcune zone della Francia i suicidi, come gli stupratori e gli omicidi, venivano condannati al ravage: i beni che avevano posseduto in vita venivano devastati e saccheggiati dalla popolazione.

Anche chi tentava il suicidio senza riuscirci veniva punito. Si andava dalla semplice pena pecuniaria come a Firenze nel Trecento, dalla fustigazione all’esilio nella Ginevra calvinista del Cinque-Seicento, fino alla crudeltà della Svezia, dove, per secoli, chi aveva tentato il suicidio era condannato alla fustigazione, alla tortura, ai lavori forzati, alla detenzione a pane e acqua, a varie forme di messa alla berlina, e perfino – in modo alquanto paradossale – alla pena di morte.

Il suicidio era contagioso per i viventi. Esso contaminava il cadavere, ma anche la casa del suicida, i suoi campi, le sue greggi, il luogo dove si era tolto la vita e lo strumento usato per farlo. Tutti i beni del suicida andavano distrutti e i luoghi purificati. In Russia si pensava che la terra si rifiutasse di accogliere questi “morti impuri”, che non riuscivano a decomporsi.

Certo negli ultimi due secoli, da quando il nostro atteggiamento nei confronti del suicidio è diventato molto più indulgente, la posizione delle chiese cristiane su questo atto si è addolcita, e i credenti sono venuti a patti, come in tante altre cose, con la mentalità secolarizzata. Eppure, l’imprinting – la condanna senza appello del suicidio, anche eutanasico – resta nei riflessi spirituali di ogni cristiano vero. Per questi, la vita è un dono che non può essere mai restituito al mittente.

Si ritrova questo orrore per il “peccato elementare” – come lo chiama Wittgenstein nel nostro esergo – in quasi tutte le posizioni bioetiche conservatrici, nella misura in cui derivano dai principi cristiani. Anche quando il credente conservatore rifiuta a parole l’accanimento terapeutico, di fatto non solo non può accettare nessuna forma di eutanasia – che, se richiesta dal malato stesso, per lui non è altro che un suicidio – ma di fatto nessuna forma di rinuncia alle cure mediche o una loro sospensione, né può tollerare la rinuncia ai sistemi che prolunghino la vita.

Questa posizione radicalmente pro-life, come loro stessi la chiamano, si basa a sua volta su un assunto più generale, che chiamerò zoocentrico.

 

 

Religione zoocentrica

 

Lo zoocentrico è di solito un credente in qualche religione monoteista. Egli considera sacra non l’anima, la coscienza, ma la nuda vita biologica umana. Il dato della vita – o meglio, la vita data – è più importante del vissuto soggettivo. Per lui la vita da tutelare è zoé, la vita animale dell’essere umano, per quanto possa essere scervellata. I greci distinguevano in effetti la zoé, intesa come nuda vita, da bíos che era la vita organizzata, strutturata, anche non fisica. Zoé è la vita come funzionamento biologico, indipendentemente dallo sviluppo della coscienza e del linguaggio.

Le religioni monoteiste riservano a questa vita animale dell’essere umano la massima dignità. Così il concepito, anche se ancora non ha un sistema nervoso e quindi non può avere consapevolezza di vivere, va difeso come qualsiasi altra vita umana. L’aborto è un omicidio, né più né meno. Distruggere embrioni umani è un omicidio. Si ricorderà il caso di Eluana Englaro: questa ragazza, vittima di un incidente stradale all’età di 22 anni, rimase per 17 anni in stato puramente vegetativo finché suo padre non ottenne, dopo un lungo iter giudiziario, di far sospendere l’alimentazione della figlia, lasciandola morire nel febbraio 2009. Ora, per i cattolici la vita amente di Eluana andava salvaguardata, anche se la sua “anima” non c’era più. L’anima secondo il credente è una sorta di doppio della vita vegetativa: la psyche di chi è in coma o del feto nei primi mesi ha la stessa dignità della psyche di un filosofo eminente nel pieno esercizio delle sue facoltà. L’anima immortale non è connessa alla coscienza e al sentire, ma al semplice corpo umano vivo. Insomma, nella tradizione cristiana l’anima non coincide affatto con il cogito, “io penso”: quest’ultimo è come un ectoplasma non essenziale di un organismo umano. L’anima est anche se non sa dire “cogito”. Descartes era cristiano, ma il cristianesimo non è cartesiano. Non il cogito è sacro, ma la zoé.

 

 

Invece il pensiero laico moderno – che chiamerei invece noocentrico, da nous, mente – tende a identificare cartesianamente l’anima, la psiche, con la coscienza compiuta, anzi, con la capacità di auto-coscienza, di dire “io sono, io esisto”. Perciò il laico vede nel credente una franca zoolatria. Un culto della bruta vita biologica.

I grandi monoteismi riservano però questa zoolatria ai soli esemplari della specie Homo sapiens. Lo zoocentrico protegge fortemente la vita ridotta ad animalità o a vegetalità, purché sia vita umana. Direi anzi che il credente conservatore nutre una diffidenza profonda per l’etica animalista.

Questo zoocentrismo implica che si respinga il suicidio come uno dei peccati più gravi: l’importante è che chiunque viva, non importa se lo voglia o meno. Se qualcosa assolutamente si deve volere, è vivere. Vivere è un obbligo. Occorre difendere non la soggettività, ma la vita umana in quanto vita.

A una condizione però: che questa vita non sia moralmente colpevole. Qui cogliamo una differenza, oggi, tra la morale cattolica moderna, che per lo più respinge la pena capitale, e la morale di molte correnti protestanti che invece la ammettono. Per molti credenti conservatori protestanti la colpa morale e il delitto fanno perdere al soggetto il suo diritto a vivere: lo si può uccidere legalmente. La posizione zoocentrica protestante assolutizza la vita di Homo sapiens solo a condizione che una soggettività colpevole non la relativizzi. La zoé umana è divina, ma se un nous, una mente umana, toglie la zoé a un altro – commette un omicidio – questo soggetto ipso facto annulla la divinità della propria. Lo zoocentrismo tutela assolutamente la vita umana solo se non si è affermata una soggettività trasgressiva. Per il credente, il nous determina il diritto alla vita solo in modo negativo. 

 

Nietzsche aveva parlato di filosofia dell’Ultimo Uomo. Per questi, il solo valore è vivere, non importa altro che vivere. Quella del credente monoteista mi sembra essere piuttosto una filosofia della Vita Prima. La vita va assolutamente difesa perché non è scelta da chi vive: Dio l’ha scelta per lui. E nemmeno la nostra morte è scelta da noi – a parte appunto il caso mostruoso del suicidio. In effetti, come abbiamo visto, se la soggettività prende la guida della vita biologica fino a portarla all’omicidio, la vita cessa di essere sacra. Così, certi delitti che paiono assurdi ai laici – come, in America, i tentativi di uccidere medici che praticano aborti – sono corollari di questa logica: la vita del medico abortista, in quanto questi è assimilato a un assassino, cessa di essere sacra. Perché un eccesso di soggettività – di nous, di mente – distrugge il diritto alla zoé. Per il credente, la soggettività (e il libero arbitrio che esso implica), lungi dall’essere una semplice propaggine della vita, può rivelarsi, in certi casi, uno strumento di completa sdivinizzazione della vita. Nel fondo, i monoteismi temono la soggettività, dato che questa è per sua essenza – come hanno sempre pensato gli agostiniani – colpevole.

 

 

Culto della fecondità

 

I laici non capiscono perché i credenti ci tengano tanto a mantenere in vita corpi in coma e abbiano invece molta comprensione per chi intraprende la carriera militare o va in guerra. È vero che la chiesa cattolica si è convertita ormai al pacifismo. Ma il pacifismo cattolico non è mai giunto al punto da scomunicare i militari di carriera, o i boia, o soldati che acconsentano alla fucilazione di loro compagni. Esistono cappellani cattolici. Perché due pesi e due misure?, si chiede stupito il non credente. Perché tanta severità con chi aiuta un altro a morire, e tanta accondiscendenza per chi uccide per mestiere?

Il punto è che un militare è supposto uccidere altri militari, ovvero persone che hanno scelto di mettere a repentaglio la loro vita. Il boia uccide un condannato che, scegliendo di compiere un atto criminale, ha esercitato la sua volontà. Per il credente, uccidere chi esercita il proprio arbitrio disponendosi a uccidere o uccidendo, è del tutto diverso dall’uccidere una vita senza più volontà, o la propria. Per il cristiano, la soggettività umana, esprimendosi nel delitto o nella guerra, perde per questo la propria sacralità. La vita davvero sacra è solo nuda vita, in-volontaria. 

Questo disinteresse etico per chi uccide chi a sua volta è disposto a uccidere risale ai primissimi secoli della cristianità. Ad esempio, alcuni scrittori cristiani e Padri della Chiesa dei primi secoli avevano condannato i giochi di gladiatori che allora si praticavano, ma non per difendere la vita di chi aveva scelto di metterla a repentaglio (contrariamente a quel che mostrano i polpettoni cinematografici americani, i gladiatori erano sempre volontari). Invece condannavano quei giochi perché il divertimento dato dagli spettacoli cruenti allontanava le anime dal pensiero di Dio. In qualche modo, i Padri della Chiesa davano per scontato che i duelli tra gladiatori fossero molto divertenti, l’orrore per le vite destinate alla morte non era preso in conto: era piuttosto indicato come pericoloso un piacere considerato del tutto comprensibile. La lotta tra gladiatori veniva condannata per le stesse ragioni per cui oggi si condannano gli spettacoli erotici.

 

Ad esempio, laici e liberals reagirono con sdegno al fatto che papa Benedetto XVI, in un viaggio in Africa nel marzo 2009, dichiarasse che l’uso del preservativo non è la risposta giusta all’epidemia di AIDS. Quel che risulta loro incomprensibile non è tanto il fatto che la chiesa cattolica attacchi uno dei modi principali con cui, di fatto, si limita il contagio: è piuttosto il fatto che un papa si preoccupi di quel che si fa in rapporti sessuali extra-coniugali, che la chiesa considera comunque peccaminosi. Il fatto che non si usi il preservativo rende un rapporto sessuale fuori dal sacro vincolo del matrimonio meno peccaminoso per questo? Il laico non capisce che cosa spinga un papa a intervenire nella vita sessuale di islamici e libertini.

È vero che la chiesa critica il preservativo proprio perché è segno e strumento di rapporti liberi, peccaminosi: critica obliquamente il libertinaggio come causa dell’epidemia di AIDS. Ma allora perché non focalizzarsi sul fatto che la fedeltà coniugale sarebbe di fatto un formidabile rimedio alla diffusione dell’AIDS? 

 

 

La risposta è che per la mentalità cattolica il preservativo è dannato proprio in quanto esso è anche anti-concezionale. In un certo senso, il cattolico vede il concepimento come un effetto positivo di un comportamento negativo: la nascita di una nuova vita umana – fatto sacro di per sé – riscatta in parte l’agire disordinato. Mostra che dal male può nascere, letteralmente, il bene. Siccome il credente tende a interpretare i casi naturali come volontà di Dio, rinunciando alle cautele antifecondative la coppia peccatrice ridà pertinenza alla volontà di Dio. La hybris di una sessualità sregolata si calma nell’abbandono fatalista al puro caso, esso sì veramente divino.

Il laico, ad esempio, trasecola quando la chiesa cattolica si oppone a ogni forma di riconoscimento giuridico (per non parlare del matrimonio) di coppie omosessuali: perché la chiesa vuol mettere il becco in unioni puramente civili? Perché non condanna allora anche i matrimoni civili tra eterosessuali? Perché il fulcro – non sempre esplicitato – del pensiero cattolico è che una coppia sposata solo civilmente può essere feconda, mentre una coppia gay no. Questa differenza è determinante per il credente. Ogni sessualità, se feconda, viene come sacralizzata retroattivamente.

 

 

4. Ultimo Sé

 

Invece, per la posizione noocentrica laica conta il soggetto che desidera, sente e decide; il soggetto del cogito. Così, per il laico nel conflitto d’interessi tra il feto dei primi mesi e la madre, l’interesse della madre – soggetto cogitante, capace di dire “penso dunque sono” – deve prevalere. Nella misura in cui Eluana Englaro era ridotta a mera vita biologica, era già morta come soggetto, quindi la sua zoé non aveva più valore. Se la volontà del soggetto [quando era] cogitante era o è di farla finita, questa volontà va esaudita. Il valore supremo da tutelare è la libertà del singolo, quindi anche la sua decisione di vivere o meno (in questo anche il pensiero marxista, nel fondo, è liberale). Il laico di sinistra, lungi dal condannare moralmente il suicidio, ne ha profondo rispetto: persino quando la decisione suicida accompagna una crisi depressiva – come era probabilmente nel caso di Magri – la decisione di togliersi la vita tende a essere assimilata all’atto stoico – libero - per eccellenza. Per il liberal il suicidio è espressione della libertà del singolo nei confronti del determinismo del mondo naturale. Ma se la soggettività è sacra, essa non va eliminata nemmeno nel caso in cui essa abbia potuto commettere un crimine orrendo: siccome Caino è un soggetto pensante, la sua vita è intoccabile. “Nessuno tocchi Caino!” Eliminare un Sé è comunque un crimine. Parafrasando Nietzsche, possiamo dire che quella liberal è una filosofia dell’Ultimo Sé.

 

La posizione laica liberal si espone certo a critiche. Si prenda la lunga battaglia del padre di Eluana Englaro, Beppino, per giungere per vie assolutamente legali alla cessazione dell’alimentazione forzata della figlia: il fulcro della sua lotta etico-politica consisteva nel far rispettare così la volontà di lei, espressa quando era ancora un soggetto consapevole. Ma cosa fare se la persona in coma non ha avuto modo di esprimere prima la propria volontà, come fu nel caso di Therry Schiavo in America? Ora, il laico liberal in questo secondo caso propende per la sospensione delle cure o dell’alimentazione: per lui un corpo senza psyche è un non-essere, un quasi-nulla. Ma allora perché battersi per porre termine a quella vita vegetativa? Ora, la posizione laica parte dall’assunto che una persona in coma da molti anni non provi nulla, come se traversasse un lungo sonno senza sogni. Ma allora, a questo punto, perché non lasciare indefinitamente la cura di questa non-soggettività a chi intende perpetuare quella vita senza mente? Le monache che alimentavano ogni giorno Eluana proponevano proprio questo: “Se per voi questa ragazza è solo un mero corpo, perché non lo affidate a noi, per le quali si tratta di un corpo sacro? Perché ci tenete tanto a uccidere qualcuno che per voi è già morto?” Come il laico può giustificare una sua battaglia per “il diritto di morire” in casi in cui il soggetto, per lui, è già morto?

Un altro punto delicato riguarda chi ha un Alzheimer molto avanzato o soffre di una demenza senile profonda. Nessun laico propone l’eutanasia dei malati di Alzheimer o di altre demenze gravi, ma questo può apparire in contraddizione con la premessa di fondo della morale laica, per la quale conta la mente e non il corpo degli individui. Anche il laico a un certo punto sembra inchinarsi alla sacralità della zoé.

Non c’è qui lo spazio per ricostruire il dibattito a questo proposito. Del resto, il mio intento non è legittimare razionalmente una posizione etica piuttosto che l’altra. Non credo che funzione del filosofo sia quella di avallare ideologie, ma di ricostruirne la logica interna, diciamo profonda. 

In definitiva, per il cristiano è sacra la vita in quanto è data dall’Altro; per il laico liberal è sacra la volontà del soggetto in quanto questa proviene da Sé. A una religione (autoritaria) dell’Altro si contrappone l’autorità (religiosa) del Sé. Le due posizioni polari sono quindi due facce dell’epoca dell’Ultimo Uomo secondo Nietzsche: in una conta solo la vita biologica che va mantenuta a ogni costo, nell’altra conta solo la volontà cosciente che va mantenuta a ogni costo. 

 

 

Più vita!

 

La verità è che per il credente la produzione della vita, avere più vita, è un fatto positivo in sé. Di solito il credente autentico non lo dice per non risultare impopolare, ma nel fondo il fatto che siamo oltre sette miliardi di umani su questa terra è per lui motivo di soddisfazione. Se fossimo 40 miliardi sarebbe ancora meglio, anche se questo creerebbe terribili problemi di povertà, inquinamento, sovraffollamento… Ma appunto, per il credente la vita come zoé è cosa benedetta anche se vi si soffre. Nessuna sofferenza, per quanto orrenda, potrà mai annullare la positività della vita in sé. Alcuni movimenti all’interno delle chiese del resto prendono questa valorizzazione della vita alla lettera. I neo-catecumeni, per esempio, si vantano di produrre tantissimi figli, anche quando sono famiglie povere. Li ho visti sfilare con la loro coorte di marmocchi di ogni età, tutti fieri di essere vita. Anche se forse in questo papa Francesco potrebbe segnare una svolta epocale. 

In un discorso tenuto nelle Filippine il 19 gennaio 2015, papa Bergoglio ha detto ai milioni di fedeli: “I cattolici non devono far figli come conigli”. Questa raccomandazione tenue, quasi ironica, rappresenta una rottura decisiva rispetto a quello che negli ultimi secoli si è coagulato come “il sentire cattolico”. Esso sembra rompere con la sacralità della vita come zoé che ha fatto da modello e paradigma dell’etica cattolica per millenni.

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