Kent Haruf / Holt, il luogo che non c’era

13 Maggio 2017

“Quante volte sono entrato e uscito da quella porta. Non è così, Mary? Secondo te quante volte, caro? Sei giorni alla settimana, cinquantadue settimane all’anno per cinquantacinque anni, rispose lui. Quanto fa? Fa una vita intera. È vero. È la vita di un uomo, disse Dad.”

 

Alla fine de Le nostre anime di notte, quarto libro di Kent Haruf uscito in Italia (e anche l’ultimo romanzo da lui scritto prima della morte nel 2014), c’è una mappa, quella di Holt. Holt è una cittadina del Colorado che i lettori di Haruf hanno imparato ad amare; è lì, infatti, che sono ambientati i suoi quattro romanzi pubblicati da NN editore: Benedizione, Canto della pianura, Crepuscolo (che compongono la Trilogia della pianura) e Le nostre anime di notte, appunto. Holt che però non esiste, è un luogo inventato, potrebbe essere Yuma, o qualsiasi altra piccola città di una sperduta contea nordamericana.

 

 

Cosa c’è a Holt? Come è fatta? Non mancheranno una Mainstreet, poi una strada che va verso i campi, e subito dopo i campi, e oltre i campi le montagne, una o due macchine ferme a un incrocio, gente che si saluta, un’altra macchina che va fuori città, un furgone che svolta su una Highway, e poi una casa, una veranda sul portico, lattine di birra o del tè freddo, qualcuno seduto a parlare ma più spesso a tacere e ogni tanto a buttare lo sguardo fin dove è possibile. Ci saranno infiniti silenzi, torride estati, un temporale improvviso, una nevicata e poi vento e ghiaccio, e un cielo di un azzurro limpido che di più non si potrebbe. Ci sarà un autunno giallo di foglie cadute e prima dell’autunno un raccolto buono o meno buono. Ci saranno cavalli e mucche al pascolo, tori da monta; e ci sarà una sera verso la fine di un novembre in cui uno dei personaggi, magari un anziano, si accorgerà che il soffio del vento è diverso e sentirà il nuovo inverno alle porte. Ci saranno case basse, vicini alle finestre, agricoltori e scuole, piccole attività, il pub, il bar, il supermercato.

 

Holt è più o meno così, così l’ho immaginata; l’hanno resa indimenticabile il peso delle storie dei suoi abitanti e la bellezza della prosa di Haruf che ha descritto ogni piccolo accadimento, e così, per i lettori, ogni piccolo accadimento è diventato eccezionale.

 

La letteratura nordamericana che preferisco, quella che ha a che fare con una sorta di sacralità è quella della terra, dei rituali, dei conflitti combattuti e taciuti per decenni e ha a che fare con i cambiamenti (soprattutto) interiori mentre fuori si alternano le stagioni e il ridipingere di steccati e passa da queste cose, da luoghi come Holt – dove forse non vivremmo – ma diventano familiari, passa da McCarthy, da Faulkner, da Carson McCullers, da Sherwood Anderson, da John Williams, passa dalla pietra e dalla religione, dal dolore al calore, dalla vita alla morte, dalla morte a Dio, e da un paio d’anni a questa parte passa da Kent Haruf.

 

“Erano stanchi e spenti. Scaldarono sul fornello una zuppa in scatola che mangiarono al tavolo della cucina, poi misero i piatti in ammollo e si spostarono in salotto per leggere il giornale. Alle dieci accesero il vecchio, massiccio televisore in cerca di un notiziario qualsiasi proveniente da qualunque punto del mondo, prima di salire le scale e buttarsi a letto sfiniti, ciascuno nella propria stanza ai due lati del corridoio, confortati oppure no, demoralizzati oppure no, da ricordi e pensieri familiari logorati dal tempo.”

 

In Italia, della Trilogia della pianura è uscito per primo Benedizione, l’ultimo dei tre, per ragioni che NNeditore ha spiegato. Ragioni romantiche, giuste e legate alla storia dei primi passi della casa editrice milanese; ma se vogliamo capire bene il modo di scrivere di Haruf, le storie che intendeva raccontare, le scelte compiute di volta in volta per arrivare al punto e quindi al lettore, faremo bene a tener presente che, di Trilogia della pianura, Benedizione è il terzo libro.

 

L’ordine è questo: Canto della pianura, Crepuscolo, Benedizione e Le nostre anime di notte.

Ritengo, comunque, che il quarto romanzo non sia slegato dalla trilogia, se vogliamo, è una costola, una certificazione, una conseguenza, il dettaglio finale sulla contea di Holt. Si potrebbe, invece, tentare, se teniamo presente il modo di raccontare e le scelte lessicali o di ambientazione di Haruf, una separazione a blocchi: Canto della pianura e Crepuscolo sono scritti in un modo, Benedizione in un altro e Le nostre anime di notte in un altro ancora (seppur più vicino a Benedizione); con il terzo romanzo da considerare come vertice della scrittura di Kent Haruf, il suo capolavoro.

 

Canto della pianura e Crepuscolo

I primi due romanzi sono corali, anzi polifonici. I protagonisti sono più o meno una dozzina, tutti contribuiscono sostanziosamente allo sviluppo della trama. La maggior parte dei personaggi è presente in entrambi i libri,le storie si intrecciano e si completano, potrebbe trattarsi anche di un lungo romanzo unico. Gli elementi dominanti sono la vita e il tempo. I nomi dei personaggi sono: Ike, Bobby, Victoria, Tom, Ella, Maggie, gli indimenticabili fratelli McPheron, e poi Luther e Betty e i loro figli, Rose Tyler, Dena e Dj, e così via.

 

Tom è il papà di Ike e Bobby, due ragazzini in gamba. Tom insegna, Ella, sua moglie, passa il tempo chiusa in una stanza, poi in un’altra casa, poi in un’altra città. Si tratta di abbandono della famiglia? Più probabilmente è sofferenza, è depressione, è solitudine. Maggie è un’altra insegnante, sarà lei a occuparsi di Victoria, adolescente incinta cacciata di casa dalla madre. Maggie è una donna saggia, non è la sola. Propone ai due fratelli McPheron, Harold e Raymond, che vivono in una fattoria fuori città, dove lavorano e spendono i giorni nella loro perfetta solitudine, di accogliere Victoria in casa almeno fino al parto. Alcuni di questi personaggi torneranno in Crepuscolo. Qualcuno un po’ defilato come Tom e Maggie, o Victoria che, diventata madre, prenderà saldamente in mano la propria vita, allontanandosi da Holt per studiare; ma tornando a far visita agli amati Harold e Raymond ogni volta che potrà. Faranno la propria comparsa Luther e Betty, incapaci di badare a se stessi e ai propri figli ma capaci di muovere il lettore a compassione, perché compassionevole è chi li ha inventati; e poi Rose Tyler donna fuori dal comune che sa stare al mondo, sa aiutare e sa ballare. E l’amicizia tra due ragazzini creerà, come sempre sanno fare i più piccoli, codici più saldi di quelli degli adulti.

La polifonia della pianura ci porta nei sentieri di Haruf che sono fatti di speranza per l’umano e dal senso di appartenenza a una comunità; di come una piccola comunità possa distruggere qualcuno e salvare qualcun altro. A Kent Haruf stanno a cuore il tempo e le persone, i comportamenti di uomini e donne davanti a situazioni impreviste e come si muovono nelle cose di tutti i giorni,e per raccontarlo mette in scena un grande spaccato della provincia americana, grazie a una splendida prosa e a uno sguardo mai cinico.

 

Prosa precisa e diretta che andrà asciugandosi nei romanzi successivi. Di questi primi due romanzi non ci toglieremo mai più dalla testa Harold e Raymond, i due burberi dal cuore d’oro; due vecchi sempre pronti a rimettere tutto in gioco per dare una mano, per far sì che la vita prosegua. Due vecchi capaci di prendersi cura delle persone. Li lascio con una citazione di un bellissimo passaggio di Crepuscolo, quello in cui Rose insegna a Raymond a ballare.

 

“No signora. Non riesco a pensare al ritmo e a non pestarle i piedi allo stesso tempo. Ascolti la musica. Ci provi, almeno. Iniziò a contare il tempo a bassa voce, guardandolo in faccia, e lui le restituì lo sguardo, soffermandosi sulle sue labbra. Aveva un’aria concentrata, quasi sofferente, e si teneva indietro per non starle troppo addosso. Si muovevano nella pista tra gli altri ballerini. Rose continuava a contare. Fecero un giro completo. Poi la canzone finì. Bene, grazie, disse Raymond. Adesso mi sa che è meglio se ci sediamo. Perché? Sta andando bene. Non si è divertito? Non so se divertito è la parola giusta. La donna sorrise. Lei è un uomo gentile, disse. Non so neanche questo, rispose lui. Il gruppo riprese a suonare. Oh, disse lei. Un valzer. Il tempo è tre quarti. Se lo dice lei. Rise. Si lo è.”

 

Ph: Aows. 

 

Benedizione

Il primo ribaltamento riguarda il subentro della malattia e della morte, inevitabili conseguenze dello scorrere del tempo. Un’altra importante differenza rispetto ai primi due romanzi è l’ambiente in cui si susseguono i capitoli.

Gran parte della storia si svolge nella casa del protagonista e nel suo negozio di ferramenta (negozio che – come sappiamo – nelle piccole cittadine americane vende quasi tutto, comunque molto più di un martello o di un cacciavite) e conta molto più quello che è accaduto rispetto al poco che sarà. Sono le ultime settimane di vita di Dad, è una caldissima estate in Colorado. Dad, assistito da Mary, sua moglie, e da Lorraine, sua figlia, vedrà i suoi giorni scemare come quando il pomeriggio si fa crepuscolo e poi notte fonda. Dad trascorrerà le giornate dalla camera da letto alla poltrona, dalla poltrona al portico. Passeranno a trovarlo gli amici, i vicini.

Gli faranno visita ricordi e rimpianti; dolori forse più duri da sopportare di quelli provocati dal cancro. Gli farà visita il peso dell’assenza del figlio, andatosene via troppo tempo prima; fuori dalla sua casa si svolgeranno altre piccole ma significative vicende come quella di un prete cacciato da Denver, esi parlerà di pregiudizio e di relazioni. Il fisico cederà lentamente, giorno dopo giorno. Resisterà, d’altro canto, una compostezza interiore, un’idea di rettitudine – qualche volta sbagliata – ma impossibile da cambiare per chi è nato da troppi anni e ha soltanto lavorato, per chi è vecchio e sta per morire. Dad è stato un uomo duro e, a suo modo, giusto e buono, sappiamo poco del suo prima, eccetto qualche piccolo flash, ma dell’uomo che è stato e che è ci diranno Mary e Lorraine.

 

Ce lo spiegherà Haruf attraverso la tenerezza di chi assiste e si prepara alla morte di un caro aggiungendo amore come se fosse una coperta in più, perché è così che ci si prepara a un distacco, stando più vicini possibile. Benedizione è una storia che salva. Rispetto ai primi due romanzi qui accade molto poco, ma quel poco è ogni cosa. Il perdono, l’amore, il rimpianto, il rimorso, il dolore, la malattia, il silenzio; Haruf scrive la storia perfetta asciugando tutto il superfluo e riuscendo a mostrarci tutto il cuore umano mentre fuori dalla casa di Dad non si muove una foglia. Disegna la simbiosi perfetta tra uomo e territorio con dialoghi brevi; qui ogni parola o gesto tendono all’indimenticabile.

 

“Sembra una specie di benedizione, una benedizione a doppio taglio, disse Lyle. Dad lo guardò. Eh, sì. Un sacco di volte le benedizioni non sono andate per il verso giusto. Deve averne viste parecchie nel corso della sua vita. Sono cresciuto in Kansas, nelle pianure occidentali. Ne ha visti di cambiamenti. Giusto un paio.”

 

 

Le nostre anime di notte

Fabio Cremonesi (l’ottimo traduttore di tutti e quattro i romanzi) nella nota in coda al libro marca due differenze sostanziali con i precedenti libri; sottolinea l’importanza del tempo e l’urgenza che vive Haruf sapendo di non averne molto a disposizione e un’ultima storia che andava raccontata. E, ancora, Cremonesi spiega che Haruf nei primi tre romanzi si è occupato – a suo avviso – della Working class, tracciandone un’epopea mentre nel quarto romanzo ha messo in scena un’elegia della Middle class.

 

Sono d’accordo con Cremonesi, ma c’è dell’altro. Le nostre anime di notte pur non avvicinandosi alla perfezione di Benedizione, proprio per l’urgenza con cui è stato scritto, ha con quel libro molti punti in comune: il rimpianto e la presenza della morte, che incombe negli “ormai è troppo tardi”, per esempio. È accaduto molto di più di quello che potrà ormai accadere. Addie e Loius provano a battere il poco tempo rimasto prendendolo per mano e tenendosi per mano. Sono entrambi vedovi. Addie una sera va a casa di Louis e gli chiede di andare a dormire da lei, da quella notte, per farsi compagnia, per raccontarsi la vita. Così faranno e funzionerà per un bel pezzo. Naturalmente nella piccola comunità di Holt questa relazione non piacerà, come non piacerà ai figli dei due. Sono considerati scandalosi, loro due, anziani in pigiama che si tengono per mano e si raccontano quel che è stato.

Addie e Louis sono altri due personaggi straordinari, fanno venire voglia di invecchiare.

 

Questo libro è per i lettori di Haruf una specie di carezza. Se prima avevamo visto la vita e la morte e la malattia qui vediamo – nella vecchiaia – un meraviglioso tentativo di rinascita; è come se la vera “benedizione” si sciogliesse tra le mani di due vecchi che è tutto quello di cui abbiamo bisogno. Anche tra queste pagine le frasi sono dirette, i protagonisti sono soltanto due, molto si svolge in una camera da letto.

 

“È così che iniziò? Sì, il giorno della dichiarazione dei redditi. Sembra una follia, no? Non so. Queste cose succedono nei modi più strani. Tu ne sai qualcosa. So come accadono le cose nella vita delle persone. Lo spieghi anche a me? Magari. Un giorno o l’altro.”

 

Haruf è partito con dieci carte da gioco, poi le ha ridotte a sei, poi a quattro e infine a due, e non ha mai sbagliato una mano. Ha inventato un luogo che non c’era e ci ha raccontato che quel luogo avrebbe potuto appartenerci; ci ha lasciati nella stanza da letto di Addie, dopo averci portati nella fattoria di Harold e Raymond, nel negozio di ferramenta e nella casa di Dad, in giro in bicicletta a portare i giornali con Ike e Bobby, ci ha portati a casa.

 

Libri:

Benedizione, NN editore, 2015.
Canto della Pianura, NN editore, 2015.
Crepuscolo, NN editore, 2016.
Le nostre anime di notte, NN editore, 2016.

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