Intervista impossibile della sua traduttrice / Il mago di Oz si racconta

21 Novembre 2017

Oggi esce il volume I libri di Oz nella collana I Millenni di Einaudi, che ho curato e tradotto e che Mara Cerri ha illustrato. Si tratta dei quattordici libri che Baum scrisse attorno al mondo di Oz, narrando le avventure del Mago, di Dorothy, ma anche di molti altri straordinari personaggi: bambine coraggiose, asini saggi, sovrani senza regno, donne con trenta teste, uomini di paglia, di ferro, di latta… Per la prima volta in Italia questi splendidi racconti si possono leggere tutti di fila, raccolti in un solo libro di quasi mille pagine, come fossero capitoli di un’unica poderosa storia. In occasione di quest’uscita Doppiozero mi ha commissionato un’intervista all’autore del ciclo di Oz, Lyman Frank Baum. Per mesi e mesi ho trattenuto la sua voce nelle orecchie, nel tentativo di farne emergere il colore, la grana, la temperatura, nelle parole che traducevo: Baum è stato il compagno più assiduo, possessivo, comprensivo ed esigente al contempo che potessi immaginare per i miei giorni e le mie notti. Mi ha posto questioni nodali, mi ha fatto ridere, mi ha commossa. Soltanto in nome di questa conquistata familiarità, dunque, mi permetto adesso di intervistarlo.  

 

C. L. Signor Baum, mi consente una domanda?

L.F.B. Volentieri. Qual è l’argomento?

 

Le storie di Oz. Ho appena tradotto i suoi libri su Dorothy, il Mago e…

Un altro impostore. 

 

Il Mago?

L.F.B. No, lei. Credete tutti di poter passare da una lingua all’altra come se fosse naturale. E invece è una cosa mostruosa.

 

Veramente…

Una volta conoscevo una ragazza che rischiò di far cadere un regno facendo da interprete a due stranieri.

 

Ma non è andata proprio così. Perché lei parla di Jellia Jamb, immagino, la ragazza del suo secondo libro, vero?

 

 

Jellia, sì. La furbetta si è approfittata di quello zuccone di Jack e del Re Spaventapasseri: loro non si capivano e lei si è messa a tradurli.

 

Però, alla fine, non si è molto sforzata. Voleva divertirsi e così ha giocato a far l’interprete, ma in realtà quei due parlavano già la stessa lingua.

Tutti a Oz parlano la stessa lingua, compresi Jack e lo Spaventapasseri. Solo che quei due credevano di aver bisogno di un’interprete per poter comunicare.

 

Sono cose che capitano spesso. Jellia non ne ha nessuna colpa.

Sì, ma ugualmente si è comportata da impicciona: l’ho sempre pensato che Jellia fosse una bambina troppo curiosa.

 

Beh, considerata la stranezza degli interlocutori, credo che la si possa comprendere. Io la capisco, almeno.

Lo vede che ho ragione? Siete tutti uguali, sempre a voler portare il vostro punto di vista nelle cose degli altri.

 

Io però spero di non avere stravolto le sue storie: lei è un autore che…

No, guardi, io non sono un autore, sono uno Storico. Lo Storico Reale di Oz. Mi scusi la puntualizzazione, ma questa è una cosa a cui tengo moltissimo.

 

Mi scusi lei. Questa questione dello storico, però, io ho sempre pensato fosse un altro suo gioco meraviglioso.

Su questo si sbaglia; è stata, fin dal principio, una questione di pura sopravvivenza.

 

Si spieghi meglio, per favore.

Vede, i miei deliziosi tiranni non mi lasciavano più vivere. Sempre a chiedermi una nuova storia, purché parlasse di Oz naturalmente, o di Dorothy e degli altri amici di quel pazzo mondo. Non potevo più scrivere di nessun altro argomento, e dire che ne avevo molti in testa! Ma non solo: non riuscivo più a mangiare, a dormire, a respirare! 

 

I suoi tiranni? Parla dei bambini, i più fedeli tra tutti i suoi lettori? Ma allora non è una leggenda quella delle migliaia di letterine che le spedivano?

Lasci stare, per carità. Non passava giorno che la buchetta non si riempisse di missive: arrivavano a due, a tre, a decine! E tutte contenevano nuove domande, spunti narrativi, perfino idee, e talora geniali! E io… cosa potevo fare? Io, nella vita, non ho mai saputo dire di no a nessuna richiesta accorata di un bambino.

 

Ma in fondo le faceva anche piacere, no? Non vorrà farmi credere che subiva il suo destino di scrittore amato e famoso come una punizione?

Non ho detto questo. Ma si metta nei miei panni. Io ero costretto a scrivere gli altri miei libri di nascosto, sotto pseudonimo; pochi sanno che, oltre a quelli di Oz, ho dato vita a molti altri racconti: storie per bambini, ma anche per adulti. Ha mai letto lei, che dice tanto di avermi tradotto, che so… ad esempio… Le figlie del destino?

 

No, mi dispiace, non l’ho letto.

Ma sono io l’autore! Non si senta in colpa, però, perché praticamente nessuno l’ha mai saputo (e forse avrei preferito non saperlo neppure io!).

 

Dunque lei è diventato lo Storico di Oz soprattutto per difendersi dall’assalto dei bambini, che le chiedevano di essere il loro personale autore ventiquattr’ore su ventiquattro?

Infatti. Se accettavano il fatto che io fossi lo Storico, avrei potuto prender tempo, perché la Storia ha bisogno di ricerche, di una raccolta di documenti. La Storia deve permettere ai fatti di accadere prima di potere raccontarli. Avevo detto ai bambini che il Regno di Oz era diventato invisibile, perché la Principessa Ozma voleva difenderlo dai nemici e dai curiosi. E io, naturalmente, avevo bisogno di più tempo per reperire nuove fonti. Se mi chiedevano, ad esempio: ma che è successo al Boscaiolo di Latta in seguito? Ha ritrovato la sua antica fidanzata di un tempo? Io potevo sempre dire loro: abbiate un po’ di pazienza, mi metto subito alla ricerca di prove, di testimonianze, ma ci vorranno mesi, forse anni per potervi rispondere, perché non posso più recarmi personalmente nel Paese dei Munchkin per scoprirlo!

 

Ma poi iniziò la storia del telegrafo…

Sì. Uno dei bambini si fece venire in mente che potevo contattare Dorothy in persona, se volevo, anche senza sapere dove si trovasse Emerald City: bastava adoperare il telegrafo senza fili. E allora mi è toccato ricominciare: scrivevo sotto dettatura.

 

Sotto dettatura?

Beh… in un certo senso era la stessa Dorothy a comporre, attraverso di me, la sua storia.

 

Questo mi fa pensare a un’altra bambina, non so se si chiamasse Dorothy, ma certo era una delle sue lettrici. Un giorno l’ho sentita dire che la Storia è «qualcuno che si vede, una cosa che si legge nel pensiero». Capisco solo ora che pensava a lei, signor Baum. Come Storico Reale, lei è diventato una specie di Medium per l’esercito dei suoi piccoli lettori! Ma non le sembra strano inventare per tutta la vita, senza sentirsi davvero inventore della propria invenzione?

Oh, tutti vogliono sempre inventare: cose nuove, originali… Ma bisogna stabilire cosa sia davvero originale. C’è tanta di quella meraviglia al mondo! E ha molto bisogno di essere descritta. La Storia, poi, è piena di fantasmi: vederli, riconoscerli è più difficile che descriverli. Il rapporto con l’invisibile è la sola cosa che conti per me.

 

Mi viene in mente il suo Libro della Storia, quello di Oz: un volumone di pagine bianche, che si scrivono da sole non appena Glinda, la Maga buona, posa i suoi occhi saggi e fanciulleschi sulla loro superficie. Allora, poiché quel che legge trabocca di violenza, la giovane sovrana piange, perché sa che al corso della Storia non ci si oppone e che i suoi sudditi saranno a volte felici, ma molto più spesso tremendamente infelici.

Quel libro è l’oggetto più desiderato del regno, ma è anche una maledizione. Quando Ugo il Calzolaio, nella Principessa perduta di Oz, lo ruba a Glinda stavo quasi per tirare un sospiro di sollievo. Ma poi ognuno di quelli là si è messo a disperarsi e a non darsi pace e mi è toccato farli partire assieme per quella folle spedizione in cui tutti quelli a cui era stato rubato qualcosa si accodavano, e il colpevole, naturalmente era sempre Ugo. Ci vuole pure un capro espiatorio, no?

 

Credevo che lei fosse dalla parte degli abitanti di Oz in quella storia!

Oh, io sono dalla parte di tutti. Per quattordici libri ho cercato di convincere ognuno dei miei personaggi a fare i conti con il sentimento della mancanza. C’è sempre qualcosa che manca: un cuore, un cervello, il coraggio. [cervello in scatola] A qualcuno manca la forza, a qualcun altro la debolezza. A Dorothy manca il Kansas. Poi le manca Oz. E ancora il Kansas. Non si guarisce mai dalla mancanza. In fondo anch’io non ne sono guarito completamente: fino all’ultimo giorno ho continuato a descrivere l’indescrivibile meraviglia di un Paese di cui nessuno potrà mai provare l’esistenza.

 

Non dica così, lei ha davvero messo al mondo un mondo. Palpita, pulsa e, mi creda, alla fine esiste: c’è perfino una mappa, con le regioni, i nomi dei popoli… [la mappa] Ne sono certa, c’è sempre qualcuno che si rimette periodicamente in viaggio verso Oz. A proposito, perché «Oz»? Sono state fatte molte congetture su questo nome strano e incomprensibile.

 

 

Incomprensibile? Io penso che sia un nome perfetto per un mondo magico. Una sera, mentre raccontavo ai miei figli e a qualche loro amico la storia di un Boscaiolo senza cuore e di uno Spaventapasseri senza cervello, una bambina mi chiese d’un tratto dove fosse la casa di quei due esseri meravigliosi. Sul momento non seppi rispondere. All’improvviso, però, lo sguardo mi cadde sul cassetto più basso del vecchio archivio del nostro salotto. C’era un cartellino incollato sopra, con le lettere O – Z scritte al centro. E allora pensai: sarà questo il nome della mia terra magica.

 

Devo crederle? O questa è un’altra delle sue invenzioni?

Pensa che sia importante stabilirlo? Per Dorothy era forse importante sapere se il ciclone fosse inventato, quando realmente la portò dal Kansas a Oz?

 

In una famosa versione cinematografica della sua storia, però, quello di Dorothy, alla fine, si rivela solo un sogno. Questo lo sente come un tradimento?

In una storia incantata non fa differenza essere svegli o dormire. Bisogna accettare la magia cosí come si farebbe con una brezza profumata che ci raffresca la fronte, o una sorsata d’acqua dolce, o il delizioso gusto di una fragola ed esser grati del piacere che ci porta, senza cessare di interrogare la sua origine.

 

Interroghiamole, dunque, le origini dell’incanto; quelle, ad esempio, del luogo principe delle magie e, al contempo, delle mistificazioni: Emerald City, la Città di Smeraldo. Nella storia il Mago s’inventa di sana pianta quel posto, una volta precipitato col suo pallone nella Terra di Oz. La campagna fuori è così verde e così bella... e allora il Mago battezza la sua capitale Emerald City; e per rendere il nome più calzante chiederà ai suoi sudditi di indossare i famosi occhialini verdi. Naturalmente quando ti metti gli occhiali tutto si tinge di verde...  e del resto il verde è un colore bellissimo e la bellezza dà felicità alla gente. Signor Baum, lei non lo poteva certo sapere, ma con questa metafora ha anticipato uno dei temi del secolo, quello della manipolazione delle immagini, del mondo virtuale e della persuasione occulta. Il Mago, del resto, mistifica di continuo la realtà, alterandone la percezione.

Non capisco perché lei parli di metafora. Guardi che non è una metafora quella degli occhialini. 

 

In che senso, scusi?

Lei continua a confondere il piano simbolico con quella che si ostina a chiamare realtà, e che io invece considero la storia. Gli occhialini sono solo uno strumento di difesa contro il potere annichilente delle immagini. Sono una protezione. Crede di non starne indossando un paio anche adesso, mentre mi fa tutte queste domande? 

 

Vuol dire che lei giustifica il grande imbroglio del Mago? La felicità a qualunque prezzo dunque?

Credo che il Mago non avesse nessuna alternativa. Quanto alla felicità, credo che a Oz, ma in fondo dappertutto, sia solo essere contenti di ciò che si ha.

 

Anche a Oz, però, la gente è infelice. 

Lei trova?

 

 

Certamente! C’è la tigre famelica che vorrebbe solo sbranare bambini dalle carni tenere, ma poiché ha un’anima compassionevole non riesce farlo e allora è condannata a rimanere inappagata e infelice. C’è il coniglio re, che considera miserabile il suo stato privilegiato, ma è infelice anche solo al pensiero di perderlo. Infelici sono i Capricciosi, che indossano grandi maschere per nascondere la loro piccola testa, sebbene sia folle cercar di apparire diversi da come natura ci ha fatti…

Non trovo affatto che costoro siano infelici, come lei dice: sono felici e contenti, ma solo quanto si può esserlo. Il loro problema è il desiderio: essi desiderano di continuo qualcosa. E desiderare è pericolosissimo, si sa. Perché un desiderio irrealizzato produce scontentezza, è vero, ma un desiderio esaudito ha sempre e comunque delle grosse conseguenze. Mi dica, lei si considera infelice?

 

 

No, non direi.

E forse non ha nessun desiderio?

 

Sì, molti, ma…

Lo vede? E adesso non mi venga a dire che il suo problema è che dove vive lei non ci sono più maghi o streghe capaci di esaudirla!

 

Le streghe, però, dovrà ammetterlo, a Oz sono davvero ovunque: nei paesaggi, nei ricordi, nel pensiero di chi viaggia… 

Guardi, dovrebbe saperlo alla sua età: le streghe non esistono.

 

Ma se lei ha disseminato il suo racconto di streghe!

Mia suocera diceva sempre che le streghe sono soltanto donne incomprese e speciali, oppure donne ossessionate da più piani della realtà, e sempre a cavallo tra due mondi, tra due condizioni, tra due linguaggi… anche Dorothy in questo senso ha qualcosa della strega, ma anche Jellia... Un momento… non sarà anche lei una strega?

 

Signor Baum, per piacere! Mi ascolti, piuttosto. Le voglio raccontare, adesso, se mi concede ancora un po’ di tempo, la scena di un film, che lei non può avere visto, per ragioni diciamo “anagrafiche”. Si tratta del remake turco della pellicola più famosa su Oz, quella con Judy Garland, che forse le sarebbe piaciuta e che certo le avrebbe dato molta soddisfazione. Nel suo primo libro Dorothy e i suoi tre amici, il Leone Codardo, il Boscaiolo di Latta e lo Spaventapasseri, possono accedere al cospetto del Mago solo uno alla volta. A ognuno il Mago si mostra in una forma o sembianza diversa, oppure forse dovrei dire che ognuno è capace di vederlo solo nella forma che gli era dal principio concepibile: una grande testa, una bella dama, una belva feroce, una palla di fuoco.

 

 

Nel film turco, invece, del 1971, la scena è di una desolante e scarnificata nudità: i quattro accedono non a una stupefacente sala del trono con effetti speciali luminosi e sonori, ma a uno spoglio anfiteatro in cui un’esile fiamma “perenne” illumina a fatica un tavolo coperto da un drappo rosso su cui è poggiato un teschio. La voce di quella effigie, la voce di Oz, è indeterminata e comune, direi quasi uniforme, solo informata metricamente alla mimesi del più famoso collega del colossal americano. Quella scena ci spinge a riconsiderare brutalmente, e fuor di metafora, una questione che nella storia di Dorothy è quasi sempre un grande rimosso, quella della morte. A Oz, infatti, non si muore mai.

 

Mia cara, anche questa è soltanto una sua pia illusione. A Oz si muore di continuo. Ci si scioglie, si diventa polvere, si perde il cuore, si perde la testa… E poi c’è Dorothy. La sua condizione mortale è la condizione prima di ogni viaggio. E di ogni trasformazione. E la trasformazione, questo me lo concederà spero, è il tema più importante del mio ciclo, anche se stiamo parlando da quasi mezz’ora e lei non l’ha ancora menzionato.

 

Stavo per farlo infatti. C’è una scena che adoro nella Strada per Oz. Quella in cui Botton di Luce e lo Straccione si bagnano nel laghetto della verità e perdono le loro sembianze animali. L’abbiamo anche usata come immagine di copertina nel nostro libro, e Mara Cerri ne ha dato una versione molto misteriosa in cui non si capisce se sia l’umano a lasciar posto all’animale o viceversa. In altre parole, non si capisce se trasformarsi significhi ritrovare la propria forma originaria, oppure perderla per sempre, conquistandone una nuova.

 

 

Lei cosa crede?

Credo che trasformarsi sia la cosa più ardua al mondo. Solidarizzo con lo Straccione quando in quel libro dice a Dorothy che si dovrebbe aver sempre a disposizione un laghetto della verità nella vita, perché così sarebbe tutto più semplice. Posso chiederle, adesso, una cosa spinosa?

Se proprio è necessario…

 

 

Lei avrà capito, io nutro un grande amore per la sua opera e per lei. Ma quella storia degli Indiani… Cioè i suoi editoriali così violenti, razzisti… Com’è possibile che il cantore della diversità, della libertà di un popolo misto, si sia espresso in modo così crudele? Voglio dire: lei inneggiava allo sterminio degli autoctoni!

È proprio in nome della grande libertà americana e della tolleranza che scrissi quelle pagine. Gli Indiani erano esseri feroci, disposti a difendere la loro terra anche a prezzo della vita, se necessario. Era una questione di sopravvivenza, noi o loro. Sono stato costretto a prendere una parte.

 

Non so se riesco a comprenderla, ma lasciamo stare. Adesso le faccio l’ultima domanda. 

No, aspetti, prima gliene faccio una io. Qual è il suo personaggio preferito nei miei quattordici libri?

 

Mi mette in grande difficoltà… Forse uno dei miei preferiti è Tic-Toc, l’automa.

 

 

Mi piace la storia delle sue tre differenti cariche: quella del pensiero, dei gesti e della parola. Mi piace che ci sia sempre una bambina speciale a ricaricarlo e anche che quando le tre cariche finiscono lui si spegne di colpo, cadendo in uno strano limbo in cui è un corpo invincibile e al contempo abbandonato al caos delle varie storie, indifeso e inerme. Mi piace che possa anche scaricarsi parzialmente: adoro i momenti in cui si spegne soltanto la sua facoltà di movimento e quella di pensiero e lui diventa all’improvviso un ammasso roccioso dotato di parola; ma allora il linguaggio non può che srotolarsi in grumi sonori privi di senso. Mi commuove anche la sua acuta coscienza di essere una creatura limitata e poi anche…

Basta così, ho capito; mi faccia pure la sua ultima domanda.

 

Cosa chiederebbe al Mago, signor Baum, se anche lei potesse accedere al suo cospetto, nella misteriosa sala del trono?

Ah, questo non glielo posso dire. Mi scusi, ma devo proprio lasciarla adesso; nell’altra stanza mi attendono i bambini, penseranno che mi sia perduto ormai: sa, eravamo a metà del mio ultimo racconto.

 

Vuol dire che la saga continua anche dove lei si trova adesso?

Quando avrà finito, laggiù, con tutte le traduzioni e le altre sue faccende, venga a cercarmi, se ha il coraggio.

 

Da domani in libreria Frank Baum, I libri di Oz, tradotti e raccontati da Chiara Lagani, con illustrazioni originali di Mara Cerri.

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