Qualcosa che la letteratura dovrà infine incorporare / Bob Dylan. Il discorso del cantante

19 Giugno 2017

È tarda sera, e tu sei in un locale notturno perso in una piccola città, persa a sua volta nelle pianure degli Stati Uniti. Fuori non c’è niente da vedere, e dentro non è che sia più divertente. È poco più di un piano bar, anche se si concede il lusso di un cantante. Non volevi restarci fino a quell’ora, hai mangiato male e bevuto peggio, ma ci rimani, non ti va di tornare in albergo da solo. Lo show è finito e tu, per gentilezza, magari anche un po’ per compassione, vai a stringere la mano al vecchio cantante dalla voce rasposa che ha appena finito il suo numero per quattro clienti che lo stavano ad ascoltare insonnoliti.

Non sapresti dire se ti è piaciuto o no, non ti ricordi neanche bene quello che cantato; forse degli standard, roba del repertorio di Frank Sinatra mescolata a qualche altra canzone che ti ricorda qualcosa di quando eri giovane ma non sai bene cosa, non hai voglia di ricordarlo, hai la sensazione che non ti farebbe un gran bene, e in ogni caso quel cantante stravolgeva tutte le canzoni e si mangiava le parole, dovevano passare due o tre strofe prima che tu riconoscessi quello che cantava.

 

Ma gli fai i complimenti lo stesso, ed ecco che succede un fatto strano. Il cantante, che è un uomo pieno di rughe conquistate sul campo, ma con i capelli ricci ancora al loro posto, e gli occhi azzurri, vispi, accesi, perfino un po’ diabolici quando ti fissano, non solo ti ringrazia e ti ricambia il saluto, ma proprio scende dal palco, ti invita a sedere con lui, ti fa ordinare un altro whisky e mentre il suo pianista, rimasto impassibile al suo posto, inanella alcuni svagati accordi jazz, ti racconta una storia da pazzo.

Ti dice che lui ha appena vinto il Premio Nobel per la Letteratura. Era il primo a non crederci, invece sembra che sia vero. Gli hanno telefonato dall’Accademia di Svezia una mattina presto, proprio a lui, che non ha nemmeno risposto perché ha pensato ma questi sono matti, è uno scherzo, io sono solo un cantante da night club, che cosa gli è venuto in mente? Insomma ha fatto lo gnorri per un po’, ma poi la cosa montava, i giornali ne parlavano e lui non poteva continuare a far finta di niente. Infine si è deciso, è andato di persona fino a Stoccolma per chiarire la faccenda una volta per tutte con la presidente dell’Accademia, una bella signora di nome Sara Danius, ma non voleva farsi riconoscere, ci mancherebbe altro, così ci è andato senza pompa magna, da solo, per conto suo.

 

Anzi, ha combinato l’incontro in un posto riservato dove è arrivato con una giacca di pelle con il cappuccio alzato e i guanti alle mani. Beh, si sa che a Stoccolma fa freddo, ma non era solo per quello, è che proprio lui non voleva dare pubblicità alla cosa, che poi i suoi colleghi del giro dei night club potevano pensare che si era montato la testa. C’è solo una fotografia che lo riprende da dietro ma ci vuole della fantasia per capire che quello lì nella foto è proprio lui. Per farla breve, lì a Stoccolma, ricevuto in quel bell’albergo da tutte quelle signore e quei signori eleganti, ha scoperto che era proprio vero, gli volevano dare il Premio Nobel per la Letteratura, a lui che non aveva mai fatto altro in tutta la vita che cantare. Anzi doveva pure mandargli un discorso altrimenti non riceveva i soldi del premio, che a dire la verità non erano niente male, roba che se voleva poteva andare in pensione e starci da signore.

Tu sei lì che lo ascolti e pensi va bene, è andata così, lo sapevo che era meglio tornare in albergo, per ogni gentilezza che commetti c ‘è una pena da scontare, adesso mi devo sorbire le farneticazioni di questo rudere da locali notturni che non sa nemmeno se sta cantando folk jazz o rock e crede di aver vinto il Premio Nobel. Roba che se lo vado in giro a raccontare non mi credono nemmeno. Tutto molto divertente, sì, ma adesso come faccio a svignarmela?

 

No, non te la puoi svignare. Il vecchio cantante ti ha preso per un braccio e non ti molla più, ti parla con la bocca biascicante e il labbro inferiore che gli casca anche un po’, ma le parole vengono fuori lucide, in fretta, e per giunta precise. È un pazzo lucido, il tipo peggiore, ti fa tirare mattina, ti deve spiegare la filosofia della sua vita, quello che è riuscito a elucubrare e slucubrare dopo cinquantasei anni che va in giro per quel mondo che si dice ch’è rotondo. E ti sta pure usando, sta facendo le prove del discorso che, così dice lui, vuole registrare e mandare all’Accademia di Svezia. E tu lo devi ascoltare, sei la sua cavia, non c’è modo di cambiare discorso e tantomeno di dargli una pacca sulla spalla e andartene per la tua strada. Devi ammetterlo, ti ha stregato. 

Però sembra tranquillo, anzi molto rilassato, ed è pure sinceramente contento che tu lo stia a sentire. Chissà quanti altri hanno già preso il due da coppe non appena lui ha tentato di appiccicargli il suo racconto assurdo. Tu non te la senti, ma ti ha fatto passare il sonno, e in fondo la cosa è troppo bizzarra per essere lasciata cadere. Un cantante di canzonette che vince il Premio Nobel per la letteratura, sì, certo, ce n’era proprio bisogno. E poi che cosa avremo? Un giocatore d’azzardo che si prende il Premio Nobel per l’economia? 

 

Sia come sia, il cantante ha molto da dire. Sarà vero che è stato a un concerto di Buddy Holly due giorni prima che Buddy Holly, Richie Valens e J.P. “The Big Bopper” Richardson si schiantassero in aereo in quel famoso 3 febbraio 1959, il giorno in cui, secondo la leggenda, morì la musica? E sarà vero che Buddy Holly l’aveva guardato dritto negli occhi, come a passargli il testimone, come se sapesse che il suo tempo stava per finire? È strano, perché adesso che il cantante ti sta parlando, a te sembra di averlo già visto da qualche altra parte, e forse questo discorso su Buddy Holly gliel’avevi già sentito fare. Magari ai Grammy Awards del 1998? Beh, magari sì, pare che ormai il Grammy lo diano a cani e porci, ma che diamine, cosa c’entrano Buddy Holly and The Crickets con il Nobel per la Letteratura?

 

“Era l’archetipo”, ti dice il cantante. Questa è proprio bella. E tu che credevi che gli archetipi fossero Joyce e Proust, Kafka e Svevo. Ti devi proprio aggiornare. Ma adesso il cantante ti sta parlando del disco che lo ha sconvolto, dove per la prima volta ha sentito “Cotton Fields” cantata da Leadbelly. E anche questa rivelazione ha qualcosa di singolare, perché adesso ti viene in mente che questo cantante tu l’hai già sentito parlare di Woody Guthrie e di Hank Williams, di Robert Johnson e Muddy Waters, ma non gli avevi mai sentito dire che era stato il vocione di Leadbelly a cambiargli la vita. Bene, ma finora neanche una parola sulle belle lettere, neanche un libro menzionato. Proprio un discorso da Nobel.

No, i libri arrivano. Adesso si è messo a sciorinare la lista delle sue letture scolastiche, partendo dalle elementari: Don Chisciotte, Ivanhoe, Robinson Crusoe, I viaggi di Gulliver, Racconto di due città. Sta inventando, si capisce. In quale scuola americana si legge Don Chisciotte? E se l’ha letto per conto suo, onore al merito, visto che è un libro di cui pochi arrivano alla fine. Non cita Furore di Steinbeck che invece a scuola ha letto di sicuro. Si capisce. Gli insegnanti possono sgolarsi quanto vogliono, ma i libri che ti ricordi meglio sono quelli che hai scelto tu.

 

 

Adesso vuole parlarti dei tre che l’hanno impressionato di più. Sono Moby Dick, Niente di nuovo sul fronte occidentale e l’Odissea. Beh, in fondo la scelta non è male, e ammettilo che sei anche curioso di quello che un cantante ti può dire di Moby Dick. Certe volte i lettori veri, non i critici, non i professori, se ne escono con interpretazioni magari bislacche ma di sicuro originali.

 

Dio mio, non si ferma più. Sono passati dieci minuti e ti sta ancora raccontando la trama di Moby Dick, sì, proprio la trama, come se tu non la sapessi, anzi meglio, come se non la sapesse nessuno, e come se lui la stesse raccontando agli abitanti di un pianeta sconosciuto che non hanno mai visto il mare e non sanno che cosa sono le balene. C’è qualcosa di splendidamente infantile in tutto questo, è come se l’uomo anziano che hai davanti fosse un ragazzo che ha appena iniziato le superiori e che va dal suo zio preferito a leggergli il suo tema più riuscito. E non è sempre preciso, o magari vuole imbrogliare un po’ le carte perché a un certo punto dice: “Un prete quacchero, un pacifista, che in realtà è un affarista spietato, dice a Flask: ‘Tra gli uomini che rimangono feriti dalla vita, alcuni sono condotti a Dio, altri al risentimento’”. Ma quella frase in Moby Dick non c’è proprio. Se l’è inventata lui? Beh, forse è così che leggiamo davvero, dopotutto. Ci ricostruiamo nella testa i libri che ci sono piaciuti, gli facciamo dire quello che avrebbero potuto dire, quello che avrebbero dovuto dire, e se l’autore fosse vivo dovrebbe solo esserci grato che stiamo lavorando con lui e per lui, anche per lui. Però no, un momento, Moby Dick l’hai studiato anche tu; anche tu hai dovuto ripassarlo in fretta prima di un esame, e quella frase, quella frase… Non è nel romanzo, no, ma più o meno sta nelle SparkNotes, un bel bigino, fatto bene, che adesso si trova comodamente in internet e alla lista dei personaggi, alla voce “Father Mapple”, dice: “Colto, ma anche uomo d’esperienza, è l’esempio di come le tribolazioni della vita possono condurre a Dio invece che al risentimento o alla vendetta”. 

 

E bravo il nostro cantante da Premio Nobel, il megalomane di mezzanotte che bussa alle grandi porte della Letteratura con il bigino aperto sullo smartphone…

Però c’è quella sua voce cantilenante che ormai ti è entrata nelle orecchie e da lì ti è scesa nel cervello, nei muscoli, nei nervi e nelle ossa. Sembra di sentire Sal Paradise, quello di On the Road, quando racconta dei musicisti jazz che gli piaceva ascoltare. Anche Jack Kerouac, te lo ricordi, aveva registrato un disco, Poetry for the Beat Generation, facendosi accompagnare al pianoforte da Steve Allen, più o meno con gli stessi piacevoli accordi di quel pianista sul palco che non smette di far vagare le dita sui tasti. Kerouac era giovane allora, non aveva quel rumore di strada sassosa nella voce che stai ascoltando adesso dal cantante. Già, quella voce, la sua voce, dove l’hai già sentita, che cosa gli hai sentito raccontare?

Ma certo, quel cantante qualche anno fa teneva un programma alla radio che si chiamava Theme Time Radio Hour, una specie di enciclopedia tematica della canzone americana, e ad ogni canzone che presentava riportava un aneddoto, riassumeva la storia che la canzone raccontava o magari si limitava a recitare la prima strofa. Ecco che cosa sta facendo, il cantante: ti sta raccontando la trama di Moby Dick come se se stesse introducendo una lunga canzone, giusto per farti venire la voglia di leggere tutto il libro, o meglio di ascoltarlo tutto. Il commento è nascosto nella scelta degli episodi che ha selezionato, nei personaggi che ti nomina e in quei due dettagli, non di più, che ti dice di ciascuno.

 

E tu ti ricordi di una cosa che ti aveva raccontato un certo Ed Robbin molti anni fa, a San Francisco. Ai suoi tempi, Robbin era un attivista politico e collaboratore del “People’s World” di Los Angeles. Conosceva John Steinbeck e Woody Guthrie. Una sera stavano passeggiando assieme per le vie di Hollywood finché Steinbeck sbotta e dice: “Ci ho messo sei mesi per scrivere Furore, so solo io la fatica che ho fatto per raccogliere tutte le informazioni, e questo dannato Woody mi racconta tutta quanta la storia in una canzone di cinque minuti!” 

Che era poi “Tom Joad”, come no? Ed ecco quello che sta facendo il cantante; sta trasformando Moby Dick in un’antica ballata di marinai mistici, una storia di onore e d’infamia, inutili cieli e onde indifferenti, Bibbia, morte e una resurrezione strana che con la Bibbia non ha niente a che fare. Una ballata marinaresca come “Golden Vanity” o “Kingsport Town”, le stesse che ha eseguito chissà quante volte.

 

 

Tu però non sai più che cosa fare. Vorresti pregarlo di rimettersi a cantare, visto che il suo pianista è ancora lì e continua a suonare come se dal palco lo accompagnasse con la massima discrezione possibile, ma è inutile perché quello che il cantante sta facendo è proprio cantare. Ti sta cantando Moby Dick in dieci minuti così come Woody Guthrie aveva cantato Furore in cinque.

 

Quando però il cantante si mette a raccontare Niente di nuovo sul fronte occidentale accade qualcosa di diverso. Forse ha capito che con il suo temino su Moby Dick non ti aveva spaventato abbastanza, così che adesso cambia registro e ti fa entrare a capofitto dentro al libro. Non nella storia, no, ma nei particolari perché, così ti dice, questo è un libro in cui tu “perdi la tua infanzia, la tua fiducia che il mondo abbia un senso, il tuo interesse per le singole persone”. Solo calabroni, vermi, pioggia, gas nervino, morfina, tifo, dissenteria. I tuoi sogni su te stesso, sulla civiltà e la cultura che avrebbe dovuto prevenire tutto questo, sono irrilevanti, ridicoli, spazzati via in un colpo. Rimane solo il tradimento. Tutti ti hanno tradito. Il tuo governo, i tuoi giornali, i tuoi generali, anche i tuoi genitori, tuo padre preoccupato solo che tu non sia un codardo, tua madre che ti dice di stare attenta alle francesine. È soprattutto il “tu” che ti colpisce, nelle parole del cantante. “Tu” sei Paul Baümer. Non sei sicuro se il cantante abbia tratto tutti i dettagli che ti sta elencando dal libro di Erich Maria Remarque o dal film di Lewis Milestone del 1930 (le farfalle, per esempio…) con Lew Ayres nella parte di Paul, ma va bene lo stesso, può essere una combinazione di libro e film, l’unica cosa che importa è quell’ossessivo “tu” che continua a risuonare. Non è un “tu” generico che può stare per chiunque; sei proprio “tu”.

 

E capisci che per quel cantante il tempo non esiste, tutto è compresente. Magari ha letto Niente di nuovo quando era scuola, magari l’ha letto l’altro giorno, non importa. È come se la Prima guerra mondiale sia successa ieri, anzi gli sta succedendo adesso nella testa mentre ti dice che c’eri anche “tu”, che eri là dentro e non puoi sperare di esserne sfuggito, non puoi far finta che non ti riguardi. Non ci sono le notizie del giorno e quelle passate, non ci sono i giornali di ieri. Tutto accade in questo momento e niente smette di accadere. La notizia del giorno è che il presidente Garfield è stato ucciso e che il Titanic è affondato.

Adesso ti recita una strofa di “You Ain’t Talkin’ to Me” di Charlie Poole and the North Carolina Ramblers, e la distinzione tra parlare e cantare si fa incerta. Ti vuole convincere che quella canzone dice le stesse cose di Niente di nuovo sul fronte occidentale: “Un giorno che camminavo in giro per la città ho visto un cartello a una finestra. Diceva arruolati nell’esercito, girerai il mondo, vedrai posti favolosi insieme ad allegri compagni, incontrerai gente interessante e imparerai pure a ucciderla. Beh, non stai parlando con me, di sicuro non stai parlando con me”. 

 

Tu vorresti dirgli che Charlie Poole non ha mai scritto quei versi, quale cantante country li avrebbe mai cantati nel 1927? Li ha aggiunti un certo Jim Krause in una versione del 2002, e poi la canzone non è nemmeno di Charlie Poole, lui l’ha solo riadattata da “I May Be Crazy but I Ain’t No Fool” di Alex Rogers, che è del 1904, ma che importa? Non te l’ha appena fatto capire il cantante che il tempo non esiste, che il tempo è reversibile, che tutto sta accadendo adesso? Se quei versi sono stati cantati settant’anni dopo vuol dire che in qualche modo ci stavano dentro anche allora o che la vera “You Ain’t Talkin’ to Me” è stata scritta settant’anni dopo e Charlie Poole è quello che l’ha riscritta settant’anni prima. È un vecchio stregone quel cantante, un manipolatore del tempo. Prima volevi andartene, adesso non smetteresti più di starlo a sentire, non sai più che ora è, non t’interessa.

Ma ti sei distratto, hai mancato un passaggio. Com’è arrivato all’Odissea? Di sicuro a scuola l’ha letta. Non tutta, magari, perché a te sembra di sapere che ha cominciato a citarla solo nelle sue ultime canzoni, ma tanto ormai ti ha intrappolato nella sua macchina del tempo, dove in fin dei conti ci sei solo “tu”. Anche adesso ti sta dicendo che tutto quello che è accaduto a Ulisse è successo anche a te. Ti hanno dato del vino drogato, sei stato con la donna sbagliata, sei stato incantato da voci melliflue e strane melodie, hai fatto arrabbiare gente che era meglio lasciar stare, e quando infine sei tornato a casa hai capito che i tuoi guai erano lungi dall’essere finiti.

 

E adesso che ha finito di raccontare, ti dice che lui non ha la minima idea di ciò che vuole dire tutto questo. Ti ha cantato delle canzoni, e le canzoni vogliono dire tante cose, l’importante è che ti commuovano. Ti cita due versi di John Donne, “le Sestos e Abydos dei suoi seni, / nidi non di due amanti, ma due amori” (Elegia XVIII). Che cosa vogliono dire? Lui non lo sa, ma suonano bene, e l’importante in una canzone è che suoni bene, il resto non conta.

Tu annuisci, perché a suo modo l’ha detto anche Duke Ellington, “If it sounds good, it is good”, e capisci che il cantante sta arrivando alle conclusioni, il senso del tempo dell’uomo di spettacolo non l’ha abbandonato. Gli hanno dato il Premio Nobel, dice lui. Sarà. Ma bisogna ammettere che non se la tira, non ti sta dicendo di essere un grande poeta. Anzi, specifica che le canzoni non sono proprio letteratura. Devono essere cantate, non lette su una pagina. Soprattutto, devono essere vive nella terra dei vivi. Come le parole di Shakespeare, che devono essere recitate. O come Omero quando diceva alla Musa: “Canta in me Musa, e per mio tramite racconta la storia”.

 

Magari Omero non diceva proprio così, ma il senso è lo stesso , non si può negare. E a questo punto, ora che il cantante ha finito di parlare e, chissà come ha fatto, è sparito nell’ombra del locale prima che tu potessi dirgli aspetta un momento mi hai convinto ho un paio di cose da chiederti, tu capisci che ha teso una bella rete circolare intorno al suo discorso. Perché se Omero cantava e Shakespeare recitava, e nessuno dei due ha mai pensato di lavorare per la pagina, allora che facciamo, togliamo Omero e Shakespeare dalla letteratura? Mettiamo un bel cerotto sulla bocca della letteratura e le diciamo non devi cantare, non devi recitare, devi solo essere letta in silenzio?

E allora ti rendi conto che un premio, qualunque premio, non può essere solo un contentino per chi scrive bene, ma un ringraziamento a chi ha creato qualcosa che la letteratura, qualunque cosa sia, dovrà infine incorporare; qualcosa di cui gli scrittori a venire, che lo vogliano o no, non potranno più fare a meno.

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