Paesaggi contemporanei / La conversazione necessaria

4 Ottobre 2016

Ho terminato da poco la lettura di due libri che apparentemente non hanno nulla in comune tra loro: il primo è il secondo volume della serie La mia battaglia dello scrittore norvegese Karl Ove Knausgard e il secondo è il nuovo saggio della sociologa e psicologa Sherry Turkle, La conversazione necessaria. Sono libri molto diversi. Il primo è il romanzo infinito di un uomo che racconta ogni microsecondo della sua vita (in questo volume la sua esperienza di innamorato e poi di padre) mettendo a nudo tutto se stesso. Il secondo è un saggio sugli effetti dello stare sempre connessi online e sulle nostre capacità di relazionarci agli altri.

 

Ma leggendoli negli stessi giorni mi sono accorto di un punto in comune che questi due libri avevano. Knausgard in Un uomo innamorato, il titolo di questo secondo volume, è alla costante ricerca di tempo per se stesso, da dedicare alla scrittura e non ci riesce, perché deve portare la figlia neonata a spasso nel parco. Non ha mai tempo, è sempre stressato, come sua moglie, dai nuovi ritmi imposti dalla paternità e, in parte, dalla sua notorietà. Al contempo, la sua scrittura è capace di soffermarsi per duecento pagine sul racconto di un’unica notte di capodanno, espandendo il tempo percepito dal lettore all’infinito. 

 

A un certo punto, a pagina 570, Knausgard inizia a biasimarsi perché non riesce a rifiutare gli inviti a parlare di sé e del suo lavoro di scrittore in pubblico. Ogni volta che lo fa però, ammette che poi sente di aver tradito se stesso:

 

“Se ho imparato una cosa, in questi anni, che ritengo di infinita importanza soprattutto nel nostro tempo, che trabocca di tanta mediocrità, è questa: 

Non devi credere di essere qualcuno. 

Non devi credere di essere qualcuno, cazzo.

Perché non lo sei. Sei solo una piccola merda mediocre buona solo per se stessa. (…) Quindi abbassa la testa e lavora, piccola merda. Così per lo meno, ottieni qualcosa. Chiudi il becco, china il capo, sgobba e sappi che non vali un cazzo. Questo era più o meno quello che avevo imparato. Era l’unica verità, cazzo, a cui fossi mai giunto.

Quello era un lato della questione. L’altro era che mi preoccupavo in modo assolutamente esagerato di piacere agli altri, e lo facevo fin da quando ero piccolo.”

Ph Michael Wolf.

 

Knausgard è un solitario trentenne un po’ disadattato che non riesce a sopportare il successo letterario e l’esposizione mediatica a cui è sottoposto. Quando è coi giornalisti cede al narcisismo, poi però torna a casa e si maledice per aver recitato la parte dello scrittore famoso e si maledice per aver detto frasi alle quali non credeva affatto. Ad un intervistatore risponde: “Ibsen aveva affermato che il più forte era colui che era solo. Secondo me non è vero.”, poi torna a casa e pensa: “Come avevo potuto aver detto una cosa simile? Ci avevo creduto?” Lo fa perché vuole “piacere a tutti” e vuole recitare la parte dello scrittore famoso, profondo, intellettuale, che tutti si aspettano da lui. Knausgard non ha un profilo Facebook, almeno non nel romanzo, ma questo voler piacere a tutti, a tutti i costi, lo fa rassomigliare a una collega di Sherry Turkle, di cui lei parla nel suo libro, Sharon: “Mentre mi parla, diventa chiaro che la principale apprensione di Sharon riguarda il modo in cui i social network stanno plasmando l’immagine che ha di sé stessa. Sharon è preoccupata di trascorrere troppo tempo «recitando» una versione migliore di sé, ovvero quella che i suoi follower apprezzeranno di piú: «Passo il mio tempo online desiderando di essere considerata una persona spiritosa, intelligente, complessa e in grado di mantenere da tutto la giusta distanza ironica. L’immagine di me dovrebbe corrispondere di piú a quella che sono, nel bene e nel male, a come mi vedo veramente. Il mio timore è di abdicare alla responsabilità di quella che sono in favore di quella che gli altri vedono in me. Non mi sto facendo il giusto scrupolo di conoscere la mia mente, i miei pensieri. Si finisce per perdere sé stessi nella performance. Su Twitter, o Facebook, sto ben attenta a esibire il meglio di me, a mostrarmi invulnerabile o il meno vulnerabile possibile».” (p. 33).

 

Knausgard e Sharon vogliono piacere a tutti e recitano una parte, la migliore che conoscano. Knausgard lo fa nella vita offline, Sharon in quella online, che è più facile da controllare. 

La Turkle si chiede: “In che modo la tecnologia ci tiene cosí in pugno, cosí strettamente che ci rivolgiamo ai nostri dispositivi digitali anziché alla nostra vita interiore?”

 

Ecco come una studentessa al primo anno di college, di nome Maggie, descrive la situazione: «Quando controllo dallo smartphone la mia pagina su Facebook e Twitter e le mail ricevute, ho come la sensazione di dimenticare comunque qualcosa che invece dovrei controllare e resto con lo sguardo fisso su Facebook, Twitter o la mia casella postale, sentendo che sto perdendo qualcosa» (p. 96). 

Un interaction designer della Silicon Valley, Tristan Harris, ha pubblicato su Medium un articolo dal titolo “How Technology Hijacks People’s Minds — from a Magician and Google’s Design Ethicist”, in cui sostiene una tesi molto simile a quella di Turkle, e molto affascinante. Secondo Harris, il motivo per cui Maggie resta con lo sguardo fisso su Facebook, o il motivo che ci spinge a controllare 150 volte al giorno il cellulare, o che spinge una coppia di sposi a sfogliare i propri cellulari a letto, uno accanto all’altro, prima di dirsi buonanotte, è che i social media replicano il meccanismo delle slot machine. Il meccanismo psicologico che sta dietro le slot machine, prosegue Harris, è quello delle “intermittent variable rewards”, cioè delle ricompense intermittenti di natura variabile. Quando tiro la leva non so che tipo di ricompensa riceverò. Se i designer di tecnologia vogliono massimizzare la dipendenza, quello che devono fare è collegare l’azione di un utente (come tirare la leva della slot) con una ricompensa variabile. Tu tiri una leva e immediatamente ricevi in cambio un bel premio o anche niente.

 

La dipendenza è massimizzata quando la ricompensa è la più varia possibile: “diversi miliardi di persone hanno una slot machine nelle loro tasche: quando tiriamo fuori i nostri cellulari per controllare le notifiche stiamo tirando la leva di una slot machine. Quando clicchiamo “refresh” per aggiornare le nostre email, stiamo tirando la leva di una slot machine. Quando facciamo scivolare il nostro indice lungo lo schermo del telefono per aggiornare la bacheca di Instagram, stiamo giocando con una slot machine. Quando scorriamo i profili di potenziali partner su Tinder stiamo giocando con una slot machine.”

 

Se utilizziamo la metafora della slot machine proposta da Harris, comprendiamo meglio i motivi della Maggie intervistata da Turkle. La ricompensa massima del nostro continuo aggiornare i flussi di informazione personale e rimanere connessi è quella di sapere di piacere a più persone possibile. Un’altra studentessa di college, intervistata da Turkle, afferma di sentirsi «obbligata» a controllare all’istante i suoi messaggi: “«Come mai?», le chiesi. Tutto quello che seppe rispondermi è che aveva assolutamente bisogno di sapere chi stesse cercando di mettersi in contatto con lei, chi fosse a interessarsi a lei in quel momento.” Abbiamo bisogno di controllare continuamente chi si sta interessando a noi, a chi stiamo piacendo e a chi no, perché online, come nella vita offline di Knausgard, performiamo un ruolo (più ruoli) di fronte a un pubblico (e qui rimandiamo a Ervin Goffman) e cerchiamo di piacere a questo pubblico.

 

Il libro di Turkle è molto piacevole da leggere. E le sue tesi sono supportate da centinaia di ricerche che lei cita e descrive con cura. È un libro notevole, perché racchiude quarant’anni di esperienza e di ricerche sugli effetti delle tecnologie sulle relazioni sociali ed è l’ideale continuazione di Insieme ma soli – il suo precedente libro, in cui criticava la mancanza di attenzione reciproca nelle nostre vite sempre piú connesse online.

 

Nella sua aperta difesa dell’arte di stare con se stessi, della capacità di dialogare con l’altro e con gli altri, e nella sua critica alla crisi di questi piaceri della vita dovuta alla nostra simbiosi con le nuove tecnologie, c’è sicuramente un allarme che dovremmo prendere in considerazione. Qualcosa sta davvero cambiando, se è vero, come riporta la Turkle, che “negli ultimi venti anni, tra gli studenti universitari, si sia rilevato un calo del 40 per cento negli indicatori dell’empatia – un decremento avvenuto per la maggior parte nell’ultimo decennio. Si tratta di una tendenza che i ricercatori attribuiscono direttamente alla presenza dei nuovi mezzi di comunicazione digitali”, oppure che un’altra ricerca ha dimostrato come “durante una conversazione, il cellulare sullo sfondo diminuiva la sensazione di una connessione empatica tra gli interlocutori.”; oppure ancora, qualcosa sta succedendo se è vero che nelle case per studenti, questi ultimi quando si riuniscono a cena, sono tutti presi a consultare i propri telefonini e nessuno parla più tra sé o, se lo fa, deve sempre chiedere: Cosa stavate dicendo? Così la conversazione è sempre frammentata e di bassissima qualità.

 

Turkle a questo proposito cita giustamente il filosofo Emmanuel Lévinas, che scrisse che “è la presenza di un volto a sollecitare la creazione di un patto etico tra gli uomini” (p.32). In questi giorni di polemiche e dibattiti sulla violenza dei commenti online, il suo è un discorso che sembra reggere: se gli sconosciuti che si insultano su Facebook si trovassero a discutere faccia a faccia, guardandosi negli occhi, si direbbero le stesse cose? O capirebbero che le loro parole feriscono, fanno male, proverebbero “empatia”?

 

Eppure, lungo tutto il libro, ho continuato a sentire un sottile sibilo di fondo, che mi diceva di stare all’erta, che c’era qualcosa che non mi tornava nel suo discorso così ben argomentato. 

Davvero la nostra vita connessa ci sta rendendo meno empatici, meno capaci di parlare con l’altro, meno capaci di sopportare la noia? Non è invece questo libro un ulteriore, facile, critica tecno-determinista della serie “internet ci renderà stupidi” (Nicholas Carr)? Non si rischia così di buttare il bambino con l’acqua sporca? 

 

Ph Michael Wolf.

 

Il libro della Turkle inizia con una citazione di H. D. Thoureau dal Walden, tanto per chiarire subito che l’autrice sta dalla parte della vita in mezzo alla natura, la vita non mediata dalle tecnologie: “In casa avevo tre sedie: una per la solitudine, due per l’amicizia, tre per la compagnia”.

 

E già nell’introduzione, la Turkle indica la strada che prenderà il suo libro: “Tra famigliari e amici, colleghi e amanti, finiamo per ricorrere alla comunicazione telematica anziché al confronto personale”. É quell’/anziché/ che mi fa subito alzare il sopracciglio, perché non amo le dicotomie: da una parte la conversazione faccia a faccia, il confronto, il dialogo in presenza e dall’altra la comunicazione telematica, come se la seconda avesse ucciso e sostituito l’altra. La Turkle porta molti esempi di coppie che si mandano sms invece di litigare dal vivo, di colleghi che condividono la scrivania ma si parlano via email e sono tutti esempi che ognuno di noi conosce per esperienza, ma questo basta per affermare che stiamo perdendo la capacità di parlare e di metterci nei panni dell’altro per colpa della tecnologia?

È la prima grande semplificazione che incontro durante la lettura. 

 

Turkle parla della “fuga dalla conversazione”, porta dati sull’incapacità di sostenere un colloquio di lavoro da parte dei nuovi laureati americani provenienti dalle università dell’Ivy League, o di guardare i propri genitori negli occhi e attribuisce la colpa di questa fuga dalla conversazione all’attrazione per le tecnologie che ci permettono di connetterci online.

 

“Nonostante la gravità del momento che stiamo vivendo, scrivo con ottimismo. Una volta divenuti consapevoli del problema, possiamo cominciare a ripensare alle nostre abitudini, e quando lo facciamo, la conversazione non può che reclamare il suo posto, poiché la sola cura per le connessioni fallimentari del nostro mondo digitale è parlare.” (p. 9)

 

Nei primi anni Ottanta, Turkle aveva guardato alle nuove tecnologie della comunicazione con grande entusiamo. I libri di Turkle sono stati fondamentali nei nostri anni universitari, da Second Self (1984) a La vita sullo schermo (1997), i suoi contributi sono sempre intelligenti, provocatori, illuminanti e anche questo per molti versi lo è, ma per un attimo sorrido, perché tutto questo mi ricorda mio padre. A tavola non voleva la tv accesa, perché dovevamo “parlare”. Quando facevo un errore alzava la voce e mi diceva “guardami negli occhi”. Quando oggi passo da casa dei miei e passo ore al computer mi dice: “Ma che fai con quel computer, vieni di là in cucina a parlare”. Mia madre fa lo stesso quando ho un telefono in mano: “sempre con quel telefono in mano, ma che ci fai, parla con me”. Entrambi sembrano non capire che quando sono al computer, quando ho il telefono in mano, sto “parlando”, ma con qualcun altro. La fuga dalla conversazione faccia a faccia non significa per forza la fuga dal confronto. Magari un adolescente fugge dal confronto a tavola coi genitori per poter iniziare una conversazione online con i suoi pari, come facevo io coi miei amici ai tempi dei “baracchini” (ricetrasmettitori CB). È vero, la conversazione che avevamo noi sui baracchini, e quelli dopo di noi su canali telematici come IRC o successivi, come le app commerciali Skype, WhatsApp, Messanger, erano mediate e più povere di quelle dal vivo, erano apparentemente dei loro surrogati, ma avevano la virtù di tenerci assieme a distanza, quando non potevamo riunirci dal vivo perché i nostri genitori ci vietavano di uscire dopo le 11 di sera. La Turkle stigmatizza chi si scambia messaggi su Skype pur essendo presenti, eppure credo che la maggior parte del traffico di Skype avvenga tra persone distanti, famiglie divise dalla migrazione economica o rifugiati politici che tentano, con ogni mezzo possibile, di “tornare a casa” temporaneamente.

 

Quel sibilo di fondo che continuo a sentire leggendo il libro è il sibilo della nostalgia per un passato in cui Nathaniel Hawthorne e Hermann Melville si sedevano a conversare per tre giorni di fila nella casa che il primo aveva sui monti Appalachi. Quel passato non c’è più e non tornerà indietro. Ma questo non significa che non possiamo convivere con le tecnologie e allo stesso tempo ritagliarci tre giorni o un’ora per conversare a fondo con gli amici più cari. E su questo punto, Turkle riprende quota e si discosta, per un attimo, dal suo pessimismo intriso di nostalgia: “Non sto suggerendo di abbandonare i nostri dispositivi digitali. Al contrario, il mio suggerimento è di osservarli più attentamente per iniziare ad avere con essi un rapporto di maggiore consapevolezza” (p. 33).

 

Nel libro c’è molto più di questo, e c’è molto più pessimismo di quello che l’autrice vorrebbe far credere con questa ultima frase. Ed è un libro importante e profondo, che tutti noi consumatori connessi di notizie, stati emotivi altrui e intrattenimento audiovisivo dovremmo leggere. Ma dovremmo affrontare la lettura con un po’ di leggerezza in più di quella dell’autrice, con qualche metro di distacco dalla sua determinazione a raccogliere dati a supporto della sua tesi della fuga dalla conversazione per tutte le 456 pagine del saggio. La sua lettura di cosa stiamo facendo con le tecnologie comunicative sembra un po’ troppo unidirezionale e non contempla la possibilità che quelle conversazioni online possano arricchirci tanto quanto (a volte) un dialogo dal vivo. 

 

Turkle ha sì l’obiettivo di convincere il lettore a cambiare le proprie abitudini e convivere diversamente con le tecnologie, ma esagera negativamente l’uso contemporaneo delle tecnologie per dimostrare quanto stiamo sbagliando. 

 

La lezione più importante che ho tratto da questo libro non è tanto quella di una presunta superiorità della conversazione dal vivo su quella mediata, né quella che le tecnologie digitali con cui ci connettiamo agli altri ogni giorno siano intrinsecamente responsabili dello sfilacciamento del tessuto sociale (era già una tesi avanzata da un altro sociologo americano, Robert Putnam, in Bowling Alone). Questi due temi sono quelli che mi convincono meno, nel discorso di Turkle.

 

Però potremmo leggere il libro di Turkle non tanto come un argomento a favore degli effetti negativi delle tecnologie sulla nostra capacità di parlarci, ma come un libro sulla qualità della nostra vita e sull’uso del tempo di vita. Prima dell’avvento di Facebook non eravamo abituati a confrontarci ogni giorno con le opinioni e gli stati emotivi di centinaia di persone semi-sconosciute. Affrontare una conversazione con decine o centinaia di persone al giorno è chiaramente faticoso e parlare con tutti, per poco tempo, produce conversazioni di bassa qualità, perché non possiamo dedicare molto tempo a tutti quelli che rispondono ai nostri tweet o messaggi. Apparteniamo a gruppi WhatsApp dei genitori dell’asilo, dei vecchi amici del liceo, di quelli dell’università, del gruppo della scherma o del calcetto, dei colleghi di lavoro. Riceviamo tag da parte di sconosciuti che richiamano la nostra attenzione su Twitter e Facebook, sfogliamo centinaia di foto di profili Instagram al giorno. Tutto questo è semplicemente troppo. Il diluvio di flussi di informazioni personali ci carica emotivamente e ci stressa. La colpa non è dei singoli strumenti, ma nostra, che vogliamo “piacere a tutti” e non deludere nessuno.

 

La lezione più importante che emerge dal libro della Turkle, riguarda la gestione del nostro tempo: immersi in un contesto ipermediatizzato, dove la durata delle nostre azioni è breve perché continuamente interrotta da flussi comunicativi in entrata e in uscita, bisogna sviluppare una nuova competenza: la capacità di compartimentare il nostro tempo, di prenderci il tempo necessario per focalizzarci su un’unica azione senza interruzioni, di dedicare il tempo necessario per portare a termine un’azione o un pensiero. 

 

Turkle, più o meno direttamente, sta invitandoci a rallentare, a goderci a fondo le cose. Andare al cinema o a teatro dimenticando per un paio d’ore il telefono, sdraiarci a leggere per un’ora di fila sconnessi dal mondo, andare fuori a pranzo con una persona amica e dedicarle il tempo necessario per stabilire un contatto profondo con essa, dimenticando di rispondere alle notifiche di WhatsApp, giocare un’ora con nostro figlio senza controllare il cellulare. In una parola, ricompattare la nostra vita frammentata, essere consapevoli che c’è un tempo per connettersi e un tempo per disconnettersi (direbbe Qohèlet se scrivesse oggi).

 

Judy Wajcman, una sociologa del lavoro della London School of Economics, autrice di Pressed for time. The Acceleration of Life in Digital Capitalism, ha studiato il rapporto di molti impiegati e quadri aziendali nei confronti delle tecnologie digitali e la sua conclusione non è che queste persone oggi lavorino più di prima, ma che la sensazione di essere più stressate deriva dalla compressione del tempo al quale sentono di essere sottoposte. L’ansia di dover rispondere a tutte le email in arrivo, le continue notifiche di nuovi messaggi sulla chat aziendale o da Messanger, danno loro l’impressione di essere sotto assedio temporale. La Wajcman racconta nell’introduzione al libro che da ragazza, prima di andare all’università, aveva passato un’estate in visita alla sua amica di penna, la figlia di un pescatore di un villaggio costiero in Papua Nuova Guinea. Un giorno stava aiutando la sua amica a raccogliere il latte di cocco e a un certo punto le suggerì un modo per accelerare il processo e aumentare la produttività. La sua amica disse che non capiva perché dovevano cambiare metodo, per fare il latte di cocco ci era sempre voluto un giorno, loro non avevano fretta. Wajcman, quarant’anni dopo, si chiede perché all’epoca insistette così tanto nel salvare tempo: “ho imparato che le cose importanti nella vita non possono essere quantificate, misurate, o accelerate”.

 

Forse, prescindendo dai leggeri tratti apocalittici e anti-tecnologici che rimangono sottotraccia nel libro di Turkle, è questa la cosa più importante che possiamo portarci a casa dalla lettura de La conversazione necessaria: un invito a gustarci a fondo il tempo che dedichiamo a qualcuno o facendo qualcosa.

 

Una possibile soluzione, a questo tempo stressato dai continui flussi comunicativi che ci attraversano e che attraversiamo, è quella di seguire l’inclinazione di Knausgard a trovare il tempo per se stessi, esporci il meno possibile in pubblico, o almeno, non prestare il fianco alla tentazione di esporci per il semplice desiderio di “piacere a tutti”, di raccogliere consensi, like, retweet.

 

Prima di interrompere una conversazione, una cena, una lettura approfondita, una qualsiasi azione prolungata, per rispondere al mio mondo connesso, prometto che ripeterò 3 volte il mantra di Knausgard:

Non devi credere di essere qualcuno. 

Non devi credere di essere qualcuno, cazzo.

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