La traduzione: una lezione sull'abbandono / Cani e mendicanti al-Maʿarrī e Omero

9 Maggio 2018

La primavera scorsa, ho ricevuto da Catherine Coquio una mail di invito alla conferenza di Camille de Toledo, sulla Storia della Vertigine, alla Maison de la Poésie, a Parigi. Ci sono andato e, durante il tragitto, pensavo a Borges e a Hitchcock. Ho tradotto alcune delle loro opere in arabo. «Lo specchio, l'incubo e il labirinto», le loro grandi metafore sono sempre adatte al mondo, passato o presente che sia.

Camille ha parlato della mappa di un impero immaginato da Borges in uno dei suoi racconti. In un angolo di questa immensa mappa abitano i cani e i mendicanti. Ho sentito pronunciare questa frase: «i cani e i mendicanti, nel nostro inconscio collettivo attuale, sono i rifugiati». Nel pubblico nessuno ha fatto commenti. La cosa sembrava essere vagamente ovvia. Neanch'io ho reagito. Anzi, per continuare ad ascoltare, ho appositamente dissimulato il mio nome e quello del mio paese, la Siria.


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Questa piccola osservazione è stata per me il punto di partenza per un libro sul quale lavoro da diversi mesi e che porta lo stesso titolo di questo testo: Cani e mendicanti. Evocherò, molto brevemente, due poeti classici, uno tacciato di cane e l'altro di mendicante. Sono loro ad avermi spinto a scrivere questo lungo poema.


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Il primo è un poeta della letteratura arabo musulmana, al-Maʿarrī, vissuto e morto a Ma'arrat al-Nu'man nel nord-ovest della Siria. 

Da giovane, al-Maʿarrī si recava spesso a Bagdad. Un giorno, durante un lutto, urtò un nobile. Costui gridò «Chi è questo cane?» E al-Maʿarrī ha reso celebre la risposta, che ha molte spiegazioni nella letteratura araba: «Il cane è colui che non conosce i settanta nomi del cane». I Dottori della lingua hanno individuato solo sessantasette nomi. Da allora, ne sono stati trovati altri due: al-Maʿarrī stesso e il rifugiato. Quanto al settantesimo, resta ancora irreperibile e continua a mantenere aperta questa antica questione per il futuro.
Ho studiato in una scuola intitolata a «al-Maʿarrī». L’arabo era, dopo il curdo, la mia seconda lingua, e ancora oggi continuo ad andare e venire tra le due. Questo andirivieni è divenuto naturale, benché, al principio, non lo fosse. All'inizio della mia adolescenza frequentavo un vecchio, un curdo molto colto in arabo scritto, meno nell'orale. È in sua compagnia e in quella di altri uomini d'età, che ho amato questa lingua. Al-Maʿarrī è il primo poeta che ho imparato a memoria. Sono sempre stato molto legato al suo libro L’epistola del perdono.


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Questa epistola è la risposta a un tale pressoché ignoto, Ibn al-Qārih, che ha visitato il paradiso e l’inferno. In paradiso, non ci sono molti poeti. È lì che incontra, per esempio, al-Houtey’a, specializzato in satire, a cui Dio ha perdonato i peccati per uno solo dei suoi versi, in cui si prende gioco di se stesso. L’inferno, invece, è pieno di poeti: Imru’l Qays, al-Chanfara, Bachar Ben Burd. Il solo a non essere poeta è Iblis, il diavolo in persona. Uno degli angeli rivela a Ibn al-Qārih che la poesia è il Corano d’Iblis, padre e ispiratore dei poeti.
                                         

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Ph Harry Gruyaert.

 

Al-Maʿarrī detestava i temi canonici della poesia. Ha scritto tutta la sua opera Gli imperativi, o la necessità dell’inutile (Luzūmmālamyalzam) al di fuori dei generi e dei temi della propria epoca: l’elogio, la poesia d'amore, il vino, la descrizione degli animali, della guerra e del deserto. Cosa gli rimaneva allora da scrivere?
Restringendo il campo, ha custodito la poesia come un orizzonte di pensiero. Se si potesse tentare una comparazione, sarebbe un po' come se un poeta odierno del Medio Oriente evitasse di scrivere di rifugiati, guerra, prigioni. Come potrà continuare a essere sincero? È una scelta molto difficile e esige un enorme sforzo.


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Mi soffermo su un aneddoto di L’epistola del perdono: i Compagni del Profeta vanno a far visita a Ali Ibn Abi Taleb e non lo trovano in casa. Sentono dei rumori sul tetto, escono e lo vedono. La sua spada Zulfiqar gocciola di sangue. Dice loro: «C'è stato un conflitto tra due angeli e così sono salito per risolverlo». Un Santo che uccide un angelo. Il corpo dell'angelo non appare, e non perché gli angeli siano invisibili, o perché al-Maʿarrī sia cieco, ma perché la morte, in paradiso, non esiste. Lassù, chi è ucciso resta vivo. Sono solo coloro che sono uccisi sulla terra a morire veramente.


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Il secondo poeta classico è Omero. Il suo nome, in lingua cimmerica, significa «il mendicante cieco». È lui stesso a rivendicare questo nome quando i senatori gli rifiutarono l'ospitalità come poeta itinerante, per timore che divenisse un precedente e il loro paese si riempisse di migliaia di altri “Omeri”, mendicanti e vagabondi che chiedono la carità. Mi accontenterò di un solo aneddoto tratto dall'Odissea. Ulisse, travestito, ascolta la propria storia raccontata da un altro alla corte del palazzo di Alcinoo. Demodoco, anche lui poeta cieco, canta il combattimento contro Achille e lo strattagemma del cavallo di Troia. Ma non racconta la storia come lo desidererebbe colui che l'ha vissuta. La propria storia è deformata davanti a sé, ma non può protestare. Impotente, Ulisse piange. È presente e assente nello stesso tempo.


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Ciò che si desidera è spesso diverso da ciò a cui si giunge. E ciò che si dice non è ciò che si scrive. Tutto quello che fin qui ho evocato non si trova nel lungo poema intitolato: «Il Signor X ascolta la propria storia alla corte del re Alcinoo». Ho immaginato al-Maʿarrī raccontare questo episodio dell'Odissea. Ho scelto «Il Signor X», che rimanda a un senso di umiliazione, piuttosto che «Nessuno», uno dei molti nomi di Ulisse. Ho provato a scrivere di getto questo poema in inglese, poi l'ho riscritto in arabo, ma continuavo a sognarlo in curdo. Nella tradizione curda i cantori ciechi, come i Guzlars dei Balcani, declamano le epopee.
Ho immaginato un curdo dei tempi moderni passare di lingua in lingua, da un inferno islamico a un inferno greco-europeo, dall'Epistola del perdono all'Odissea. Pensavo alla trasformazione continua, alla traduzione permanente che vivo quotidianamente, alle parole diverse che coesistono in seno a una stessa lingua. La traduzione è, forse, una lezione spirituale sulla bellezza e la difficoltà dell'abbandono. In quest'epoca buia, disfarsi delle cose può essere altrettanto luminoso che possederle.

 

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Forse al-Maʿarrī, asceta e vegetariano, avrebbe eccelso nel descrivere questa idea dell'abbandono. Il solo colore che ricordasse era il rosso, ma non l’ha mai inteso come sangue. Era il colore dell'abito che indossava quando il vaiolo l'ha reso cieco. Lo immagino dire ironicamente che è stato il rosso del tramonto a dargli il benvenuto il venerdì della sua nascita e l'addio, un altro venerdì, ottantasei anni più tardi.

 

Traduzione dal francese Costanza Ferrini.

 

Golan Haji, poeta e traduttore dall'inglese in arabo. Nato ad Amouda, cittadina curda nel nord della Siria, nel 1977, vive attualmente a Parigi. Nel 2004 ha ricevuto il premio Mohammed Al Maghout per la sua prima raccolta di poesie Nādafī’l-ẓulumāt (Chiamò nelle tenebre), segue Thammata man yarakawahshan (C’è qualcuno che ti vede come un mostro), pubblicata in occasione di "Damasco città della cultura" 2008, seguono le raccolte Adultères (Copenhaghen 2011), in traduzione danese, L'autunno, qui, è magico e immenso (Roma, 2013) in italiano e in arabo, Meezan Al’atha (Pesare l’oltraggio), in arabo (Milano, 2016). L'ultima raccolta è in traduzione inglese A Tree Whose Name I Don't Know (New York, 2017). 

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