Insegnare francese sulle gradinate sotto gli alberi / Place de la Bataille des migrants de Stalingrad

14 Febbraio 2017

È passato quasi un anno dall’infinito marzo francese, quando il progetto di legge El Khomri et son monde hanno innescato un vasto movimento sociale di rivolta e a Parigi la Nuit Debout si è insediata a Place de la République (ne ho parlato qui). Oltre al mio morale, atterrato da un plumbeo clima post 13 novembre, il movimento ha sollevato molti coperchi, generato azioni a catena in vari contesti cittadini, rafforzato la rete di solidarietà e resistenze nei vari ambiti sociali e associativi; informato me e Camilla dell’evacuazione di un liceo dismesso occupato da 300 migranti e un pugno di militanti prevista all’alba del 4 maggio (#65marzo) 2016.

Nella notte tra il 3 e il 4 maggio Camilla ha quindi legato la bicicletta sotto casa mia, ha telefonato a Bertrand per avvisarlo che non rientrava e abbiamo puntato la sveglia alle cinque meno un quarto. Poco dopo le cinque arrivavamo al Lycée Jean Jaurès nel diciannovesimo arrondissement, e io mi sono sentita prendere da un’eccitazione mista a pudore, la timidezza del neofita, di chi sta per fare una cosa e non sa come si fa.

 

 

Dal cordone pacifico davanti all’entrata dell’edificio cui ci siamo agganciate si alzavano thermos e profumo di caffè. I soutiens avevano tutti delle facce da colazione. C’era un’allegria che non ho capito, ma che mi è entrata nei polmoni con l’aria fredda. Dalla scuola sono usciti un uomo e una donna con un megafono, scortati da un membro del Collectif La Chapelle Debout che traduceva. L’uomo ha detto cose che non ricordo; la donna ricordo aveva occhi grandissimi che si vedevano tra la folla anche nel buio, e ha detto grazie, grazie di essere venuti, io qui non ho nessuno e voi siete i miei amici, e dovunque ci porteranno oggi mi ricorderò di voi. La donna, l’uomo e l’interprete sono tornati dentro e hanno sprangato la porta, da Avenue Bolivar sono arrivate un numero demenziale di camionette e i gendarmi sono venuti avanti e io non ho fatto in tempo a capire come si faceva, mi hanno riempito gli occhi di gas. Urlando sono saltata via dal cordone che dietro di me si smagliava in lamenti, in un angolo un élu [consigliere regionale] solidale tossiva e piangeva con la sua fascia tricolore e un altro soutien è venuto via con me e mi gridava non toccarli non toccarli tienili chiusi e il dolore è diminuito ma le mie urla no, sono tornata verso il cordone che adesso non era più pacifico ma fatto di gendarmi e ho sbraitato insulti fino a perdere la voce e li ho fotografati a uno a uno con la mano che tremava e un coraggio da fiera, e credo che tra i militanti mi guardassero in molti – Camilla l’avevo persa. Quando mi sono ricomposta, una faccia col cappuccio della felpa e un sorriso non so dire quanto gentile mi ha detto un po’ divertita Ça radicalise, c’est sûr [Una cosa così radicalizza, non c’è dubbio].

 

 

Abbiamo trascorso la mattinata in punizione, nassés [circondati da un cordone di poliziotti] a debita distanza dall’ingresso della scuola, costretti ad assistere da troppo lontano all’operazione di sgombero durata ore, i migranti che salivano sui pullman con il contagocce, qualcuno che resisteva, vedevamo il corpo dibattersi o piegarsi a squadra e puntare i talloni per terra, farsi quasi sollevare dalla forza dell’ordine. Tra noi molti piangevano, esausti e inermi come bambini piccoli; la gente dei palazzi intorno ci gridava il suo sostegno e lanciava mele e bottiglie d’acqua dalle finestre. Camilla, di nuovo con me, ha ricevuto un messaggio da Bertrand: mentre lo accompagnava al nido, aveva spiegato a Elio che la mamma non c’era “perché è andata a stare un po’ insieme a delle persone senza casa che hanno bisogno di amici”. Solo di una parte di loro, nei giorni successivi, si è vagamente saputo dove fossero finiti.

Quando il sole era già alto (e il cielo blu oltremare) Hélène, conosciuta nella nasse, si è avvicinata a un gendarme e gli ha chiesto: Posso uscire? Dovrei andare al lavoro. Il faut choisir, mademoiselle, ha detto lui, soit vous manifestez, soit vous travaillez [Bisogna fare una scelta, signorina, o manifesta o va a lavorare].

 

 

Ho trascorso l’estate ad assistere alle continue retate della polizia nel campo “illegale” dei migranti sotto il métro sopraelevato a Jaurès, quindici minuti a piedi da casa mia. Manco fossero mafiosi o spacciatori. E a un certo punto, pur non sapendo come, ho fatto un passo dentro il cerchio magico di quelle tende Quechua. Radicalizzata dai gas.

Da allora uso facebook come un diario, dove in tempo quasi reale annoto per me e per chi legge quel che accade sul campo (in senso stretto e in senso lato). Mi hanno detto: se non li fissi su un altro supporto, quei momenti si perdono. Dunque ecco.

 

8 luglio

 

Io e la mia amica Camilla – traduttrice di Dumas e Mwanza Mujila – siamo andate a una manifestazione in difesa dei diritti dei migranti (dirò rifugiati quando avranno ottenuto lo status). Alle tre del pomeriggio, nel diciottesimo arrondissement, con una canicola eccezionale, ci ritroviamo in pochini – una quarantina in tutto, tra cui solo una decina di "europei" (chiamiamoci così, anche se io sono extracomunitaria). Io e Camilla parliamo italiano, e per gentilezza dico a Marianne, conosciuta aspettando la partenza: Scusaci, è più forte di noi. Nessun problema, dice lei, capisco l'italiano – sono traduttrice. E traduce Milena Agus.

Lo sparuto corteo si mette in moto. Il ragazzo accanto allo striscione scandisce al megafono uno slogan in arabo. Un altro ci raggiunge nelle file dietro e senza che nessuno gliel'abbia chiesto ci traduce: Égalité, liberté, dignité humaine. Ho pensato che forse la traduzione ci salverà.

 

15 agosto

 

L'altro ieri alla manifestazione per i diritti e contro le violenze della polizia sui profughi ho conosciuto A., 20 anni, afgano, arrivato in Francia dieci giorni fa, da solo. Girava per il corteo con una cartellina rossa contenente un foglio coi primi rudimenti di francese. Mi ha chiesto Madame, can you help me? Gli ho tradotto le frasi scritte sul foglio, e altre che gli venivano in mente lì per lì. Per l’intera durata della manifestazione. Arrivati a Place de la République ci siamo seduti e l’ho guardato. A. ha arti affusolati e un portamento nobile, uno sguardo silenzioso. Eravamo seduti sullo zoccolo della statua di Marianne e lui non chiedeva più niente. Ho riflettuto velocemente e gli ho detto Vuoi il mio numero di telefono?

Da due giorni continuiamo le nostre micro-lezioni via sms, io da casa, tra una riga e l'altra di quell'altra traduzione, lui dall'ennesimo accampamento sotto i binari del métro sopraelevato all'altezza della stazione Jaurès. Non so. Ho il sospetto confuso ma forte che se c'è una rivoluzione auspicabile, di questi tempi e da queste parti, non possa che passare da qui, dall'inclusione anche minima di queste nuove maglie nel nostro tessuto relazionale.

 

20 agosto

 

Sono andata a prendere A. all’uscita – si fa per dire – della lezione di francese, Place de la Bataille de Stalingrad. Stanno seduti sulle gradinate sotto gli alberi, ai cui piedi c’è una lavagna e un volontario del BAAM che scandisce forte la coniugazione dei verbi del primo gruppo all’indicativo presente per sovrastare il frastuono del traffico. Tutti i giorni della settimana, dalle sette alle otto e mezzo di sera.

Abbiamo cenato da un turco del Boulevard de la Villette, che in realtà era curdo – così A. ha potuto ordinarsi la cena da solo, in dari. Alla TV trasmettevano una partita, lui si è illuminato: I love football. Abbiamo guardato il primo tempo. Juve - Fiorentina. Ho deciso che avrei insegnato il francese anch’io.


 

 

3 novembre

 

Sono finalmente rientrata a Parigi e ho tenuto la mia prima lezione, in tandem con Marion. Livello avanzati (in questi ultimi mesi l’utenza è aumentata al punto che hanno formato tre classi di livelli diversi, ciascuna la sua gradinata). I ragazzi erano tantissimi, incalzanti, concentrati, esigenti. Abbiamo fatto i mestieri. Qu’est-ce qu’il fait le boulanger [Che cosa fa il panettiere]? Nel buio non li vedevo ma li sentivo rispondere compatti. Ansia da prestazione, o da palcoscenico. Ho sbagliato lo spelling di una parola. Hanno riso, mi hanno ripreso. Chi è lo straniero?

 

12 novembre

 

Ci hanno invitati a un concerto a Radio France. Il direttore di France Musique si è innamorato della causa – e dell’associazione. In programma, colonne sonore di film. Alla mia destra si siede H., afgano sui vent’anni, mai visto prima. Ha già un francese solido; sua madre, mi dice, gli spedisce i soldi per i corsi intensivi dell’Alliance Française. Sono un rifugiato politico, non economico, precisa subito. L’orchestra attacca “I still can’t sleep”, io sussulto. Gli dico La conosci? Taxi driver? Non la conosce, certo, ma ammira estasiato l’auditorium. Quanto costa il biglietto, qui? Niente, gli dico, siamo stati invitati.

Durante la pausa, mentre alla mia sinistra C., sudanese laureato in microbiologia, studiava con l’auricolare i nomi degli strumenti su Fast Easy Learn, H. mi ha raccontato la sua storia. Nato in una famiglia agiata di Kabul, figlio di un politico assassinato dai talebani, accompagnava la sorella medico nei villaggi per una campagna d’informazione e somministrazione di vaccini contro la polio. Li hanno fermati lungo una strada.

 

 

Loro sono contro quel vaccino, dice H. Hanno detto a sua sorella Vai a casa, perché noi non uccidiamo le donne e i vecchi. L’hanno tenuto bendato per sei giorni in un appartamento dicendogli che dovevano aspettare il capo, e nel frattempo cercavano di convincerlo ad arruolarsi illustrandogli tutti i vantaggi del caso. Una notte ha sentito rumori d’arma da fuoco. Erano arrivati i soldati del governo, dice H. Avevano attaccato i suoi carcerieri e nel caos lui è riuscito a scappare. Non credevo che sarei mai riuscito a correre per ore di fila, dice. All’alba è arrivato a un villaggio e qualcuno l’ha riportato da sua madre, che l’aveva già dato per morto e l’ha spedito da uno zio ricco. Sono partito con 10000 euro. Ho viaggiato sei mesi, per due fermo in Grecia, perché avevano chiuso le frontiere. È così rilassato, dice, da quando sta a Parigi. È così bello camminare per le strade. In sala le luci si spengono e l’orchestra attacca il brano successivo: “Shooting The Statues”, dalla colonna sonora di Timbuktu.

 

14 novembre

 

– Facciamo un gioco: io sono il vostro medico.

– No! tu sei nostro profesor!

(Perciò li amo.)

 

20 novembre

 

Ieri sera a Jaurès, dopo la lezione, parlavo con K., profugo pakistano, della sua richiesta d'asilo; che come tante va a rilento. K. ha 25 anni, è arrivato da Peshawar 16 mesi fa, ha dormito 6 mesi per strada [Lì, accanto alla Rotonda, mi indica] è molto impaziente e dublinato: ha lasciato le impronte in Ungheria e adesso rischia di esserci rispedito, come previsto dal regolamento di Dublino. Mi dice: Hungry? Vous savez ce que ça veut dire, hungry [Affamato? Sapete cosa vuol dire affamato? – in francese Ungheria si dice Hongrie e si pronuncia come hungry, affamato]? ho detto a quelli dell’OFII*. Io sto qui. Almeno mangio.

Dice che il suo francese non progredisce. Gli ho detto che il suo senso dell'umorismo sta 'na favola.

*Office français de l’immigration et de l’intégration

 

30 novembre

 

Non riesco a dormire. L'Unione Europea ha stretto un accordo da 4 miliardi di euro con l'Afghanistan per rispedire al mittente 80000 afgani. In Germania le deportazioni sono già cominciate.

Oggi A., il mio amico afgano, è uscito dal tribunale amministrativo di Parigi con un rifiuto all'asilo*. Il suo avvocato ha provato a dire al giudice: Il mio assistito avrebbe qualcosa da precisare... Il giudice ha risposto: No. Di tutti i profughi passati davanti a quel giudice oggi, non è stata accolta nessuna richiesta. La nostra amica Louise, che lo accompagnava, per consolarlo gli ha bendato gli occhi e l'ha portato davanti a Notre Dame. Prima di sbendarlo mi ha telefonato, in lacrime, poi l'ha sbendato e l'ho sentito che diceva Beautiful, beautiful. Non l'aveva mai vista, Notre Dame.

Mentre scrivo, K. mi contatta su messenger, come ogni notte. È angosciato. Giovedì scorso l'OFII gli ha comunicato che lo sposteranno ad Amiens. Ieri notte mi ha chiesto com'è Amiens. Io non ci sono mai stata. Mi ha scritto: Moi trist, j'ador Paris. Ho stretto i denti e gli ho risposto Dai, non è grave, è solo a 2 ore di treno da Parigi. Sono andata a letto e ho sognato che qualcuno mi diceva Stronza, perché gli racconti palle? È molto più lontano di così.

Mentre scrivo, M., 26 anni, da 18 notti all'addiaccio nelle strade di Parigi ora sotto zero, dorme nel mio letto. Gli ho detto: Una notte, capisci? Posso ospitarti una notte. Suo fratello è stato decapitato dai talebani. Me l’ha detto con le dieci parole di francese che conosce; anzi, ha fatto il gesto con la mano. Abbiamo bevuto la tisana in cucina, lui appena uscito dalla vasca da bagno col vapore che si alzava dai capelli. Sono andata a prendere l’elenco dei corsi aperti dal BAAM in varie sale della città, pensando che almeno sarebbe stato al caldo il tempo della lezione. Mi ha fatto capire che già ce l’aveva, quella lista, e si è messo a recitare: Mercrodi ligne 8, jedi ligne 2 et 4, vandrodi ligne 9. I métro che prende per andare ai vari corsi. La sua settimana trascorre così, da una linea all’altra del métro, per seguire delle lezioni di cui per ora credo non capisca quasi niente.

* A. è dublinato, la Francia intende rispedirlo in Germania, paese dove ha lasciato le impronte e che gli ha rifiutato l’asilo, salvo reclamarlo a distanza di mesi. Da lì, rischia fortemente di essere rispedito in Afghanistan.

 

1 dicembre

 

Stamattina dormivo sul divano in salotto e ho sentito bussare piano alla porta della camera. Dall’interno. Profesor… profesor… neuv heures [sono le nove]! Gli avevo chiuso la porta per farlo dormire tranquillo e adesso mi chiedeva il permesso di uscire da camera mia.

 

21 dicembre

 

Le parole che iniziano per ch, le dita gelate, la lavagna umida, i pennarelli che scivolano/non scrivono, i capelli/culi bagnati, i ratti intorno, ma loro insistono:

chaussette

chaussure

chambre

douche

cherche

Io raramente ho visto tanta perseveranza.

 

 

23 dicembre

 

Stasera al corso di alfabetizzazione c'era una donna. Tutta vestita di giallo, velata, bellissima, accompagnata dal marito. Una coppia di sudanesi che imparavano l'alfabeto insieme. Lei quando non riusciva a dire le vocali si appoggiava alla spalla di lui, vergognandosi un po'. Per l'intera durata della lezione i ratti hanno fatto avanti e indietro a 4 metri da noi, con metodo, seguendo una traiettoria visibile solo a loro. Io li sorvegliavo con la coda dell’occhio, discreta quanto più possibile. Ogni tanto una bicicletta passava tra la lavagna e la classe seduta sul gradino. Hanno imparato che bicicletta si dice vélo. Alla fine della lezione un allievo mi ha chiesto Profesor, comment s'appelle les cheveux des yeux? [Profesor, come si chiama i capelli degli occhi?]

(I ratti li ho visti anche a Châtelet, uscendo da teatro. Tre rattazzi scorrazzanti che mi hanno tagliato la strada a un metro dai piedi proprio mentre pensavo Stasera fa troppo freddo perché siano in giro. Non promette niente di buono, questa città piena di ratti.)

 

4 gennaio

 

Il primo pensiero sorprendente di questo 2017 è che – mi accorgo – frequentare i migranti mi sta rassodando il francese. Merci, les amis qui venez de loin et apprenez le français (aussi) avec moi [grazie, amici che venite da lontano e imparate il francese (anche) con me].

 

9 gennaio

 

Oggi al corso del primo livello ho azzardato la coniugazione del verbo avere all'indicativo presente. Non avevamo la lavagna, né fogli, né penne e nemmeno il faretto. Stavano seduti tutti in fila sul gradino sotto il lampione e ognuno cercava di fare la sua frase con "j'ai". 

J'ai un bonnet

J'ai un manteau

J'ai un stylo

J'ai un téléphone

L'egiziano che ride sempre ha sintetizzato:

Afrique nous avons gas, pétrole, or, diamant; Europe vous avez rien; Suisse vous avez argent d'afrique [In Africa abbiamo gas, petrolio, oro, diamante; Europa non avete niente; Svizzera avete soldi d’Africa].

 

15 gennaio

 

Ieri sera a Jaurès tirava vento e piovigginava. Sul gradino sotto il lampione solo tre allievi, i due egiziani e un ciadiano. Passavano di lì un uomo e un bambino, si sono fermati a guardare la laboriosa stesura dell'alfabeto maiuscolo e minuscolo su una lavagna scivolosa di pioggia. Uno dei ragazzi gli ha detto – al bambino, sui sei anni: Bonjour monsieur. Ho detto No, questo è un enfant, e padre e figlio si sono seduti accanto ai tre sul gradino – che in realtà è un muretto. Il bambino era molto interessato a questo apprendimento dell'alfabeto che lui, ci ha fatto sapere, sapeva già a memoria. Intanto pioveva sempre più forte, i fogli nelle mani dei tre si ammosciavano e a un certo punto il bambino si è alzato e con piglio sicuro e anche un po' scocciato è venuto da me alla lavagna e con una voce squillante mi ha chiesto: Ma com'è possibile che a Parigi non ci sia una sala dove potete andare?

(Prima di andarsene il padre, insegnante, mi ha chiesto: Siete qui tutti i giorni? Di cos'avete bisogno? Di penne, ho detto. Mi ha strizzato l'occhio: facciamo un po' di cresta allo Stato.)

 

19 gennaio

 

Ogni volta che qualcuno mi chiede che cosa faccio coi migranti e mi espone quello che crede di sapere sulla loro odissea una volta varcate le frontiere d'Europa, e nello specifico di Francia, mi ritrovo a dire no, è molto più complicato di così.

Cerco un modo per ricostruire e raccontare il percorso a ostacoli di questi poveri disgraziati (alla lettera, lo dico senza un filo di commiserazione) ed è un'impresa immane, pezzi che mancano, che si contraddicono, che non si capiscono. Quindi immaginiamo quanto sia incomprensibile per loro che lo stanno compiendo, questo percorso; senza le parole per capirlo, né per spiegarlo.

Sto chattando da 30 minuti con un regolare (non dublinato) richiedente d'asilo che sta a Rennes, in attesa che l'OFPRA* gli comunichi l’esito del colloquio sostenuto nei loro uffici lo scorso settembre, ne ho impiegati 28 per capire che l'OFII da 5 mesi non gli versa più i 330 euro mensili previsti. E adesso che ho capito non capisco il perché. Perché? Non lo capisce nemmeno lui. E vive a Rennes, e questa situazione lo sta esasperando; perché a colpi di google translate (ex studente di fisica, di lingue ne parla più di una ma non le mie) non riesce a farmi capire quello che non capisce.

Mi ha mandato una foto della sua cocorita e mi ha scritto: Il s'appelle Rizgar, c'est mon solitude [Si chiama Rizgar, è il mio solitudine].

 

*Office français de protection des réfugiés et apatrides, l’organo che stabilisce chi ha diritto all’asilo e chi no.

 

25 gennaio

 

Qui i migranti con me vogliono assolutamente parlare italiano, devo lottare per riportarli al francese. Come biasimarli?

 

1 febbraio

 

Questa sera S., un sudanese del corso avanzati, ha raccontato a me e a Santi (messinese) del suo sbarco in Sicilia 8 mesi fa. To... to... continuava a ripetere, cercando di ricordare il nome della località dello sbarco; Santi ha cercato la cartina della Sicilia sul cellulare e ne abbiamo percorso le coste; non era una città, dice S., era un posto... go.. go... Niente. Non pervenuto. Sta di fatto che era maggio, ha detto S., e hanno preso un pullman per Palermo; sono partiti "come adesso" [di notte] e sono arrivati il giorno dopo. Era maggio, ha detto, e la Sicilia era bellissima, e c'erano tutti i [mandorli in] fiori. Santi aveva le lacrime agli occhi; S. è di una bellezza disarmante.

 

 

2 febbraio

 

Una sera di tre settimane fa, alla fine della lezione, ho visto spuntare Jeanne.

L'ho subito riconosciuta perché al telefono mi aveva detto che aveva un bastone. Non mi aveva detto che aveva i capelli frisé color malva, né che avrebbe avuto al braccio Marie-José, la vicina di casa, ancor più in là cogli anni di lei. Venivano avanti zoppicanti e risolute per discutere del caso M., l’afgano che avevo ospitato una notte durante la prima ondata di freddo a novembre (“M. mi ha raccontato che gli ha lasciato il suo letto, è rimasto molto colpito") e che ormai era ospite fisso del loro condominio di rue Carrel – nello specifico, occupava un materasso nella cucina di Jeanne, che vive in un bilocale con la sua pensione di maestra elementare. Ma capisce, io sono in lista d'attesa per entrare in casa di riposo, è questione di mesi, si era preoccupata Jeanne durante la prima di una serie di telefonate sempre più concitate – nell'ultima l'avevo sgridata insistendo che il suo telefono NON ERA sotto controllo perché ospitava un afgano e le avevo intimato di ripigliarsi, che di paranoico c'è già M., e tutta presa dalla mia lezione di controspionaggio ero salita sul treno sbagliato e avevo conosciuto I.; ma questa è la storia di un altro esilio (e di una cocorita).

Dunque quella sera di tre settimane fa, venuta a discutere con me il caso M. e scortata dalla vicina del piano di sopra, Jeanne mi ha raccontato che aveva conosciuto M. un mese prima, durante una delle sue passeggiate con bastone lungo il canale per tenere vive le gambe. Si era fermata a parlare con un gruppo di nostri allievi che aspettavano la lezione, E alla fine gli ho lasciato qualcosa per comprarsi da mangiare e gli ho detto: mi raccomando, sono da dividere, eh! Posso chiederle quanto gli ha lasciato? Bah, duecento euro. Duecento euro?? Certo, duecento euro. Se uno fa le cose le fa fino in fondo; se no che senso ha?

Jeanne mi ha scritto ieri sera. Dal divano del suo bilocale. Le piacerebbe che le telefonassi. Forse però meglio una mail, dice, perché non è sicura di riuscire ad alzarsi per rispondere al telefono.

 

4 febbraio

 

Quando l’altra sera, sui gradini, un amico (pure colto, aperto e tutto quello che vogliamo) ha chiesto a O., sudanese, se fosse arrivato in Francia in aereo prima gli ho detto Ma sei scemo?, poi mi sono resa conto della fatica che facciamo ad associare queste persone qui, che ci stanno parlando in questo istante, con quelle che hanno viaggiato insieme ai cadaveri sui barconi.

 

8 febbraio

 

Oggi, prima della lezione, ho bevuto una cosa en terrasse con S., quello dello sbarco in Sicilia e dei mandorli in fiore. Ci siamo seduti a un tavolino delle Folies, a Belleville. Parlavamo delle frontiere che ha attraversato e quando mi ha ribadito il suo amore per l'Italia (dove ha trascorso solo una settimana) gli ho detto: Però sai, io credo che se voi sudanesi avete questo amore viscerale per l'Italia è anche perché è il primo pezzo d'Europa che avete avvistato, e coincide con il momento in cui vi siete sentiti in salvo. I suoi occhi si sono accesi d'interesse, come se non ci avesse mai pensato ma fosse d'accordo con me; poi si sono addolciti e mi ha detto, mormorando: Non, mais tu sais... en Italie, il y a les femmes... [No, ma sai… in Italia, ci sono le donne…]

Mi ha raccontato che a Ventimiglia, le ragazze di un’associazione che distribuiva vestiti andavano (o erano andate? il racconto aveva la forza dell’imperfetto) a bere birra sulla spiaggia con loro, ed erano così jolies… Ho pensato che ricordava quei momenti con lo stesso piacere di chi ricorda le vacanze al mare la scorsa estate. Ho pensato a Cédric Herrou, ai francesi arrestati nella Val Roia perché aiutano i migranti a passare la frontiera o semplicemente a raggiungere una stazione; gli ho chiesto: È difficile passare in Francia, vero? Ooooh, très difficile, mi ha risposto, ma gli scappava da ridere. Sono saliti su un treno in venti e tutti gli altri sono andati a nascondersi sotto i sedili; Mais moi je pense – si punta l’indice alla tempia – je pense pas bon… police nous trouve [Ma io penso… non va… polizia ci trova]. Sul treno c’era solo una persona, Un italien. S. si è seduto accanto all’italien e io me lo vedo, con i suoi modi da dandy, irresistibile. Poi però è salita la polizia e Moi je pense, très vite, faire quelque chose [molto in fretta, fare qualcosa], guarda l’italien e si tuffa sotto il suo sedile. Gli dico: Veramente? Lui ride molto divertito e dice Bah oui. E dice che l’italien aveva tra le mani… spalanca le braccia. Un giornale? Chiedo. Oui, un journal. E mima la scena: l’italien si china un po’ in avanti e abbassa una pagina verso le gambe. La polizia stana tutti quanti tranne S., ma l’italien gli fa segno di rimanere nascosto: gli agenti sono ancora sul treno.

Scampato il pericolo, S. riemerge e si siede accanto all’italien, con il quale chiacchiera amabilmente fino a Cannes. Il m’a demandé pourquoi tu restes pas Italie [Mi ha chiesto perché non resti in Italia]. Ho i parenti in Inghilterra, gli ha risposto S. – pensando di andare a Calais.

A Calais S. ci è andato davvero, ha studiato la situazione, ha parlato con chi si preparava alla traversata e poi Moi je pense: non, c’est trop dangereux [no, è troppo pericoloso]. E così è qui con noi a Paris. Lo guardo dritto negli occhi, lui mi restituisce lo sguardo e ride. Moi je pense: è questa la sua buona stella.

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