La letteratura è indispensabile per affrontare la complessità? / La tenebra letteraria

29 Marzo 2016

Ho appreso i segreti dell’arte del parcheggio frequentando lunghi corsi di guida all’“école des hautes études” del traffico genovese dove o sai parcheggiare millimetricamente in retromarcia in salita o sei finito, puoi vendere la macchina. Mi colpiva ieri una giovane donna (questo naturalmente è irrilevante) che stava tentando di parcheggiare l’auto e credeva, ma con l’aria molto perplessa, che su quella direttrice sbagliata che aveva preso la macchina entrasse bella dritta nello spazio angusto che aveva a disposizione. Valle a spiegare che è una questione di traiettorie precise che si devono imboccare, che non puoi pretendere che la macchina entri se l’angolo di sterzata è troppo stretto. Non si parcheggia se non sai parcheggiare. Se si crede di avere sempre a disposizione la semplificazione degli spazi larghi, piani e liberi del centro commerciale, allora l’idea chiara di che cosa sia la realtà del vero parcheggio sfugge. È la suprema gara tra la semplificazione e la complessità.

 

Noi abbiamo bisogno di complessità, di maneggiare le cose difficili, ma il sapere condiviso che teniamo in tasca dentro allo smartphone, l’informazione totale e gli infiniti services offerti dall’iniziativa economica nella nostra società, ci orientano verso la semplificazione, ci fanno da schermo e ci convincono di essere in grado di affrontare comunque ogni prova. È sufficiente “googlare”, c’è sempre un “tutorial” che ti salva. Così le complessità è come se si allontanassero. E diventa difficile agire a livello complesso anche la personalità se non si fa propria la capacità di percepire e lavorare con la complessità del reale. Faccio fatica a gestire il mio comportamento in tutti i suoi aspetti se non riesco a capire abbastanza bene quanto l’umano sia complicato e tortuoso. Qui probabilmente si gioca il nostro stare al mondo, nell’accettare la complessità.

Tanto tempo fa, nel 1986, una delle tracce della prova scritta di italiano all’esame di Maturità (allora si chiamava così) era questa:

Attraverso quali esperienze avete imparato ad apprezzare la parola scritta rispetto alla pluralità delle forme espressive del nostro tempo, acquistando il gusto della lettura e raggiungendo la comprensione del valore dell’opera letteraria?

 

Si pensava, evidentemente, che la lettura e la letteratura fossero ancora cruciali. Leggendo oggi il titolo della Maturità, non è facile decidersi se ridere o piangere. La semplificazione (non la semplicità, ovviamente) in cui molti oggi vivono – sicuramente parecchi di quei giovani maturandi dell’86 –, ha fatto piazza pulita della complessità. Il dato “letterario”, cioè complesso, non è quello che domina le loro vite. La complessità della loro vita esiste, naturalmente, ma troppo spesso non ne hanno la piena “agibilità” perché manca l’esercizio continuo all’analisi complessa che la letteratura fa (Umberto Galimberti ha riflettuto su questo ripetutamente). È una chiarissima evidenza (è la nota fabiovolizzazione) su cui non vale la pena insistere.

Ma se io oggi avessi, poniamo, venticinque anni e fossi uno dei milioni di italiani non lettori sistematici, mi chiedo spesso, quale sarebbe il senso di me per la letteratura? Dopo aver attraversato, anatra felice dal manto impermeabile, il fiume scolastico, che cosa mi porterei dietro di quel po’ di letterario comunque appreso a scuola? Quale sarebbe la distanza tra il me che conosco e un me pressoché privo di letteratura? Come funzionerebbe la mia sensibilità psicologica, culturale, sociale? Che cosa avrei in testa se fossi un individuo senza letteratura? E il letterario è la complessità, una raggiungibile complessità.

 

 

Italo Calvino, in una conferenza del 1955, diceva che “le cose che la letteratura può ricercare e insegnare sono poche ma insostituibili: il modo di guardare il prossimo e se stessi, di porre in relazione fatti personali e fatti generali, di attribuire valore a piccole cose o a grandi, di considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare le proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il posto della morte, il modo di pensarci o non pensarci; la letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo e tante altre di queste cose necessarie e difficili” (Il midollo del leone, Chiara Benetollo ha proposto una bella riflessione su Calvino a partire proprio da questo testo qui in Doppiozero lo scorso 9 novembre 2015).

Tutti sappiamo guardare il prossimo e noi stessi? Sappiamo attribuire il giusto valore a piccole o grandi cose? Considerare i nostri limiti e vizi e quelli degli altri? Sappiamo trovare le proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo? E il posto della morte? Ci interessa imparare, con la letteratura, cos’è la durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo e tante altre di queste cose necessarie e difficili? Queste sono le cose dell’umana complessità. Dovremmo farne un decalogo e ripeterlo ogni mattina davanti allo specchio, per riconquistarla quella complessità.

 

Quella era un’epoca, i Cinquanta, in cui era indispensabile recuperare razionalità e concretizzarla in solide costruzioni sociali, economiche, culturali. Dopo il delirio bellico, si doveva rimettere in piedi la potenza ideativa degli uomini e produrre, produrre il più possibile, per dare alle future generazioni un nuovo terreno psicologico su cui crescere. E la letteratura per Calvino doveva avere una parte essenziale in questo gioco, per poche ma insostituibili cose, non semplificabili, non riducibili.

Oggi, concluso il percorso formativo scolastico, pochi leggono e molto pochi si dedicano agli studi letterari, dove allora si acquisterebbe il “gusto della lettura” al di fuori della letteratura? In chat? In palestra tre-volte-a-settimana-per-stare-bene? “Gazzetta dello Sport”? Due righe prima di dormire? Come si capitalizzerebbe la “comprensione del valore dell’opera letteraria” senza continuare a frequentare l’opera letteraria? Negli anni Ottanta (L’inizio della barbarie, titola il libro di Paolo Morando ad essi dedicato, Laterza 2016), un noto craxiano una volta, mentre si stava bevendo Milano e l’Italia, incensava la scanzonata Rete 2 della Rai, una rete leggera, a suo dire, che non ammorbava il popolo con il cupo rigore culturale comunista (un “culturame”, come si diceva in altri tempi) di Rete 3.

 

Era poco prima che Tangentopoli piombasse sul suo mondo. Mentre quelli al governo “semplificavano” la vita della società italiana rendendo easy la nostra esistenza, alla Maturità chiedevano di riflettere sul valore della letteratura. In quei “fastosi anni di merda” (Nanni Balestrini), in cui la capacità di complessità che gli individui ancora avevano era messa al rogo, solo a scuola ci si trastullava ancora con la “letteratura”, così, per passare due ore.

Trent’anni dopo esatti, viviamo in una società in cui è fortissima l’attrazione alla semplificazione, si mira, come massa, più a diventare dei “pimpanti mai vecchi” che a esercitare le complessità letterarie. Non si legge e si accetta la sfida, persa in partenza, di vivere senza letteratura, senza avere in testa i concetti di “Bovary”, “Raskolnikov”, “Anna Karenina”, “Guermantes/Verdurin”, “Joseph K.”, “Zeno Cosini”, “William Stoner”, ecc. Da un’altra parte si dibatte su fiction-non fiction, sul predominio dei fatti sulla “invenzione” letteraria. L’immaginario letterario sembra subire una perdita di incisività e i romanzi che si vendono li scrivono i giornalisti, che li confezionano, con una sorta di diritto di prelazione del vero, come referti di realtà con la “semplificazione” che, giocoforza, li contraddistingue. Spopola “il fottuto storytelling” (Luca Sofri, qui ) e i romanzieri giornalisteggiano e i giornalisti romanziereggiano. Senza le complicate costruzioni simboliche della fantasia letteraria, il contatto con la realtà più immediata sembra più cogente e forse le persone credono di vivere di più nel senso di più intensamente. Sembra quasi che le storie raccontate dai giornalisti sparino più realtà del concetto di “Don Chisciotte”.

 

Che questo generi, nel paese dei non lettori sistematici, un “gusto della lettura” tutto nuovo? E una nuova “comprensione dell’opera letteraria”? Sarà questo che ci consentirà di recuperare la complessità? Che ne sarà, in questo mare di concretezza, della nostra personale capacità di simbolizzazione? Come si fa a procedere e a crescere quaggiù senza fare riferimento a una “metafisica” letteraria piena di “cose necessarie e difficili”? Diventeremo dei bambinoni concreti che percepiscono la complessità come tenebra e la semplificazione come la luce, perché scegliere il buio?

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