Michail Bakunin. Viaggio in Italia

31 Luglio 2013

“ITALIANI! Gli eventi precipitano, la bancarotta dello Stato si avvicina da un lato e dall'altro la rivoluzione procede inesorabile.” No, non è Beppe Grillo. Sembrerebbe impossibile leggere l'Italia di oggi attraverso cose scritte centocinquant'anni fa da un anarchico russo che ha vissuto nel nostro paese solo per pochi anni. Eppure negli scritti italiani di Michail Bakunin, raccolta davvero freschissima e sorprendente curata da Lorenzo Pezzica e pubblicata da Elèuthera con il titolo Viaggio in Italia (144 pagine, 12 euro), si trova molto di quello che ancora oggi costituisce l'assetto politico e culturale di questo benedetto paese.

 

 

L'anarchico russo, prima amico e poi nemico giurato di Marx e fondatore dell'anarchismo moderno si era trasferito nel nostro paese nel 1864, poco dopo l'unificazione a opera di Garibaldi e Cavour e dopo aver viaggiato, in manette, da fuggitivo o per inseguire le rivoluzioni d'Europa, dalla Russia alla Francia, dalla Germania alla Siberia, dal Giappone agli Stati Uniti. Bakunin visse a Napoli, Firenze e Ischia prima di ricominciare le sue peregrinazioni per l'Europa e infine morire nel 1876 in Svizzera. Aveva 62 anni. Il periodo italiano è fecondo politicamente, e nel libro sono raccolti saggi brevi e lettere private, oltre che una biografia di Bakunin che rende giustizia alla sua incredibile dimensione internazionale. La forma degli scritti e i temi affrontati, è spontaneo, fanno pensare a Gramsci, alle sue lettere e ai suoi quaderni in cui tutto, dalla dimensione più personale all'analisi della politica italiana era sempre legato strettamente a una capacità di descrivere in profondità le culture del nostro paese.

 

“ITALIANI! La consorteria è una classe ai cui figli vanno tutti i più importanti e lucrosi incarichi negli apparati dello Stato; anzi, è la casta statale per eccellenza. Non riconosce altra patria al di fuori della speculazione mondiale e ciascuno dei suoi membri sfrutterebbe e deprederebbe altrettanto volentieri qualsiasi paese come la sua cara Italia.” Bakunin descrive una società italiana divisa in caste impermeabili al cambiamento e restie a mollare il potere. Il meridione è frustrato da uno stato che lungi dall'impegnarsi a risollevarne le sorti aumenta i suoi problemi. Annota il modo in cui il potere viene amministrato, la forza preponderante di chi gode della rendita – che sia fondiaria o politica – e la divisione tra il popolo e gli strati più ricchi e privilegiati della società.

 

Ammettiamolo. Certo Marx esagerava quando ha definito Stato e anarchia, l'opera della maturità di Bakunin, “un'asineria da scolaro”. E poi aveva ragioni politiche per distanziarsi il più possibile dagli anarchici, che ancora insidiavano la sua egemonia sull'Internazionale. Ma il paragone con Gramsci non regge, se non nella forma e nelle tematiche che tratta: il ruolo della chiesa, la grande borghesia, i problemi del popolo. Però siamo su livelli molto diversi. In fondo Bakunin era un politico, un agitatore, un corpo e una mente in balìa del susseguirsi delle rivoluzioni che attraversavano il continente. Le parti migliori di questo libro sono quelle in cui racconta gli incontri con Mazzini e con Garibaldi, in cui emerge la rabbia con cui perseguiva lo scopo della giustizia sociale. Gramsci arriverà più di mezzo secolo dopo. Di Mazzini e di Garibaldi non ne esistevano più. A pensarci bene non è che oggi se ne vedano molti in giro. Forse questo libro va letto per capire l'Italia appena unificata. Quella di oggi è troppo deprimente.

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