Un altro accesso all’alterità

10 Dicembre 2014

«L’esteriorità si constata, l’alterità si costruisce», è il graffio che incide la quarta di copertina di una recente opera di François Jullien dall’eloquente titolo Contro la comparazione. Lo “scarto” e il “tra”. Un altro accesso all’alterità (Mimesis, 2014).

Con questo testo – tratto dalla sua prima lezione per la Chaire sur l’altérité promossa a Parigi nel 2011 presso la Maison des Sciences de l’Homme – Jullien ci permette di entrare nel vivo del suo “cantiere”, termine quanto mai appropriato per descrivere il lavoro di scavo operato dal filosofo francese tra l’Europa e la Cina.

 

Lungi dall’abdicare dall’Occidente in favore dell’Oriente, la sinologia di Jullien rappresenta piuttosto una «decostruzione dal di fuori» (p. 34) del pensiero europeo, una fuoriuscita tanto da Atene quanto da Gerusalemme e, soprattutto, dalle ingombranti categorie che si portano dietro. Prima tra tutte quella che rappresenta la grande madre genitrice della filosofia occidentale, da Platone a Heidegger: l’ontologia. Lo studio dell’Essere, dunque, di un essere che ritaglia la propria sostanzialità (dal latino substantia, ovvero ciò che sta sotto, che non muta mai, che è mera causa sui) attraverso identità e differenze.

Ecco i due concetti – identità e differenza – contro i quali Jullien si scaglia: due tautologie che proprio in virtù del loro voler scolpire l’alterità, non fanno altro che cristallizzarla, ordinarla e, quindi, in ultima istanza, soffocarla.

 

Come può esserci – si chiede Jullien – un’identità culturale quando la peculiarità della cultura sta proprio nella sua mutevolezza, nella sua trasformazione continua? Quel nocciolo duro, quell’essenza necessaria, originaria, che l’ontologia filosofica occidentale ha sempre tentato di afferrare, di (ri)trovare – innescando, da una parte, meccanismi mimetici e, dall’altra, meta-fisiche che stanno al di là della vita stessa – è proprio ciò che impedisce l’accesso all’alterità, alla pluralizzazione del termine “cultura”.

Come affrontare, allora, le differenze culturali, i rapporti fra tradizioni e mentalità lontane e a volte così apparentemente antitetiche? Come riuscire ad abbracciare, ma ancor prima a concepire, un “altro” de-ontologizzato e, di riflesso, un “sé” che non sia un Tutto bastante a se stesso?

 

Se, come abbiamo visto, un lavoro sull’identità, su uno scavo ontologico ed ego-riferito, non porta ad altro che a una cristallizzazione singolare della cultura, lavorare sulle differenze non conduce a esiti diversi. Secondo Jullien, infatti, anche «la differenza è un concetto identitario» (p. 38), che distingue, ordina e compara. «Parlare della diversità delle culture in termini di differenza disinnesca in anticipo ciò che l’altro dell’altra cultura può apportare di esterno e di inatteso, al tempo stesso sorprendente e sconcertante, disorientante e incongruo» (p. 40). La differenza, insomma, presuppone che esista un’identità di fondo, un soggetto fatto e finito che guarda l’altro dall’esterno, dall’alto, e che da lì opera una comparazione. Comparazione, tra l’altro, impossibile, in quanto questo luogo utopico, extra-territoriale, da dove il soggetto giudicante si ergerebbe a classificare l’alterità, non esiste, dal momento che anche il soggetto in questione fa necessariamente parte di una certa cultura.

 

Mentre «le utopie rassicurano, le eterotopie inquietano» (p. 32), fa eco Jullien al Foucault di Le parole e le cose, opponendo a un’extra-territorialità utopica che è pura esteriorità, un’eterotopia inquieta dell’alterità, un “luogo altro” che, come sottolinea acutamente il curatore dell’opera Marcello Ghilardi, fornisce «una sorta di specchio differenziale in cui l’identico si riflette e cerca di comprendersi guardandosi da un “fuori» (p. 81). E questo rimbalzo tra interno ed esterno non può che inquietare, far slittare all’infinito la possibilità di una cristallizzazione del soggetto e dell’alterità.

 

Contro la comparazione. Lo “scarto” e il “tra”. Francois Jullien

 

Ciò che consente questo sguardo chiasmatico tra un dentro e un fuori – sia del soggetto che della cultura – è, secondo Jullien, lo scarto (écart). Ben diverso dalla vecchia coppia filosofica identità-differenza, lo scarto si pone come una figura di disturbo (dérangement) e non di ordinamento (rangement), come ciò che non fa apparire identità ma fecondità, tensioni produttive. Lo scarto, al contrario della differenza, non stabilisce una distinzione – che pre-suppone sempre una fantomatica originarietà – ma procede da una distanza, che non descrive ma produce, mette in tensione.

 

Mentre «la “differenza” analizza, ma non produce che se stessa» (p. 55), lo scarto genera un tra, che non ha nulla di proprio ma rinvia sempre ad altro da sé. «Dopo secoli di un soggetto insulare e solipsista, relegato nel suo cogito e divenuto da subito sospetto, ci si rende conto infine che è dal tra del tra-noi – l’inter dell’ “intersoggettività” – che i soggetti traggono consistenza» (p. 65), aggiunge Jullien, opponendo al sistema ontologico un dia-stema in cui far lavorare lo scarto, le tensioni e le polarità. È proprio questo tra che fa emergere l’altro, un altro che non sia soltanto una proiezione immaginaria di sé, ma sia davvero un “altro” con cui dia-logare per far nascere qualcosa che sia realmente comune.

 

L’alterità non va assimilata, proprio perché il comune non è il simile, il ripetitivo, l’uniforme, né il superamento delle differenze, ma, piuttosto, un’apertura di scarti, una tensione feconda proprio perché sempre declinata al plurale. «Così come qualcosa di comune si attiva solo attraverso degli scarti, lo specifico del culturale è il fatto che, mentre tende a omogeneizzarsi, non smette mai di eterogeneizzarsi» (p. 75), di smarcarsi continuamente dalla sua immagine pregressa.

 

Nel suo “cantiere”, Jullien fa lavorare la filosofia, facendola diventare essa stessa un tra, una soglia da abitare, un luogo eterotopico. Un altrove che è sempre già qui e un qui che è da sempre altrove, che si guarda guardante, smarcandosi dall’alienazione immaginaria del proprio volto allo specchio.

Attraverso il suo lavoro sinologico, Jullien ci consente un nuovo accesso al pensiero europeo, una nuova modalità politica di «pensare un pensiero che fa e un fare che pensa» (p. 21). Una (ri)configurazione dei soggetti sociali attraverso quegli scarti che producono alterità, polifonia di voci e di culture, perché, come Jullien sottolinea citando Plotino, «se elimini l’alterità, resteranno l’uno indistinto e il silenzio».

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