Pensare la cucina / Marchesi: l’arte del buon senso, lo spettro del Kitsch

15 Gennaio 2018

La notizia della morte di Gualtiero Marchesi, la sera del 26 dicembre scorso, l’ho appresa da Facebook. Il mattino dopo m’è arrivata per mail, con indicazioni dettagliate circa le esequie, la conferma ufficiale. La mail aveva come mittente Gualtiero Marchesi. Inquietante, lo so, forse macabro: per chi ha un po’ di dimestichezza coi social, invece, è assai poco strano. Si potrebbe giustamente ricordare, in casi così, l’agghiacciante racconto di Edgar A. Poe (“’I’ve been sleeping, but now I’m dead’, said Mr Valdemar…”). Ma i media vecchi e nuovi ci hanno insegnato a cogliere, pacificamente e cinicamente, la differenza discorsiva fra una persona fisica e la sua immagine pubblica, fra un corpo fisiologico e il suo brand. Ed è in tale differenza, sottile per taluni, incommensurabile per altri, che va letta, e interpretata, la scomparsa di questo grande della cucina italiana. 

 

Ora, il problema non è tanto quello di tenere smembrati l’uomo e il suo simulacro mediatico, la persona e il personaggio, né tantomeno di discernere fra l’effettiva abilità ai fornelli e la sua efficace promozione urbi et orbi. Al contrario, quel che è interessante è il modo in cui, riuscendo a coniugarli strategicamente, Marchesi ha trasmesso al mondo della gastronomia, e in generale della cultura, un preciso modo di pensare la cucina e il cibo, la convivialità, il gusto. Lasciandoci un’eredità che, prima ancora d’esser spartita, dovrebbe essere, com’è giusto, adeguatamente soppesata, valutata, discussa forse. In altri termini, piuttosto che ricostruire quel che Marchesi è stato o come ha operato, come in tanti hanno già fatto in occasione della sua scomparsa (talvolta autoglorificandosi di un’amicizia appiccicaticcia), è il caso di domandarci quel che è e tuttora sta facendo, forse malgré lui: quel che ha generato, insomma, nel mondo della gastronomia, con tutte le tangenze che conosciamo nei campi della ristorazione e delle arti, dei media e dell’economia, dei consumi e delle abitudini alimentari. 

 

Marchesi, risotto con lamina d'oro.


Non ci si stancherà mai di ripetere che la moda è quella cosa che inesorabilmente passa di moda ma che, se lasciata stare, non sparisce del tutto e si rifugia altrove, scendendo progressivamente la scala sociale o riaffermandosi euforicamente nelle periferie dell’impero. Marchesi, diciamolo sommessamente ma con estremo convincimento, è andato via al momento giusto: e cioè quando quella gastromania che lui ha contribuito per gran parte a creare, espandendosi nei luna park dell’alimentazione o della ristorazione di second’ordine, sta lasciando un gran vuoto di pensiero e d’azione a cuochi e gourmet, critici e degustatori, blogger e mangioni, filosofi del cibo o casalinghi/mammi desiderosi di compiacere a tavola mogli in carriera (rigorosamente vegan) e pargoli d’ordinanza (stressati dal lavoro nell’orto scolastico). Chi oggi, in provincia, non reinterpreta la lamina d’oro sopra il risotto? A chi negare, nel tinello di casa, un raviolo malamente aperto o uno spaghetto gelido al caviale?

 

Marchesi, Mc Donald.


Facciamo un esempio: si ricorderà (ma assai pochi lo hanno fatto, mi pare, negli obituaries di rito) che alcuni anni fa – mica tanti: era il 2011 – Marchesi fu testimonial di un sedicente rinnovamento di McDonalds, inventando per questa multinazionale del fast food – simbolo acclarato del cattivo gusto e della pessima cucina uguale dappertutto – un paio di panini gourmet dai nomi pretenziosi come Vivace e Adagio oltre al dessert Minuetto: una palese denotazione musicale (se vista in chiave personale) per una connotazione italianissima (se vista in chiave planetaria). Il celebre maestro dell’arte culinaria amava molto la musica, si sa: cosa c’era di meglio per veicolare le polpettone McItaly in giro per il mondo? Apriti cielo: le reazioni furono numerose, alcune molto dure. Tutti dissero di vero e proprio tradimento, qualcuno parlò di “specchietto delle allodole del marketing” e ci fu chi apostrofò il grande chef, senza pietà, come “un avanzo di nouvelle cuisine invecchiato male". Oggi, a distanza di pochissimo tempo (e alla luce dello straordinario successo commerciale di un brand come Eataly), capiamo che Marchesi fu, se non profetico, quanto meno lungimirante. Da una parte sembrava interpretare quel personaggio del cartone Ratatouille che svende il proprio marchio haute cuisine alla ristorazione veloce. Dall’altra, molto probabilmente, aveva ben colto che l’assiologia fast/slow su cui s’è retto per trent’anni il dibattito sull’alimentazione, in Italia e no, ha perduto ogni significato, e che occorre cercare strade alternative, sicuramente fondate su posizioni, da entrambe le parti, molto meno radicali. Per dirla con una formula, il problema non sta più nell’opposizione fra globale e locale, ma in un glocale da riprogettare incessantemente.

 

Marchesi, Mc Donald.


Più in generale, per comprendere la storia di Marchesi, e soprattutto il suo lascito, occorre guardare ai destini paralleli, ormai stereotipi, delle avanguardie artistiche del Novecento: rotture plateali presto rientrate, quando non istituzionalizzate, costruzione di trincee troppo presto condivise col nemico di turno. Marinetti, assassino del chiaro di luna, diviene accademico d’Italia, esattamente come Marchesi, dopo aver preso le distanze dal sistema Michelin e da Gault e Millau, accetta in Francia la legion d’onore. Non si tratta di vendere l’anima al diavolo, ma, al contrario, di rabbonirlo: il gesto di rottura si musealizza, e il museo a sua volta tende a svecchiarsi. A leggere la miriade di articoli usciti post mortem, si incontrano gli stessi sostantivi (‘maestro’, prima di tutti) e gli stessi aggettivi (‘scanzonato’, ‘provocatorio’, ‘rigoroso’, ‘creatore’). Ma quel che colpisce sono soprattutto i medesimi avverbi: ‘ma’, ‘sebbene’, ‘tuttavia’, ‘nonostante’, e dunque una pletora di quelle che i linguisti chiamano predicazioni concessive: artista ma anche scienziato, geniale inventore sebbene nell’ossequio della tradizione, duro lavoratore nonostante le irritanti pose da grand’uomo, elaboratore di finissime tecniche culinarie rispettando tuttavia le materie prime… È il trionfo dell’ossimoro, la negazione costante delle inferenze sedicenti logiche, dove l’ansia della trovata a tutti i costi, la voglia di stupire il pubblico deferente, si scontrano col buon senso quotidiano, che non è necessariamente senso comune. 

 

Maestro, s’è detto peraltro in continuazione. Ma, come si ragionava un paio d’anni fa in tutt’altro contesto, esistono maestri di tanti tipi: ci sono quelli autoritari, ma anche quelli autorevoli, che non è la stessa cosa; così come ci sono maestri senza allievi, e allievi alla ricerca di maestri ormai perduti. Marchesi era un maestro che non dava regole da eseguire ma uno stile da imitare liberamente, ponendo se stesso, insomma, come regola da smentire senza sosta. Come dire: smettiamola di aprire ravioli, e torniamo allo zafferano, che è il vero oro del buon risotto. Tutto il resto è irrimediabilmente Kitsch.

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