Guardare con gli occhi dell’escluso / Le finestre sul cortile di Hitchcock e Chodasevič

10 Agosto 2018

Nati entrambi sul finire dell'Ottocento, Hitchcock e Chodasevič sembrerebbero non condividere altro che l’abbondanza di consonanti che compongono i loro cognomi. Regista inglese l’uno, poeta russo l’altro, che il lettore italiano conoscerà forse per Necropoli (Adelphi, 1985), vissero in ambienti e contesti molto diversi, e tali furono anche i loro prodotti artistici. Eppure il film La finestra sul cortile (Rear Window, 1954) e la poesia di Chodasevič Finestre sul cortile (Okna vo dvor, 1924) trattano entrambi il tema dell'osservazione che scaturisce da una condizione di esclusione e di disabilità reale o metaforica grazie alla quale si può vedere e conoscere meglio. C’è poi dell’altro in comune, come vedremo, a partire dall’esclusione vissuta da entrambi come esperienza biografica.

 

La trama del film di Hitchcock è ben nota: un fotoreporter newyorkese, L. B. Jefferies, interpretato da James Stewart, è bloccato in casa da giorni con una gamba ingessata. È estate e l’afa costringe gli inquilini dei palazzi circostanti a tenere le finestre spalancate. È qui che si posa lo sguardo di Jefferies, la cui assidua osservazione gli permetterà di notare le strane manovre di un sospetto commesso viaggiatore, suo dirimpettaio, e di smascherare l'omicidio che questi commette ai danni di sua moglie. Il film si apre con una panoramica esterna degli appartamenti da cui si ricavano i primi dettagli sui loro abitanti: un pianista e compositore, una bella e giovane ballerina, una coppia di neo sposi, una donna sola con problemi di depressione e una coppia senza figli che riversa amorevoli attenzioni su un cagnolino. Alle loro vite più o meno affaccendate si contrappone la staticità di Jefferies che durante tutto il film siede su una sedia a rotelle presso la finestra, punto di osservazione prediletto e unico sfogo verso l'esterno. L'atto del guardare percorre il film dall'inizio alla fine, fino alla penultima scena in cui Jefferies acceca con un flash l'assassino che si è introdotto in casa sua con l’intenzione di ucciderlo poiché lo ha scoperto testimone del suo misfatto. Ma a parte una caduta dalla finestra che causerà al fotoreporter la frattura dell'altra gamba, tutto finisce bene: l'assassino è smascherato, e la bella fidanzata di Jefferies (Grace Kelly), che si è rivelata una valida aiutante, sembra sia riuscita a conquistare definitivamente il cuore e la stima del suo uomo. 

 

Il fotografo è il voyeur per eccellenza, colui che guarda e sa guardare. Ma se è vero che siamo tutti dei voyeur, come afferma François Truffaut in Il cinema secondo Hitchcock, la lunga intervista al regista inglese pubblicata nel 1966 e poi nel 1980 in una versione aggiornata, non è altrettanto vero che siamo tutti capaci di guardare, di stabilire cioè, tra l'oggetto osservato e la realtà, dei legami di senso per poi interpretarli. Jefferies, ad esempio, non solo si insospettisce del dirimpettaio, ma trae le sue conclusioni interpretando gli indizi che ha a disposizione. Per questo il suo amico poliziotto non nasconde un atteggiamento canzonatorio nei confronti delle supposizioni di Jefferies che gli paiono esagerate o troppo fantasiose. Questo modo di guardare è simile all’osservazione dell'artista, che è spesso aiutato a guardare meglio da una condizione di esclusione. Jefferies riesce infatti a smascherare l'omicidio perché è, sì, abituato a guardare, allenato dal suo mestiere, ma anche perché la gamba rotta lo costringe all'immobilità, a un lungo e forzato isolamento che lo esclude dalla vita in cui i suoi vicini sono immersi; e infatti loro non si accorgono degli insoliti spostamenti del commesso viaggiatore. L’esclusione fu una condizione familiare anche a Hitchcock, come lui stesso racconta nell'intervista a Truffaut: «Durante le riunioni di famiglia stavo seduto nel mio angolino senza dire niente; guardavo, osservavo molto. Sono sempre stato così e continuo a esserlo ancora adesso. Ero tutto meno che espansivo. Anche molto solitario. Non ricordo di aver mai avuto compagni di giochi. Mi divertivo tutto solo e inventavo io stesso i miei giochi» (Il cinema secondo Hitchcock, p. 23).

 

Hitchcok, Grace Kelly, James Stewart.


Un ritratto simile emerge dalla biografia di Chodasevič. Nelle sue memorie, intitolate Il corridoio bianco (Belyj koridor, 1939), Chodasevič racconta, più che della solitudine, del piacere che provava a stare vicino la finestra: «Alla finestra della sala da pranzo trascorrevo intere ore, o con un libro o disponendo i soldatini sull’ampio davanzale ingombro di vasi di ficus, di filodendri e di altre piante che andavano di moda. Più spesso però guardavo semplicemente la strada […]». E più avanti continua: «Interessante seguire dalla finestra tutto ciò che si fa nel cortile» per poi raccontare di come una volta era precipitato giù a gambe all’aria, rimanendo però illeso. L’episodio della caduta, che sembrerebbe inconscia realizzazione dei pensieri suicidi dell’età adulta, è ricordato anche in due versi di un componimento del 1922 dedicato alla nutrice: «[…] caddi dalla finestra / ma mi alzai vivo (come ricordo quel giorno!)», e poi indirettamente in una poesia senza titolo del 1923: «Felice chi cade a testa in giù / per lui il mondo è diverso anche solo per un po’» (trad. mie). L’attrazione per la finestra continua evidentemente anche dopo l’infanzia, come scrive in un breve saggio del 1922 intitolato Finestra sulla Nevskij (Okno na Nevskij): «Sia d’inverno che d’estate siedo a lungo alla finestra: di mattina quando, innalzandosi dalla stazione, un flusso giallo sgorga dal sole; di sera, quando la luna si muove lentamente sui tetti del palazzo Stroganov, e nelle notti bianche. […] Non amo allontanarmi dalla finestra e quando devo scrivere appoggio il foglio sul davanzale» (trad. mia).

 

Nel 1924, quando compose Finestre sul cortile, contenuta nella sua ultima raccolta di poesie La notte europea (Evropejskaja noč’, 1927), Chodasevič si trovava da due anni in Europa, precisamente in Francia. Aveva lasciato la Russia sovietica poco prima della grande cacciata degli intellettuali, avvenuta nell'autunno del 1922. Nel 1925 si era definitivamente stabilito a Parigi, dopo un peregrinare per l'Europa insieme alla poetessa Nina Berberova, con cui era partito e con cui condivise gran parte della sua emigrazione. Le loro precarie condizioni economiche si sommarono alle difficoltà che incontrarono nel ricostruirsi una vita, da apolidi, in un paese straniero, tentando di vivere dello stesso mestiere per cui avevano lasciato la patria. Più che nel cortile, il voyeur della poesia, un sordo «sedotto dal suo stesso silenzio», guarda soprattutto negli appartamenti, come Jefferies, e vede frammenti di un’umanità sofferente e spettrale: uno scemo infelice, un attore che per la sedicesima volta prova la morte dell’eroe, un padre pallido come un cadavere, un vecchio non rasato che conficca un chiodo nel muro, un operaio sul letto di morte. Alle riflessioni esplicitamente espresse sul presente, sul futuro e sulla sensazione di oppressione esistenziale, si aggiunge l’implicito senso di esclusione del sordo che non può sentire i rumori che lo circondano: «gemono pentole, piatti, pianole / le balie ninnano bambini urlanti». La sordità non solo esclude, ma al pari di un’invalidità comporta mancanza di pienezza di sentire e di agire, costituisce una forma di mutilazione. Mutilato si sentiva anche Chodasevič, che in una lettera del 1922 al critico e amico Michail Geršenzon descriveva così il suo stato d’animo da emigrato: «Io qui non sono pari a me stesso, sono meno qualcosa che ho lasciato in Russia, che per di più è dolente e pruriginoso come una gamba mutilata» (trad. mia). L’esclusione e la mancata integrazione caratterizzarono in modo persistente il suo esilio e, com’è stato notato, si rintracciano simbolicamente nella rifrazione; ma anche nelle trasparenze della finestra che già prima dell’emigrazione compariva come punto privilegiato di osservazione liminale tra l’io e il mondo, luogo di aristocratica, leopardiana separatezza, emblema di solitudine come nei quadri di Edward Hopper.

 

 

Finestre di notte 1928, Stanza a Brooklyn 1932.


La vena poetica di Chodasevič si prosciugò gradualmente negli anni dell’emigrazione, ma nel 1924 (morirà nel 1939) l’osservazione è ancora un modo per far fronte all’esilio, una via di salvezza, come lo è per Jefferies durante la sua lunga e soffocante convalescenza. Il film e la poesia non solo suggeriscono che l’esclusione aiuta a guardare meglio, ma anche che saper guardare può regalare sensazioni che altrimenti sarebbero negate. In Dostoevskij, in un passo di L’idiota, la capacità di osservare viene considerata presupposto di felicità. Quando il principe Myškin – anche lui “invalido” ed escluso – racconta alle sorelle Epančin e alla loro madre del suo viaggio in Svizzera e di quanto sia stato bello guardare la natura, una delle sorelle, Adelaida, pittrice, si rammarica di non trovare da due anni un soggetto per un quadro poiché si reputa incapace di guardare. «Come sarebbe a dire, non so guardare? Gli occhi li hai: guarda» obietta pratica sua madre che però subito aggiunge: «Sarà meglio che raccontiate come guardavate voi, principe». Il principe risponde di non sapere se all’estero abbia imparato a guardare, sicuramente si è rimesso in salute e sostiene di essere stato per quasi tutto il tempo felice. «Felice? Voi sapete esser felice?» esclama allora Adelaida «come dunque potete dire che non avete imparato a guardare? Insegnerete anche a noi» (trad. di G. Faccioli). Al contrario, l’incapacità di guardare, con gli occhi e con il cuore, è latrice di infelicità, come testimonia l’esperienza di Re Lear. Nella tragedia shakespeariana, percorsa interamente dalla metafora del vedere, la cecità metaforica e reale che colpisce Lear è la causa della sua infelicità e della sua morte. A nulla vale l’esortazione del fedele Kent che incoraggia il sovrano a guardare meglio e ad eleggerlo bersaglio del suo occhio in quel momento di smarrimento: «See better, Lear, and let me still remain the true blank of thine eye». 

 

Entrambe le Finestre sul cortile si rifanno più o meno esplicitamente ad altre opere: il film di Hitchcock fu ispirato da un racconto di Cornell Woolrich del 1942, It Had to be Murder, che nel 1944 fu ripubblicato con il titolo Rear Window; mentre la Finestra di Chodasevič rimanda a una poesia di Aleksandr Blok del 1906 che porta lo stesso titolo. Nel componimento di Blok, il silenzio e il soffuso chiarore dell’alba si contrappongono al baccano e a una luce che si immagina raggelata nella poesia di Chodasevič. Gli osservatori di entrambe le poesie si affacciano su dei “cortili a pozzo”, bui, stretti e con una sola uscita, contornati da palazzi svettanti e tipicamente pietroburghesi (anche se Chodasevič descrive un cortile parigino). Ben diverso è il cortile su cui si affaccia Jefferies: piuttosto ampio, luminoso, verdeggiante, ma anch’esso anticamera del mondo, collegato alla strada – che Jefferies riesce a intravedere dalla sua stanza – da uno stretto passaggio. Anticamera del mondo o «teatro di posa della mente», come Roberto Calasso ha definito il cortile nella sua interpretazione vedantica del film, contenuta in La follia che viene dalle Ninfe (Adelphi, 2005, pp. 51-64). Secondo Calasso, Jefferies non vedrebbe altro che i fantasmi che popolano la sua mente. In particolare il suo Io avrebbe la controparte nel Sé, rappresentata dall’assassino, che riesce a liberarsi di un matrimonio passato, mentre il fotografo vorrebbe liberarsi di un matrimonio futuro. Ed è proprio «l’assassinio compiuto dal commesso viaggiatore che obbliga [Jefferies] al matrimonio» perché la sua bella fidanzata, suo braccio destro nell’operazione di smascheramento dell’assassino, ha dimostrato di essere all’altezza dell’avventurosa vita che la aspetterà come compagna di un fotoreporter.

 

Estendendo parzialmente la lettura di Calasso alla poesia di Chodasevič, noteremo che anche l’eroe lirico della poesia, guardando fuori dalla finestra, vede potenzialmente se stesso o aspetti di sé in diverse fasi della vita: l’infanzia, rappresentata dai bambini urlanti, la giovinezza dell’attore davanti allo specchio, l’età matura del padre pallido che non gradisce che il bambino non mangi la zuppa di cipolle, е la vecchiaia dell’anziano che sarà «distratto» da un ospite che sale le scale. In quasi tutte le scene, che scorrono come in una rappresentazione teatrale, si rintracciano, nei diversi personaggi, aspetti riconducibili alla biografia di Chodasevič: la sua adolescenziale passione per il teatro e il balletto, la difficoltà a mangiare quasi ogni tipo di cibo, il suo caratteristico pallоrе di malato, la paura della solitudine. Ne risulta quindi una sorta di osservazione di sé dall’esterno. Questa interpretazione trova fondamento in un’altra poesia di Chodasevič, Episodio (Èpizod, 1918). Qui il poeta racconta di quando si vide dall’esterno, «un po’ dall’alto, da sinistra», per poi trovarsi in difficoltà, ma soprattutto stretto, a rientrare «come un serpente» nella vecchia pelle. Uno studioso e poeta russo, Artëm Skvorcov, ha commentato la poesia Episodio sottolineando che questo sguardo del poeta che si posa su di sé come su qualcun altro è paragonabile non tanto a quello riflesso da uno specchio, quanto allo sguardo del cinema. Affermazione che ci riporta a Finestre sul cortile, nonché allo sguardo di Jefferies e al suo modo ‘cinematografico’ di guardare.

 

Dopo aver passato in rassegna tutte le figure maschili del cortile, tra cui solo alla fine compare una donna, anche se non come presenza reale, la riflessione del poeta si sposta sull’acqua che scorre nei tubi e che evoca oppressione esistenziale:

 

«L’acqua s’è messa a pigolare nel profondo del muro:

certo non è facile scorrere dentro i tubi,

sempre così stretta e sempre nel buio (il corsivo è mio)

in tale oscurità e in tale angustia».

 

Lotman ha scritto che «il modello spaziale del mondo diventa […] elemento di organizzazione intorno a cui vengono costruite anche le sue caratteristiche non spaziali» (La struttura del testo poetico, p. 264). Come nel film, nella poesia si passa dall’esterno all’interno della finestra. Un interno – il muro e i tubi in cui scorre l’acqua – che è a sua volta l’interno della camera, ma anche l’interno dell’interiorità. Cercare qualcosa di sé guardando gli altri, che a tratti diventano sé, è forse un modo per sentirsi meno esclusi e meno stretti. Ma il film e la poesia sembrano suggerire anche che saper guardare significa saper guardarsi. Guardare fuori e dentro il grande occhio della finestra, che unisce il chiuso e l’aperto, l’illimitato nel circoscritto, è come guardare fuori e dentro di sé, è come far luce sulla propria condizione esistenziale; permette di capire chi è l’assassino, chi sono i propri vicini, ma anche chi siamo noi. Così accade al voyeur della poesia di Chodasevič e a Jefferies, che oltre a smascherare il dirimpettaio impara qualcosa di sé, della sua relazione amorosa e della donna che amerà. Saper guardare aiuta allora a capire e a capirsi: un suggerimento prezioso, oggi, che non guardiamo quasi più. 

 

FINESTRE SUL CORTILE

 

Uno scemo infelice nel pozzo del cortile

Oggi dà in smanie sin dal mattino,

e non m’avanza una ciabatta

da tirargli dietro.

 

Gemono pentole, piatti, pianole,

Le balie ninnano bambini urlanti.

Con un sorriso un sordo siede alla finestra,

sedotto dal suo stesso silenzio.

 

Un attore nasuto davanti a uno specchio polveroso

bacia un ritratto mentre scrive una lettera –

così eseguendo un ruolo veridico,

per la sedicesima volta muore l’eroe.

 

Il padre ha già indosso bombetta e paltò,

ma si gira, pallido come un morto:

«Si sculacci subito il monello perché

non mangia la zuppa di cipolle!»

 

Un vecchio non rasato scosta il letto,

batte un chiodo con impegno,

ma oggi riuscirà a distrarlo 

un ospite che sale le scale.

 

Un operaio è composto sul letto tra i fiori.

Gli occhiali sul tavolo, monete di rame sugli occhi.

Legata la mascella, le mani congiunte.

Oggi nel ghiaccio, domani nel fuoco.

 

Quel che è giusto è giusto! Non puoi con la forza

Trascinare a letto una ragazza!

Dovresti prima leggerle versi,

poi offrirle del vino…

 

L’acqua s’è messa a pigolare nel profondo del muro:

certo non è facile scorrere dentro i tubi,

sempre così stretta e sempre nel buio,

in tale oscurità e in tale angustia!

 

(V. Chodasevič, La notte europea e altre poesie, trad. e cura di C. Graziadei, Parma, Guanda 1992)

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