Lampi nel web

30 Maggio 2011

 

Ci sono libri che appena li vedi ti viene subito voglia di averli, di correre a casa, gettarti sul divano e leggerli. La voglia è così forte che già per strada, fuori dalla libreria, cominci a compulsarli, poi sul tram, in metrò, li sfogli, catturi qualche frase qua e là, un pensiero, un capitolo, alla rinfusa. Così è questo libro che ho tra le mani. Un titolo accattivante, il sottotitolo ancor di più, e quell’immagine di Balla, Compenetrazione iridescente

 

“Stai per cominciare a leggere il nuovo saggio di Albert-Làszló Barabási Lampi. La trama nascosta che guida la nostra vita. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo sfumi nell’indistinto…”. E no! Fermi tutti. Già al secondo capitolo c’è qualcosa che non va. Anche il primo non è un gran che, ma forse, mi dico, il bello deve ancora venire. Ma non è lo stesso Barabási di Link. La nuova scienza delle reti? Certo che sì, un libro non male, anzi, a tratti persino entusiasmante, almeno per chi, come me, affascinato dalla metafora della rete cerca da tempo di capirne i meccanismi segreti (invano). Avevo già letto e anche recensito sette anni fa il libro precedente (sono usciti entrambi presso Einaudi), leggendolo insieme a Nexus di Mark Buchanan (Mondadori). Ricomincio da lì. Le reti, raccontava Barabási in Link, sono fondate su due cardini: i cluster e gli hub. I primi indicano le connessioni tra i nodi della rete (siano essi provider o membri di un gruppo di amici, non ha alcuna importanza). Secondo Paul Erdos, il geniale matematico ungherese vissuto nel novecento (l’Ungheria sembra che produca matematici straordinari, forse per via della complessità della sua lingua), le connessioni sono del tutto casuali: basta un solo link per ogni nodo e si è subito connessi; questo farebbe supporre che la rete funzioni in modo assolutamente democratico. I secondi, gli hub, indicano invece i nodi su cui convergono con maggior frequenza le interrelazioni della rete. Per fare un esempio: Google è un hub, così come lo sono in un sistema sociale quelli che definiamo opinion maker, ovvero le persone che influiscono in qualche modo sulle nostre idee, comportamenti o scelte. Barabási scrive in Link che Internet e il Web sono tutt’altro che democratici; se nella matematica di Erdos (1959) non c’è differenza tra i nodi della rete – tutti hanno la medesima possibilità di essere linkati –, in realtà nel Web “i ricchi diventano sempre più ricchi”: vincono sempre gli hub.

 

 

Le due leggi che governano quel tipo particolare di rete che è Internet (gli specialisti sostengono somigli straordinariamente alle connessioni neuronali degli organismi viventi) sono due: la crescita e il collegamento preferenziale. Questo dipende dai fattori di crescita, che determinano la forma stessa della Rete. La sua topologia è decisa dal fatto che cresce un nodo alla volta e che il nodo prescelto nel collegamento è sempre quello che contiene più link; l’insieme questi due fattori costituisce quella che i matematici chiamano la “regola dell’invarianza di scala”. Tuttavia questo aspetto antidemocratico sembra moderato da eventi accidentali e stocastici. Può infatti accadere che un hub venga di colpo sbalzato dal proprio ruolo di connettore a vantaggio di un nuovo hub, come è accaduto nel passaggio da Yahoo! a Google nel campo dei motori di ricerca.

 

 

I paradossi delle reti sono davvero tanti. Ad esempio, il matematico ungherese ha dimostrato che i guasti nella rete colpiscono in prevalenza i nodi piccoli invece che gli hub, o che la rete non ha esattamente la forma di una ragnatela; o meglio, è una ragnatela, ma senza ragno: ridondante, priva di una forma stabile, complicata, eccentrica. Il tema futuro su cui si gioca il futuro delle reti è senza dubbio quello dell’auto-organizzazione. Studiando le relazioni tra i membri presunti del comando di Al Qaeda che ha distrutto le Torri gemelle, un ricercatore americano ha appurato che quel sistema terroristico funziona con le medesime leggi del Web (o delle nostre connessioni neuronali): anche colpendo alcuni hub, non cesserebbe di funzionare. La guerra delle reti non ha fine.

 

Ecco ero arrivato qui, e dato che ora mi cimento con il web di doppiozero.com, e ho anche un analista molto più giovane di me, il quale computa inesorabilmente ogni settimana quante persone e per quanto tempo leggono un mio testo (o uno degli altri amici del sito-rivista), facendoci vedere come funziona il traffico di chi va e chi viene dal sito (il dominio dei numeri), mi sono incuriosito riguardo al libro del docente della Northeastern University. Volevo sapere se è vero che siamo perfettamente prevedibili, che i nostri comportamenti sono intercettabili, oggi più di ieri grazie al web, al cellulare che abbiamo in tasca, e ai mille algoritmi che i grandi motori di ricerca e i social-network mettono in campo per intercettare le nostre azioni più o meno occulte. L’analisi quantitativa, promette la quarta di copertina (una copertina cartonata Einaudi, di colore arancio, quasi bella come quelle che l’editore produceva un tempo), ha trasformato la nostra società in un immenso laboratorio di ricerca di cui noi siamo le cavie quotidiane.

 

Insomma, sdraiato sul divano ho divorato Lampi. Scritto è scritto bene, merito anche della traduttrice italiana, Simonetta Frediani; racconta molte storie curiose e affascinanti. La più interessante è quella di Dirk Brockmann, un ricercatore americano che vive in Germania, che dopo aver ricevuto l’imbeccata di un ex compagno di università, trasformatosi in ebanista, ha scoperto in una passione inconsueta dei suoi connazionali una delle fonti privilegiate per leggere i movimenti delle persone e quindi indagare come si possono diffondere le epidemie (ricordate la SARS che ci tenne con il fiato sospeso per alcune settimane?). Il segreto sta scritto in un sito di maniaci: WheresGeorge.com, americani che timbrano con una scritta le banconote e poi ne seguono sul computer, attraverso avvistamenti successivi, il tragitto negli Stati Uniti. Ne avevo sentito parlare anche, tempo fa, dopo un articolo su “Nature” che era stato ripreso dai giornali inglesi e americani (e due giorni dopo da quelli italiani che spiano il sito del “NYT” o del “Guardian” alla ricerca di notizie sugose e poi le sbattono nelle loro pagine).

 

Il libro di Barabási racconta tante storie, ondeggiando avanti e indietro nel tempo e nello spazio. Il lettore curioso si aspetta che finalmente, dopo averci svelato alcuni segreti di bottega, dopo averci raccontato una lunga e noiosa storia sull’Ungheria e un cardinale trombato al conclave, e quindi su una crociata impossibile che determina il destino tragico del paese centroeuropeo (un capitolo sì e uno no), dopo aver raccontato delle storie di Einstein, e di altro ancora, si arrivi al centro del problema: siamo prevedibili? E se sì, in che modo? Se grandi società d’informatica, i colossi come Google, Apple, Facebook, ci controllano e ci precedono (come tutti pensano: questo è il complotto dei complotti che ci riguarda tutti), esiste un algoritmo per intercettarci e dirci cosa faremo tra qualche minuto (uscito da qui, dove scrivo, andrò a bere un bicchiere con gli amici, giocherò al lotto, mi vedrò con la mia amante, o invece mi dedicherò al volontariato alla mensa dei poveri)? Quel brillante narratore d’idee di Barabási (mi ricorda tanto Baricco) purtroppo fa cilecca. Alla fine del libro la risposta non c’è. O meglio, se c’è, è nel titolo: Bursts che in originale vuole dire “fiammate”, ma anche “lampi”, “raffiche”, come ha optato variando la brava traduttrice.

 

 

Insomma, la legge che guida la nostra vita è quella delle “esplosioni”: non c’è regola se non che la regola è l’imprevedibilità stessa. Riassumo malamente, lo so, perché in realtà il prof. Barabási non dice proprio così, perché nasconde il fatto di non sapere come si può scrivere l’algoritmo della assoluta prevedibilità dietro un sacco di storie e storielline rimarchevoli, ma assolutamente incongrue con l’obiettivo promesso. Non che non ci vada vicino al problema. Lo fa là dove parla del “volo di Lévy”. Si tratta di un matematico francese, Paul Lévy, nato alla fine dell’Ottocento e morto nel 1971, che ha descritto in una formula matematica come si formano le traiettorie puramente casuali che si osservano in natura (una alternativa al famoso moto browniano), traiettorie cui somigliano anche i percorsi delle banconote timbrate, come i movimenti degli uccelli osservati da un gruppo di etologi, e probabilmente anche noi, che ci muoviamo nel web, oppure spediamo email a raffica: una serie convulsa di email, poi niente, quindi ancora una serie, e ancora nulla: pause lunghe e movimenti improvvisi. Lampi, come dice il titolo.

 

Peccato che di Lévy Barabási non dica nulla. Lo cita solo in una nota, dove si apprende che il tema è stato sviluppato da Benoît Mandelbrot, il creatore dei frattali, scomparso da poco, autore che probabilmente non ha molto di narrativo (o narrabile) come invece tutti gli eroi che compaiono in Lampi – altro esempio della narrazione continua che ha invaso le nostre vite (e librerie) senza davvero raccontare nulla di sostanzioso. La smetto qui, non senza consigliare a chi vuole saperne di più di queste cose di leggere un vecchio, ma sempre nuovo libro: Caos di James Gleick, uscito nel 1987 (Rizzoli).

 

Alla fine una cosa l’ho imparata da Barabási che per le sue ricerche è ben finanziato (ne parla lui stesso) da sponsor americani: non c’è una legge per capire se una cosa succederà o no, dove succederà. Nessuno sa se questo stesso articolo sarà letto o no in questo sito, da chi, quante volte, per quanto tempo, se sarà citato nel web, apprezzato, cliccato, linkato, likato o finito nel dimenticatoio, in quel cimitero degli elefanti che è anche, e soprattutto, Internet. Regola non c’è, ed è bene così. “Ancora un momento. Sto per finire Lampi di Albert-Làszló Barabási…”. Per fortuna.

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