Perchè crediamo a Primo Levi?

30 Novembre 2012

C’è un aspetto dell’opera leviana che credo sia difficile sopravvalutare: il divario quantitativo tra Se questo è un uomo e (per usare l’espressione di Marco Belpoliti) il “macrotesto del Lager”. Se questo è un uomo, così come si presenta oggi, è il risultato di una composizione insieme rapida e graduale. Rapida perché il libro è stato steso nell’arco di pochi mesi, fra il 1946 e il 1947; graduale perché la prima redazione è stata rivista e integrata per l’edizione 1958, oltre che definitivamente corredata dall’Appendice, nel 1976. Levi non era quindi alieno dall’apportare varianti. Ma su Auschwitz ha scritto molto altro: e molto ha continuato a narrare circa la propria diretta esperienza. I primi capitoli della Tregua, la sezione iniziale di Lilìt, svariati passaggi dei Sommersi e i salvati, articoli e racconti sparsi, disseminati in varie sedi. Decine e decine di testi, senza contare le poesie, senza contare il lungo saggio Rapporto sulla organizzazione igienico-sanitaria del campo di Monowitz, così ricco di particolari: una mole imponente di pagine. Perché non ha mai pensato a un’ulteriore edizione di Se questo è un uomo, che ne includesse almeno una parte?   

 

Capisco che, così posta, la domanda suona abbastanza insulsa. Ovvio: perché Se questo è un uomo, come ogni opera, ha un proprio interno equilibrio. Non si può dilatare indiscriminatamente un libro senza sfigurarne la fisionomia; nemmeno un libro di memorie. Ma ecco, questo è il punto. L’equilibrio che contraddistingue il capolavoro leviano è il prodotto di una strategia narrativa che poggia su una precisa economia della memoria. Due mi paiono le sue componenti fondamentali: la ponderazione delle informazioni e la distinzione fra memoria individuale e memoria collettiva.

 

La memoria – Todorov lo ha detto in maniera particolarmente efficace – non è l’opposto della dimenticanza, ma una miscela di ricordo e oblio: “I due termini in contrasto sono la cancellazione (l’oblio) e la conservazione; la memoria, sempre e necessariamente, è un’interazione fra i due. La resa integrale del passato è una cosa impossibile (ma che un Borges ha immaginato nella sua storia di Funes el memorioso) e, d’altronde, spaventosa; quanto alla memoria, è giocoforza una selezione: alcuni aspetti dell’avvenimento saranno conservati, altri immediatamente o progressivamente scartati, e quindi dimenticati” (Les abus de la mémoire, 2004).

 

Se la memoria deve per sua natura essere selettiva, le memorie, in quanto testo narrativo, sono tenute ad esserlo a maggior ragione. Ancora più che ricordare tutto, raccontare tutto è impossibile. Potremmo naturalmente menzionare a questo proposito alcune dichiarate reticenze leviane. Ma ben altro è il vaglio a cui Levi sottopone i propri ricordi. Durante la sua prigionia assiste a quattordici impiccagioni pubbliche; ne racconta una sola. Nella lettera del 31 luglio 1961 a Jean Samuel (il “Pikolo” del Canto di Ulisse) elenca quasi 50 componenti del Kommando chimico; in Se questo è un uomo ne sono menzionati forse una dozzina. Molti, moltissimi i particolari che tace: ad esempio, l’intero campionario di specificazioni patologiche contenuto nel Rapporto igienico-sanitario scritto con Leonardo De Benedetti e pubblicato nel ’46 sulla “Minerva medica”. 

 

Il problema della veridicità autobiografica potrebbe essere formulato in questo modo. I vissuti che la narrazione aspira a rievocare sono ruvidi, frastagliati, irregolari, virtualmente inesauribili, come la costa della Gran Bretagna di cui ha parlato Benoît Mandelbrot nel suo famoso libro (Gli oggetti frattali. Forma, caso e dimensione, 1975). Riprodurli con esattezza, dar conto di ogni anfratto e smerlatura, inseguire ogni grinza, crespa, implicazione, esula dalle possibilità concrete: quello che si può fare è dare la migliore approssimazione della loro dimensione frattale, identificando gli adeguati algoritmi. Detto in altre parole, raccontare esperienze complesse richiede in primo luogo una coerenza di scala: occorre individuare un livello appropriato di generalizzazione, e ad esso attenersi, cercando di evitare l’accumulo di particolari insignificanti o centrifughi. “Levi era pienamente consapevole” ha scritto Alberto Cavaglion nel suo recente commento a Se questo è un uomo, “che un documento, da solo, non può essere espressione della realtà”.  Un dato irrelato, frammentario, significa poco: può valere come “ricordo”, nel senso oggettuale di privato aide-mémoire, ovvero come reliquia, come feticcio. Levi nutriva un altro desiderio: quello “di dare struttura, organizzazione alle proprie esperienze” – così leggiamo in un’intervista radiofonica del 1985 – “di non lasciarle in uno stato informe, di ridurle a sistema”.

 

Quando poi si tratta di raccontare un’esperienza estrema come quella del Lager, è indispensabile tenere presente la disponibilità ricettiva dell’uditorio. Ogni reduce ha riportato dal campo una quantità di immagini sature di orrore e di strazio. Puntare sull’efficacia dei dettagli espone al rischio di compromettere l’effetto complessivo del racconto. È questo un carattere ben noto di Se questo è un uomo, del resto chiaramente annunciato nella premessa: non ci sono nel libro quei “particolari atroci” così frequenti nelle memorie concentrazionarie, e che rendono emotivamente così difficile ai posteri, studiosi inclusi, documentarsi in maniera adeguata. Anche in Chronique d’ailleurs (1996), le tardive memorie di Paul Steinberg (il personaggio chiamato “Henri” in Se questo è un uomo), che per sua stessa ammissione sarà senza dubbio “uno degli ultimi testimoni a essersi espresso, e i cui ricordi risulteranno maggiormente decantati”, si trova una scena che ha un grado di efferatezza ignoto alla norma leviana (la fine di un vecchio zingaro, che il sadico Hauptscharführer Rakasch uccide premendogli la testa con lo stivale, faccia in giù, in una pozzanghera). Siamo così al secondo aspetto dell’economia memoriale di cui sopra si diceva. La genesi di Se questo è un uomo, raccontata in maniera sintetica ma essenziale nel capitolo Cromo del Sistema periodico, richiede la transizione dall’orizzonte personale dei ricordi – vivi, brucianti, brulicanti, impadroneggiabili – all’orizzonte collettivo della memoria. Alla memoria, cioè, intesa come fatto sociale, condivisibile e trasmissibile: che esige una presa di distanza, l’interposizione di un diaframma – innanzitutto temporale – tra l’evento traumatico e il presente del resoconto. È questo uno dei volti della indispensabile modificazione adattativa che la memoria umana introduce. La distanza ha carattere essenzialmente cronologico: “Meditate che questo è stato”, recita infatti al v. 15 la poesia d’apertura: “è stato”, non: “è”.

 

Lo stesso Todorov ha parlato di una distinzione tra uso letterale e uso esemplare della memoria. Il primo preserva l’evento doloroso nella maniera più vivida, ma lo rende con ciò stesso insuperabile, “intransitivo”, esponendo al pericolo di sottomettere il presente al passato. Il secondo invece – l’usage exemplaire – ne ricava un modello per comprendere situazioni nuove, ossia permette di utilizzare il passato in funzione del presente (ed è per questo potenzialmente liberatorio). Levi, in Cromo, definisce il nuovo corso della sua impresa, dopo l’incontro con la futura moglie Lucia Morpurgo, “un costruire lucido, ormai non più solitario: un’opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s’industria di rispondere ai perché”.

 

I contenuti di una narrazione autobiografica sono, inevitabilmente, il risultato di un’elaborazione. Per elaborare composti memorizzabili bisogna “filtrare, distillare, concentrare” (così si legge nell’articolo Argilla d’Adamo del 1987). Questo è tanto più vero nel caso del resoconto di esperienze estreme, che segnano una discontinuità dell’esperienza del tempo. All’inizio di un suo davvero memorabile volume (La mémoire, l’histoire, l’oubli, 2000) Paul Ricoeur si richiama al binomio aristotelico memoria/reminescenza. Il primo termine, mnēmē, designa il ricordo presente alla coscienza, il secondo, anamnēsis, la rimemorazione, il richiamo di contenuti memoriali accantonati o nascosti. Ora, la condizione più comune presso gli autobiografi è quella di dover recuperare il passato per poterlo raccontare: l’anamnesi è il presupposto della narrazione. Ma per chi è sopravvissuto al Lager le cose vanno in maniera diversa. Rievocare quanto è accaduto non costa alcun impegno di rimemorazione, giacché i ricordi sono fin troppo vivi nella mente. Il problema sarà semmai di non esserne sopraffatto: di impedire che il peso di un passato spaventoso schiacci il presente, o lo invada, come un incubo dal quale non ci si risveglia (ipotesi tutt’altro che peregrina, come dimostra l’epigrafe in versi della Tregua, Alzarsi). Il carattere traumatico delle esperienze vissute impedisce al reduce di percepirle come passato, cioè di allontanarle dal primo piano della coscienza. Parafrasando Ricoeur, potremmo dire che in questo caso il “gradiente di distanziazione” si azzera.

 

I termini dunque si capovolgono. Non occorre ricordare per raccontare, bensì raccontare per ricordare. Raccontare, distillare in forma di racconto, è il mezzo per conferire a quegli eventi lo statuto di passato, per imprimervi quel contrassegno di anteriorità senza il quale non si dà memoria (“la memoria è del passato”, dice Aristotele). Solo in questo modo essi potranno essere considerati come qualcosa che è bensì avvenuto, ma che non rischia di confondersi con il presente: che non lo offusca, non lo contamina – non lo perturba o stravolge. E d’altro canto, solo allontanandoli da sé, sospingendoli nel passato, quegli eventi potranno essere rappresentati – resi presenti – agli altri, e i ricordi personali farsi memoria collettiva. “Meditate che questo è stato”. Un Passato prossimo, nel senso più pregnante dell’espressione: l’essere “passato” rispetto a chi narra è condizione necessaria per esser reso “prossimo” (nei limiti del possibile) a chi ascolta.

 

 

Questo articolo è parte della relazione tenutasi a Torino l8 novembre 2012 nell’ambito della quarta “Lezione Primo Levi”, l’appuntamento annuale organizzato dal Centro Studi Primo Levi.

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